The Sunset Limited
(L’espresso del tramonto)
di Cormac McCarthy
uno spettacolo di Andrea Adriatico
traduzione di Stefano Casi
con Stefano Dionisi e Mambaye Diop
scene Andrea Cinelli
abiti di Gaetano Navarra
cura e produzione di Francesca Ballico, Daniela Cotti, Monica Nicoli, Saverio Peschechera
tecnica Alberto Irrera
scenotecnica Giovanni Marocco
suono Roberto Passuti
sartoria scene Isabella Sensini
oggetti di scena Freak Andò
ufficio stampa Studio Morabito
grazie a Vittorio Alvino, Giulio Maria Corbelli, Teatroinscatola
Una produzione Teatri di Vita
con la collaborazione dell’Arena del Sole/Teatro Stabile di Bologna e il contributo del Dipartimento dello Spettacolo
a Corso, agli aquilani
Debutto: Bologna, Arena del Sole, 19 novembre 2010.
Prima rappresentazione in Italia del testo.
Ci sono solo un bianco e un nero. Un tavolo. Una bibbia. Un giornale. Un paio di occhiali. Un taccuino e una matita. C’è un antefatto: il nero ha strappato il bianco al suo destino suicida, lo ha salvato dal suo intento di gettarsi sotto un treno, il Sunset Limited.
McCarthy elimina gli orpelli narrativi, l’ambientazione, i plumbei paesaggi apocalittici dei suoi romanzi e lascia solo un tavolo e due volti, un bianco e un nero, a cui tocca riproporre la stessa millenaria domanda: perché salvare una vita? a che vale la vita?
Sunset Limited è un «romanzo in forma drammatica». Dialogo puro. Batti e ribatti allo stato grezzo. Il bianco vuole morire. Il nero vuole salvarlo.
Visioni critiche
Non è certamente l’unico romanzo a spingere verso una sua destinazione scenica: in più, i contenuti di Sunset Limited hanno una qualità tematica molto teatrale, da “teatro delle idee”, che qui si fronteggiano nella maniera oppositiva di un conflitto dialettico. I personaggi sono autenticamente delle persone drammatiche, cioè incarnano proprio quei temi, sentimenti, bisogni e ideali che dibattono con convinzione, asprezza ed energia verbale. Si trovano uno di fronte all’altro in una stanza di un quartiere nero di New York. Sono un Nero e un Bianco: non hanno neppure un nome che li identifichi, quasi a rendere ancora più assoluta e universale la loro storia. Il Nero ha salvato il Bianco, un professore, dal tentativo di suicidio. Da qui, una serie di interrogativi “cosmici” sul senso della vita e della morte, sulla religione, sull’ateismo, sul valore da dare alle piccole come alle grandi cose. Il tono viene misurato dalle reciproche argomentazioni: profetico e apocalittico per il Nero, dimesso e razionale per il Bianco. Per entrambi siamo comunque sulla soglia di un una “bancarotta spirituale”. Ma tutto si infrange in un confronto senza uno scopo preciso, quindi privo di un’azione teatrale vera, come di un testo bloccato dal suo stesso artificio retorico. Non a caso l’aspetto più interessante del dramma è quando i personaggi, sprovvisti di uno statuto drammaturgico, ricostruiscono il proprio passato. Restiamo dentro un gioco verbale pre-drammatico che ci lascia indifferenti, estranei al destino di quei due uomini e alle questioni trattate. La traduzione di Stefano Casi riconverte i dialoghi nella direzione di una discorsività più decisamente teatrale, mentre la regia di Andrea Adriatico sposta tutto all’esterno, in un parco ricoperto di gialle foglie autunnali, accentuando il tetro simbolismo del dramma con intriganti effetti di luci e ombre, o strani, eloquenti esiti di movimento che portano il Nero e il Bianco spesso a sovrapporsi, come se alla fine fossero una sola persona, un unico pensiero diviso per due. Stefano Dionisi e Mambaye Diop appaiono molto coscienti di quello che dicono, ma poco convincenti.
