Quai ouest
di Bernard-Marie Koltès
uno spettacolo di Andrea Adriatico
con Anna Amadori, Gabriele Duma, Olga Durano, Gianluca Enria, Francesco Martino, Maurizio Patella, Selvaggia Tegon Giacoppo, Florentin Tchinda Mohamed
immaginazione tecnica Carlo Quartararo
cura Monica Nicoli, Saverio Peschechera
scene e costumi Andrea Barberini
acconciature Orea Malià
aiuto regia Paola Bolelli
tecnica Rabii Sakri
assistenza Angela Grasso
produzione Teatri di Vita – Bologna
in collaborazione con Emilia Romagna Teatro Fondazione
con il sostegno di Mibac-Direzione Generale Spettacolo dal Vivo, Regione Emilia Romagna, Comune di Bologna
grazie per il supporto a Danesi Laterizi, AZ Trasporti, Car Bologna – Concessionaria Lancia
agli aquilani, agli emiliani, a chi trema…
Debutto: Festival VIE, Finale Emilia, Argine destro del Panaro, 26 maggio 2013.
Un uomo vorrebbe morire. Buttarsi nel fiume in un posto deserto, nei pressi di un grande hangar, dopo aver messo due grosse pietre nelle tasche della giacca, per non rimanere a galla. E con l’acqua sporca e delle conchiglie che gli riempiono la bocca, sparisce in fondo al fiume come la ruota sgonfia di un camion. Ma qualcuno si butta dietro di lui e lo ripesca. Fradicio, tremante, arrabbiato, chiede: “Cosa vuole da me?”. La sua macchina è sempre lì, ma il motore è fuori uso e le ruote sono state bucate. “Cosa vuole da me esattamente?”.
Quai Ouest è una delle opere più affascinanti e misteriose, di seducente raffinatezza linguistica, di Bernard-Marie Koltès, scritta al rientro da un viaggio in America, dove lo scrittore francese rimane colpito dalla visione di un grande hangar in un porto. E’ un testo che parla dell’emergenza che viviamo, dei conflitti e delle migrazioni, temi cari a Koltès, che Andrea Adriatico ha messo in luce nei tanti attraversamenti che ha compiuto nella sua opera. Dopo gli omaggi a Koltès negli anni ’90 (l’ultima notte, fuga, là dove ci si vede da lontano, tra il 1991 e il 1994) e dopo Il ritorno al deserto (prima rappresentazione assoluta in Italia, 2007), Adriatico ritorna ancora una volta a confrontarsi con il “suo” autore più frequentato, mettendo in scena per la prima volta in Italia Quai ouest. Un’opera che dietro alla trama dal tessuto shakespeariano, e con una scansione temporale che segna nettamente l’avvicendamento del giorno e della notte, nasconde i temi più vibranti del mondo di Koltès: un mondo di commerci, di scambi, di traffici…
Lo spettacolo, realizzato in collaborazione con Emilia Romagna Teatro Fondazione, è stato creato per il Festival VIE.
Visioni critiche
Premi Ubu 2013
Quai ouest ha ricevuto i voti di Gerardo Guccini per la miglior scenografia e per le migliori attrici non protagoniste Anna Amadori e Olga Durano; e i voti di Massimo Marino per la miglior scenografia (“scena ‘ferita’, en plein air”) e per la miglior attrice non protagonista Olga Durano.
recessi di abbandono e devastazione, rendendo metaforica la città reale che abbiamo visto rappezzata ancora in modo incompleto, con foto sulle recinzioni a ricordare come dal maggio in cui la terrà tremò si sia comunque rimesso in moto un processo di ricostruzione. In quell’ambiente lunare si precipiteranno ombre di uomini e donne in preda a smania di traffici e scambi di ogni genere, ricchi sfiniti pronti a porre fine alla vita o a aggrapparsi a qualsiasi appiglio, popolo degli abissi che cerca di sopravvivere. Quai ouest di Bernard-Marie Koltès, lavoro poco frequentato, che anticipa temi del ben più risolto Nella solitudine dei campi di cotone, oscilla tra le seduzioni di un plot incalzante e la stasi di movimenti che tornano, in modo scivoloso, sempre su se stessi. Il regista del bolognese Teatri di Vita lo affronta con una compagnia composita ma efficace, con un taglio cinematografico che deborda dalla stretta scena, quasi un taglio nel paesaggio di pioppi, verso il rilievo dell’argine che circonda lo spettatore, investendolo in una discesa nell’abisso sotto la luce placida e feroce di un sole pallone e della (vera) luna piena, nel freddo notturno di un maggio inclemente, mentre un personaggio invoca straziato il silenzio, il rispetto del pianto e del lutto, in un mondo ridotto a hangar dissestato per innominabili transazioni. (…)
