Salvo, o della santa voglia

uno spettacolo di Andrea Adriatico

creato con Patrizia Bernardi, Rocco Bernasconi, Daniela Cotti, Gabriella Fabbri, Stefania Gelli, Roberto Ledda, Davide Pujatti, Barbara Pulliero

drammaturgia di Stefano Casi

una produzione di Teatri di Vita
realizzata con il contributo del Settore Cultura del Comune di Bologna, del Servizio Cultura della Regione Emilia Romagna, del Dipartimento dello Spettacolo – Presidenza del Consiglio dei Ministri

 

Visioni critiche

Grande dispendio di glamour e precisione dei movimenti che filano come in una coreografia, gesti ripetitivi, ossessivi, apparentemente insignificanti per giungere ad uno svelamento finale. Sulla scena appaiono figure incappucciate con una sorta di calzamaglia di colore bianco aperta sugli occhi e chiusa al collo da una gorgère, indossano abiti vagamente in stile, che nel buio sembrano condurci nei labirinti figurativi di Goya.

Il buio assoluto, squarciato da due raggi di luce e da macchie di un blu forte. Due proiezioni di giovani uomini nudi col membro in erezione. Una panchina circolare da giardino al centro dello spazio, un bancone da bar verso il pubblico, un televisore con lo schermo fisso su un blu altrettanto intenso e misterioso. Due figure inquietanti, nere, avvolte in pesanti abiti ottocenteschi, col volto cancellato da una specie di passamontagna bianco, che richiama anche uno chador. Siamo nella casa di Bernarda Alba, il marito è morto da poco e la vedova imporrà alle figlie e a tutte le donne un lutto eterno. Il testo di Garcia Lorca è spogliato di ogni narratività: diventa un circolo senza scatti né sviluppo; un viluppo di anime che percorrono il buio in figurazioni circolari attraversando le deboli luci, colorando per un attimo di blu o di parti delle figure maschili proiettate i volti cancellati dal bianco dei cappucci. Un’atmosfera claustrofobica, in cui il folclore spagnolo  sostituito da tenue sottofondo di nostrano liscio.
Il circolo, alla fine, si romperà, in una sovrapposizione di elementi e di sensi. Le figure si tolgono i cappucci, di fronte al pubblico: i volti a poco a poco si rivelano. La musica cede il posto alla parte finale del testo del film Blu di Derek Jarman che è passato per oltre un’ora, nella sua radicale monocromia, senza audio, sullo schermo televisivo: liberarsi dall’immagine prigione dell’anima; ma anche consistere nell’immagine, nel desiderio del sesso, del corpo, sulle note dei Frankie Goes to Hollywood, e su paesaggi proiettati in terra, virati in blu. Il blu infinito, insondabile, che salva. Con riflessi optical della panchina. Un richiamo ad anni di ribellioni e di desideri. Mentre i volti degli interpreti, appena percepibili in una sfilata finale in debole controluce, sono finalmente umani, bellissimi.

Sulla scena scura si muovono corpi ciechi nel loro bozzolo di velluti e gorgiere barocche, dal fondo arrivano voci illusorie, su tutto pesa la violenza del desiderio deformato, negato. E’ il sottoscala di Bernarda Alba e delle sue cinque figlie senza uomini, sui muri scabri si proiettano fantasie, immagini in realtà più tenere che oscene. Fantasie di salvezza? In fondo alla scena uno schermo rimanda una costante immagine blu, e solo a fine spettacolo lo scorrere dei titoli svela che abbiamo assistito a Blu di Derek Jarman.