La posta è la vita del bianco, che ci vuole riprovare e sa che lo farà comunque, mentre il nero intende salvarlo considerandosi redento a sua volta. Lo spettacolo di Adriatico tiene con desolata nitidezza il passo del testo, traducendo i conflitti interiori in una finta calma visiva senza perdere tensione. Scansione giusta e sobrietà con qualche guaio però nella recitazione: per quanto tenti di essere secco l’incalzare inquisitorio di Mambaye Diop, Stefano Dionisi visibilmente impacciato al debutto teatrale rivela fatica nella dizione e toni incerti. La barriera di cinismo culturale, privilegio e maledizione del suo personaggio, diventa una specie di stampella fissa, un alibi monocorde dietro cui trincerarsi. Accade anche per colpa della ridondanza del testo, che rimbalza esaperante sempre al punto di partenza avvitandosi su se stesso.
“Sunset Limited” nasce come “romanzo in forma di dialogo”. Nelle pagine scritte le parole tra i due personaggi hanno un andamento serrato: si rincorrono, si negano a vicenda, si svuotano, lottano, si ripetono e si sprecano per tentare una comprensione impossibile o per soffocare dubbi che non lasciano speranza. È in questo la peculiarità della forma creata da McCarthy. La messa in scena di Adriatico ripete la struttura quasi alla lettera, non aggiungendo o togliendo nulla al testo originale. Un lungo dialogo recitato in stile cinematografico (com’è la natura dei due attori scelti, del resto), senza però la stessa possibilità offerta dalla macchina da presa: quella di dirigere lo sguardo dello spettatore fin nel minimo dettaglio. La parola in scena rimane detta, non diventa strumento per mettere in atto la battaglia che avviene nella pagina; lo spettatore viene informato sui due protagonisti dagli attori, che ne ripetono le frasi, un dire ad alta voce. Non c’è la crudezza di McCarthy, né la claustrofobia di uno spazio saturo dove due uomini si affrontano per una questione di vita o di morte.
La scelta del regista è chiara, ma viene da domandarsi della necessità di una simile operazione. Dal testo scritto alla messa in scena emerge uno scarto di linguaggio che assomiglia a un salto mortale: non è solo una traduzione visiva e tridimensionale della pagina, è la creazione di un’altra forma. Anche per quanto riguarda le parole, che non possono valere solo per il fatto di essere dette, perché rischiano di perdersi. Nello scrivere di McCarthy travolgono il lettore perché lo costringono e hanno una densità difficile da eludere; nello spettacolo di Adriatico si diluiscono fino a diventare uno degli elementi in scena, al pari dell’albero proiettato, dei corpi degli attori, delle foglie a terra.
Come ulteriore punto di forza, sottolineiamo l’originalità delle scelte di regia: i due personaggi parlano attorno ad un tavolo, posizionato sopra una lunga e altissima piattaforma ricoperta di foglie secche, la quale ricorda sicuramente la pensilina della metropolitana e, più in astratto, forse simboleggia la caducità e la malinconia dell’esistenza. Il ritmo del dialogo viene spezzato e imbastito grazie ai cadenzati spostamenti del tavolo che, più volte, viene portato avanti e indietro lungo la scena, quasi a simboleggiare i mutamenti e le differenti posizioni del pensiero dei protagonisti. Infine, non possiamo dimenticare di ricordare l’estrema qualità del testo, sempre molto coerente, mai retorico e spesso cinicamente divertente. McCarty, mettendo a confronto due esistenze così divergenti, mi verrebbe da dire così spiccatamente “Americane”, una impregnata di materialismo sterile e l’altra ingenuamente puritana, compie un’operazione molto interessante. Lo scrittore riesce a dimostrare come anche i punti di vista più diversi possano, in un modo o nell’altro, conoscersi e, in un certo senso, sfiorarsi. Nessuno dei due personaggi risulterà vincente sull’altro: il bianco non verrà salvato e il nero non vedrà trionfare il suo messaggio di fede. Eppure, questi due uomini riusciranno ad entrare in empatia l’uno con l’altro, condividendo, seppur in piccola parte, le proprie verità e convinzioni.