Un pezzo per SPORT
un’altra visione su Elfriede Jelinek
da Sport. Un pezzo di Elfriede Jelinek
traduzione di Roberta Cortese
arbitro Patrizia Bernardi
titolari in campo Alberto Sarti, Andrea Fugaro, Anna Amadori, Carolina Talon Sampieri, Chiara Guadagnini, Daniela Cotti, Fabrizio Croci, Francesca Mazza, Gianluca Enria, Nunzio Calogero, Olga Durano, Saverio Peschechera, Selvaggia Tegon Giacoppo, Stefano Toffanin
in panchina Camilla Quarta, Delia Porcu, Dimitris Papadopoulos, Elisa Moscatelli, Giulia Lorenzelli, Giulio Maria Corbelli, Giuseppe Pagliarisi, Gloria Lanzoni, Ilaria Cecchinato, Lorenzo Pacilli, Piero Giovannini
a terra Eva Robin’s
luci, scene e costumi Andrea Barberini
con la collaborazione di Chiara Guadagnini
grafica Albertina Lipari De Fonseca
cura Monica Nicoli, Saverio Peschechera, Alberto Sarti
grazie a Stefano Casi, Giulio Maria Corbelli, Elena Di Gioia
una produzione Teatri di Vita
in collaborazione con Emilia Romagna Teatro, Festival Focus Jelinek
il sostegno di Comune di Bologna – settore cultura, Regione Emilia-Romagna – servizio cultura, Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo
a Franco
Debutto: Festival Vie, Arena del Sole, Bologna, 23 ottobre 2014
io non compaio, al massimo vado e vengo, mi siedo in silenzio, mi rialzo, senza che nessuno se ne accorga. in me tu vedi la personificazione del disprezzo che mi colpisce e mi viene incontro; persino nel mio bell’appartamento immerso nel verde, ma scostante, puoi leggerlo, il disprezzo. lì non ho bisogno di persone…
Fare sport. Mente, corpo, spirito e ideologia. Decine di persone in corsa per la forma fisica, per definire la propria immagine. NOI, MASSE. Non è già questa una visione straordinariamente teatrale? Non ha già di suo la potenza di una storia umana incredibile, che trascende le lingue, le religioni, le razze, le epoche e in un colpo solo le abbraccia tutte con un nuovo colpo di classicismo? Non c’è per esempio tutto il novecento e duemila? L’esaltazione della razza, l’agit prop, le adunate “fascionaziste”, o l’uomo massa espressionista? Non ci siamo dentro? Per aderenza o sottrazione ci siamo noi. Interi. Immersi. Lo sport. Per parlare di vita. Forse proprio per questo lo sport è tale: mette in movimento un corpo per separarlo, grazie alla fatica, quanto più possibile dai pensieri. Affaticare le membra per recuperare la lucidità interiore. Gli uomini e le donne di quest’opera di Elfriede Jelinek sono appunto pezzi di un discorso sulla vita, sulla finitezza, sulla corporeità ma allo stesso tempo un pensiero inquieto sul senso primo del vivere.
Ascolta l’intervista a Andrea Adriatico per Panorama su RADIO3 SUITE del 18/02/2015
Visioni critiche
Tutti i cliché, i luoghi comuni diventano necessari per continuare il gioco dell’apparire a cui siamo
abituati. Questa realtà ci viene mostrata in Un pezzo per SPORT. Un’altra visione su Elfriede Jelinek di
Andrea Adriatico, visto all’Arena del Sole in prima assoluta. Entrando in sala il sipario è già aperto, gli
attori sono in pantaloncini, fanno ginnastica, esercizi di riscaldamento e si dividono in due squadre,
quella femminile e quella maschile. Mentre le luci si abbassano e i protagonisti si mettono ai lati opposti
del palco sedendosi su due file di sedie, vediamo che al centro della scena da un’altissima e immensa
gonna nera spunta il busto di una donna, l’Autrice, come verrà chiamata dai personaggi di questa pièce,
a personificare la stessa Jelinek. Non c’è tempo per pensare, bisogna muoversi, sudare, correre e
tonificarsi; in tutto lo spettacolo i personaggi non sono mai statici ma fanno addominali e stretching,
anche mentre parlano. L’Autrice-arbitro, interpretata da Patrizia Bernardi, sovrasta la scena e col suo
fischietto dirige l’opera teatrale, presentando i personaggi tramite una delle interpreti sul palco.
Vediamo battibecchi tra uomini e donne, ragazze che espongono il proprio abito-corpo, signore che
celebrano la loro bellezza e uomini Ken con la maglia di Arnold Schwarzenegger.
Una presenza si aggira tra i protagonisti, un corpo col volto da falco interagisce con gli altri e diventa
oggetto di scherno nel momento in cui viene svelata la sua vera identità: è una trans (personificata da
Eva Robin’s) che nonostante la maschera da predatore diventa vittima di una società che non accetta i
“diversi”. Cos’è la diversità? Avere un organo sessuale diverso o avere un’intelligenza,
un’immaginazione diversa? Avere un corpo snello e slanciato o non preoccuparsi del proprio peso?