Si vendono, si comprano, cercano di uccidersi e qualcuno alla fine schiaccia il grilletto. Sono disperati tutti i personaggi di Quai ouest di Bernard-Marie Koltès, in un hangar in una zona degradata della città sul fiume nell’originale. Andrea Adriatico ha reinventato quel mondo di margini e di fantasmi sull’argine del Panaro, a Finale Emilia ancora con i segni del sisma dello scorso anno per il debutto al festival Vie, e ora a Bologna fino a domenica 9 giugno sulla riva del Reno, dove qualche anno fa il sindaco-sceriffo Cofferrati mandò le ruspe per abbattere un insediamento di immigrati rumeni. Il regista costruisce vari muri di mattoni a secco, interrotti, spezzati come resti di un luogo abbandonato a causa di un cataclisma, ferite in un paesaggio placido di alberi di alto fusto, di rumori di acqua, di versi di animali, di lampeggiare di lucciole. Non-luogo quasi ballardiano, per uno spettacolo di forte impianto cinematografico e di radicale denuncia sociale, senza nessun tono predicatorio. Koltès qui fa quasi l’antropologo o l’entomologo: e il regista di Teatri di Vita ritorna a uno degli autori che più ama, mettendo in scena solitudini e violenze, la sprezzante, incrollabile sicumera dei ricchi che dominano ogni rapporto e la fame disposta a tutto dei miseri, degli immigrati, degli ultimi. Adriatico, in questa quarta prova con Koltès, si cimenta ancora su un testo non del canone maggiore. Nato dalle suggestioni di un viaggio negli Stati Uniti, Quai ouest vive di spinte contraddittorie e sembra una preparazione del più denso Nella solitudine dei campi di cotone. Lì domina l’astratto meccanismo e il deflagrante furore lirico continuamente raffreddato; qui siamo precipitati in un plot tendente al noir, che spesso si incarta nella ripetizione o nell’a solo ritmato fino a limiti desolati dell’ossessione che diventa poesia. Adriatico coglie le indicazioni delle didascalie e chiede agli attori una recitazione antinaturalistica, come di fretta, come se qualcosa, un’impellenza fisica, premesse e essi avessero fretta di arrivare in fondo. E rende radicalmente (e simbolicamente) l’indicazione di tempo che fa trascorrere una notte, un giorno e un altro giorno. Un riccone, forse un supermanager o un magnate, con la sua biondoplatino segretaria d’ordinanza, capita in quel margine della città, sul fiume, per farla finita con la vita, dopo un misterioso crack economico. Con la donna tesa allo spasimo isterico dal timore di quel luogo tanto diverso dal suo rassicurante mondo di plastica, e comunque sempre tesa maternamente a proteggerlo oltre ogni buon senso, incontra il popolo degli abissi che lì dimora. E subito i suoi propositi di suicidio innescano appetiti sulla sua roba e compravendite vertiginose, patteggiamenti, scambi, rivelando pulsioni e opzioni opposte e devastanti. Il regista fa iniziare tutto nel buio del tramonto intorbidato nella notte, negando o rendendo difficile la visione in tutta la parte inziale. I personaggi sono ombre di un oltremondo che si dimenano tra le rovine. I ricchi arrivano con una macchina di grossa cilindrata; gli altri spuntano come animali da preda dai muri sgretolati, si inseguono, si desiderano, si ignorano, cercano di trarre profitto dal misterioso, quasi pasoliniano, Ospite. E, continuamente, si tradiscono tra di loro. Ci sono un giovane uomo, Charles, che sembra il capo, legato da un antico rapporto con un nero cui ha salvato la vita e che considera quasi una cosa sua, anche se quello, apprendiamo, a volte è stato più abile di lui a monetizzare. Ci sono un giovane che cerca di sedurre la sorella adolescente di Charles, un tipino che sa opporre resistenza per contrattare meglio il piacere, spinta da curiosità e attrazione. Col tempo spunteranno anche la vecchia madre di Charles, e scopriremo trattarsi di famiglia di immigrati ispanici, e il vecchio padre zoppo e spione, che quasi contagerà col tempo tutti gli altri con il suo passo claudicante, in un muoversi instabile, tremante, dilagante, che vedrà smuoversi perfino le pareti dei muri, come per un sisma interiore che quel mondo devasta. Il buio viene squarciato da una palla aerostatica che rappresenta il sole. Quasi come in un intermedio rinascimentale, girerà come il sole, spostando le sue ombre, illuminando e occultando nello stesso tempo relazioni e sentimenti. Per poi riprecipitare la scena, al suo tramonto, in un buio dell’anima che cederà il posto, incongruamente, a altri momenti di luce, mentre la situazione si fa più ingarbugliata, la vendita più difficile, e il ricco moribondo, bagnato per un tentativo di affogamento, azzoppato, si trasforma di nuovo in padrone che dirigerà perfino il proprio finale sacrifico rituale. Se gli uomini in queste lande sono impegnati in avventure del commercio della pelle, le donne rappresentano le tre età dell’essere umano, con particolari incrinature: l’adolescenza in cerca di esperienze, che cerca di salvaguardare i sogni in un ambiente torbido e ostile all’amore, dal quale cerca disperatamente, in modo inane, di evadere; la maturità efficiente, borghese, ben armata, materna, che si trova disequilibrata nel mondo nuovo, senza riferimenti, e cerca di erigere tutte le proprie resistenze per non crollare, con una punta di attrazione per quei “selvaggi” che sfocia in un (abortito) tentativo di seduzione; la vecchiaia di Cécile, la matriarca degli abissi, che ricorda tempi migliori e mondi diversi, e celebra quell’apocalisse delle relazioni con una devastante feroce nostalgia di un mondo lontano nello spazio e nel tempo, intinta in una magia sciamanica, che vorrebbe far indietreggiare le lancette dell’orologio. Ma intorno ci sono solo lupi, e l’urlo diventa più straziato, specie nei confronti del figlio traditore del passato e inadatto al presente per difetto di cinismo. Spettacolo denso, duro, complesso, chiede allo spettatore lo sforzo (ampiamente ricompensato) di seguirlo per più di due ore all’aperto (e al debutto il tempo è stato davvero inclemente). Vive di una cifra di regia rigorosa e di grande visionaria intelligenza, con interpretazioni che, seppure diseguali, arrivano a render bene le profondità del testo. Non sempre si decide in modo convincente tra naturalismo tendente al cinematografico (o alla fiction televisiva) e stilizzazione interiore. Su quest’ultima linea stanno la splendida Olga Durano, un’anziana madre di ruvida stregonesca violenza contadina, la segretaria survoltata di Anna Amadori, immagine arroccata di un mondo minacciato e Virgilio di un inferno vivente, la giovanissima Claire di Selvaggia Tegon Giacoppo, sempre tesa verso qualcosa, pronta a difendere il suo precario spazio di adolescente o a strappare un po’ d’aria in un ambiente soffocante, il riccone di Gabriele Duma, con una capacità di dominio delle situazioni tanto superiore da risultare cinica condiscendenza. Gianluca Enria (il vecchio padre zoppo e insinuante) e Florantin Tchibda Mohamed, il nero, rappresentante per Koltès dei popoli senza parola, stanno a metà tra i due mondi, mentre virano verso un naturalismo più spiccato Francesco Martino, un Charles più convincente nei momenti intimi che nelle fondamentali transazioni con gli altri, e un Maurizio Patella che si concede qualche stereotipo giovanilistico. Grande lavoro, comunque, che segna anche una svolta produttiva in Teatri di Vita, che per la prima volta collabora con Emilia Romagna Teatro. Quai ouest è uno spettacolo di quelli che cresce nella memoria anche a distanza di giorni dalla visione, che inquieta, con la sua capacità di parlare della nostra crisi economica e interiore per metafore, astrazioni, tagli di luce, accumularsi di ombre, per magiche o stridenti atmosfere umane e ambientali. Sarebbe bello rivederlo in teatro. Sarebbe un’ulteriore sfida ricostruire al chiuso quella ferita profonda nel paesaggio, che è lacerazione nella psiche, nei corpi, nella realtà di noi esseri umani immersi nel regime dello scambio globale.
Con questo suo Quei ouest, in prima rappresentazione assoluta per l’Italia, Andrea Adriatico sembra portare a compimento e a piena maturità espressiva un percorso drammaturgico e registico, dedicato a Bernard-Marie Koltès, cominciato agli inizi degli anni Novanta e culminato con Il ritorno al deserto del 2007. Quella distanza soprattutto formale, ironica, che caratterizzava Il ritorno, in Quai ouest è come se si fosse impossessata dei personaggi, ne definisce i confini, ne interdice la completa relazione degli uni con gli altri, ne rilancia, al tempo stesso, la natura simbolica e reale. Come se sotto la pelle di quelle parole, di quegli interminabili monologhi, di quelle conversazioni tenute sempre sul filo dell’insensatezza, che sembrano non avere uno scopo preciso se non quello di “anticipare” un’azione fisica vera, si nascondesse una devianza, un’amputazione, un delirio panico, l’infelicità per un dolore segreto, che proprio in quel posto buio di un molo fluviale occidentale, trova la metafora giusta per esprimersi, sorprendere quelle persone che stentano a diventare personaggi: presenze autentiche di un corpo sociale misero, emarginato, retto dall’istinto e non dalla logica di una rgaione condivisa. Otto persone si trovano “gettate” in quel luogo maledetto, un antro del mondo visualizzato magnificamente da Adriatico da un labirinto di muri, senza sapere esattamente cosa ci stanno a fare e cosa vogliono l’uno dall’altro: forse solo fuggire, da qualcosa, da qualcuno, in un viaggio senza meta, che non prevede ritorno. A rimuovere la crosta ideologica, politica del dramma, la sua alta tensione sociale ed etica, questa opera di Koltès sembra affondare le sue radici nel “teatro dell’assurdo” di Genet, Arrabal, Vitrac, ma principalmente di Pinter: quel luogo notturno, sterminato, fangoso, en plein air, con quella palla di luce artificiale che si muove misteriosa a illuminare come un sole malato la scena, con quella carica di minaccia incombente che possiede, somiglia tanto a una “stanza” chiusa pinteriana. Molto bravi tutti gli attori per intelligenza interpretativa e dedizione scenica.