Essere una donna o essere un uomo? Siamo davanti a un elogio del corpo che sconfina in una critica
all’omologazione, una continua trasfigurazione che proietta il mondo reale usando lo sport come
metafora di vita. “Che anche i corpi si potessero plasmare. Non lo sapevo”: questa è la critica
dell’Autrice che manovra a suo piacimento i suoi subordinati, anche scaraventandoli su stessa, come a
rimarcare lo stato mentale di una società che tenta di ribellarsi nonostante la consapevolezza di essere
manipolata anche quando protesta.
Vediamo una competizione tra individui del sesso opposto, tra donne che vogliono paragonarsi ad altre
donne e che a loro volta si paragonano agli uomini. Una sfida che va avanti a mosse intrise di vacuità, a
colpi di palle da tennis scagliate contro i corpi degli interpreti, involucri inutili che svaniscono cascando
a terra. Perché il nostro corpo è solo materia, un mezzo, un vestito che può essere buttato e cambiato.
Perché i dialoghi provocatori e i discorsi frivoli che accatastano vuoto su altro vuoto nascondono, in
realtà, una profonda crisi umana su come stare al mondo.
Parole chiave dello sport come (in ordine alfabetico) bellezza, competizione, corpo, movimento, violenza e vittoria regolano coerentemente il lavoro degli interpreti tra i quali (in ordine alfabetico) Anna Amadori, Patrizia Bernardi, Fabrizio Croci, Olga Durano, Gianluca Enria, Andrea Fugaro, Francesca Mazza, Saverio Peschechera, Eva Robin’s, Alberto Sarti, Carolina Talon Sampieri, Selvaggia Tegon Giacoppo e Stefano Toffanin.
Attorno a un fatto centrale di ordinaria brutalità, un pestaggio, i personaggi coinvolti ripercorrono la propria storia e il proprio coinvolgimento con lo Sport, affiancandoli a riflessioni estetiche, sociologiche e politiche. Se i monologhi dei convincenti interpreti costituiscono momenti di verità e snodi del racconto, fondamentale è la presenza di quel residuo tragico che è il coro, rianimato dalla contrapposizione di uomini e donne, schierati in due squadre. La prima lotta, nell’opera della Jelinek, è quella tra i sessi (qui culminante nel sacrificio del transessuale) e questa contrapposizione crea una serie di sfide tra coppie (madre e figlio, padre e figlia, la donna rifiutata e il suo uomo) che articola ulteriormente questo potente lavoro.
Se abbiamo una partita, abbiamo un arbitro: l’autrice. Interessante come la presenza di una narratrice nel testo di partenza (e di una narratrice non certo discreta) si avverta nel lavoro di Adriatico, come già accaduto per un altro spettacolo del Festival Focus Jelinek, “Le amanti” di Teatrino Giullare. In entrambi i casi, non è un semplice omaggio o il pagamento di un debito dovuto, ma un elemento imprescindibile che influenza la struttura della scena e dello spettacolo.
Troneggiante nella sua gonna-cupolone alta diversi metri, con il suo fischietto l’autrice dirige l’azione, commentando e interloquendo con i personaggi. Distante dalla massa, come le viene rimproverato: il rapporto dell’intellettuale con la società è un altro dei temi di SPORT. E come si sviluppi questo rapporto non è per nulla scontato, si dà a voce a entrambi e ognuno difende le sue ragioni: non abbiamo demonizzazioni né agiografie. All’intellettuale della società massificata restano comunque molte possibilità, dal subire il linciaggio al chiudersi nella torre d’avorio: forse è saggio accontentarsi di un pareggio.
Quando si entra nel teatro il palcoscenico è già in piena azione. Uomini e donne in divisa, con magliette rispettivamente blu e rosa sono già in movimento. Chi gioca a calcio, chi corre da una parte, chi salta dall’altra, chi agita braccia, gambe, busto. Sudore, fatica, determinazione, grinta e muscoli tesi sono gli ingredienti indispensabili per stare nell’Olimpo, per essere l’eccellenza. Al centro, grande, impetuosa, severa ma compassionevole c’è lei: l’autrice. Il regista decide di posizionarla in alto, quasi come una dea. Tutta di nero, con una grande gonna a balze che occupa il centro del palco, l’autrice sarà sempre presente e illuminata e dirigerà l’azione come un perfetto arbitro. Solo una presenza è diversa da tutte le altre, non indossa la divisa ed ha il volto di un rapace (impersonato da Eva Robin’s). Questa entrerà in relazioni con gli attori in scena, incarnerà un figlio morto e, infine, sarà sbeffeggiato e deriso nel momento in cui si scopre la sua identità di trans, perché è impossibile in questa cornice di conformismo poter accettare chi esce dagli schemi, chi ha il coraggio di essere se stesso, chi è “diverso”.
Mettere in scena la Jelinek vuol dire confrontarsi con una scrittura graffiante, sarcastica, pungente. Le parole come un bisturi sono qui strumenti affilati ed estremamente precisi, devono essere usate con attenzione ma allo stesso tempo devono penetrare, incidere, solo così possono diventare una cura per i malesseri della società, per divellere le mediocrità dell’uomo. Confrontarsi registicamente con tutto ciò, approcciarsi a un’autrice così stratificata non è semplice. Adriatico ha scelto una messinscena ricca di persone e di parole. Troppe parole e, alcune volte, poco chiare e poco capaci di rimanere impresse. Ha un certo punto si ha la sensazione che la tensione del pubblico cali e si percepisce una certa stanchezza e difficoltà di rimanere concentrati sullo spettacolo e sul suo senso profondo.