Quai ouest

di Bernard-Marie Koltès

uno spettacolo di Andrea Adriatico

con Anna Amadori, Gabriele Duma, Olga Durano, Gianluca Enria, Francesco Martino, Maurizio Patella, Selvaggia Tegon Giacoppo, Florentin Tchinda Mohamed

immaginazione tecnica Carlo Quartararo
cura Monica Nicoli, Saverio Peschechera
scene e costumi Andrea Barberini
acconciature Orea Malià
aiuto regia Paola Bolelli
tecnica Rabii Sakri
assistenza Angela Grasso
produzione Teatri di Vita – Bologna
in collaborazione con Emilia Romagna Teatro Fondazione
con il sostegno di Mibac-Direzione Generale Spettacolo dal Vivo, Regione Emilia Romagna, Comune di Bologna
grazie per il supporto a Danesi Laterizi, AZ Trasporti, Car Bologna – Concessionaria Lancia
agli aquilani, agli emiliani, a chi trema…
Debutto: Festival VIE, Finale Emilia, Argine destro del Panaro, 26 maggio 2013.

Un uomo vorrebbe morire. Buttarsi nel fiume in un posto deserto, nei pressi di un grande hangar, dopo aver messo due grosse pietre nelle tasche della giacca, per non rimanere a galla. E con l’acqua sporca e delle conchiglie che gli riempiono la bocca, sparisce in fondo al fiume come la ruota sgonfia di un camion. Ma qualcuno si butta dietro di lui e lo ripesca. Fradicio, tremante, arrabbiato, chiede: “Cosa vuole da me?”. La sua macchina è sempre lì, ma il motore è fuori uso e le ruote sono state bucate. “Cosa vuole da me esattamente?”.
Quai Ouest è una delle opere più affascinanti e misteriose, di seducente raffinatezza linguistica, di Bernard-Marie Koltès, scritta al rientro da un viaggio in America, dove lo scrittore francese rimane colpito dalla visione di un grande hangar in un porto. E’ un testo che parla dell’emergenza che viviamo, dei conflitti e delle migrazioni, temi cari a Koltès, che Andrea Adriatico ha messo in luce nei tanti attraversamenti che ha compiuto nella sua opera. Dopo gli omaggi a Koltès negli anni ’90 (l’ultima notte, fuga, là dove ci si vede da lontano, tra il 1991 e il 1994) e dopo Il ritorno al deserto (prima rappresentazione assoluta in Italia, 2007), Adriatico ritorna ancora una volta a confrontarsi con il “suo” autore più frequentato, mettendo in scena per la prima volta in Italia Quai ouest. Un’opera che dietro alla trama dal tessuto shakespeariano, e con una scansione temporale che segna nettamente l’avvicendamento del giorno e della notte, nasconde i temi più vibranti del mondo di Koltès: un mondo di commerci, di scambi, di traffici…

Lo spettacolo, realizzato in collaborazione con Emilia Romagna Teatro Fondazione, è stato creato per il Festival VIE.

Visioni critiche

Premi Ubu 2013

Quai ouest ha ricevuto i voti di Gerardo Guccini per la miglior scenografia e per le migliori attrici non protagoniste Anna Amadori e Olga Durano; e i voti di Massimo Marino per la miglior scenografia (“scena ‘ferita’, en plein air”) e per la miglior attrice non protagonista Olga Durano.

(…) Andrea Adriatico a Finale Emilia sposta il teatro su un argine del Panaro, dove costruisce muri instabili, recinti di

recessi di abbandono e devastazione, rendendo metaforica la città reale che abbiamo visto rappezzata ancora in modo incompleto, con foto sulle recinzioni a ricordare come dal maggio in cui la terrà tremò si sia comunque rimesso in moto un processo di ricostruzione. In quell’ambiente lunare si precipiteranno ombre di uomini e donne in preda a smania di traffici e scambi di ogni genere, ricchi sfiniti pronti a porre fine alla vita o a aggrapparsi a qualsiasi appiglio, popolo degli abissi che cerca di sopravvivere. Quai ouest di Bernard-Marie Koltès, lavoro poco frequentato, che anticipa temi del ben più risolto Nella solitudine dei campi di cotone, oscilla tra le seduzioni di un plot incalzante e la stasi di movimenti che tornano, in modo scivoloso, sempre su se stessi. Il regista del bolognese Teatri di Vita lo affronta con una compagnia composita ma efficace, con un taglio cinematografico che deborda dalla stretta scena, quasi un taglio nel paesaggio di pioppi, verso il rilievo dell’argine che circonda lo spettatore, investendolo in una discesa nell’abisso sotto la luce placida e feroce di un sole pallone e della (vera) luna piena, nel freddo notturno di un maggio inclemente, mentre un personaggio invoca straziato il silenzio, il rispetto del pianto e del lutto, in un mondo ridotto a hangar dissestato per innominabili transazioni. (…)

Che la scrittura di Bernard-Marie Koltès occupi una posizione di particolare privilegio nelle regie di Andrea Adriatico è ormai un fatto consolidato. Gli attraversamenti compiuti dal regista nel corso degli anni hanno collaborato alla creazione di un profilo dettagliato dell’opera dell’autore francese, che ora trova un nuovo approdo nella messa in scena di uno dei suoi testi più complessi e stilisticamente raffinati, mai rappresentato in Italia: “Quai ouest”. Adriatico compie una scelta essenziale e inevitabile, che si pone come obiettivo quello di indagare l’opera che per prima rivelò il processo creativo dell’autore, mettendo in luce quegli elementi fondamentali che saranno costanti nelle sue produzioni successive. Ad ospitare il debutto della nuova produzione di Teatri di Vita, inserito all’interno del VIE Festival, oggi alla sua giornata conclusiva, non troviamo la comoda e accogliente sala di un teatro, bensì l’argine di un fiume, il Panaro, che scorre ai margini di un paese spezzato, Finale Emilia. La scelta del luogo si rivela immediatamente in perfetta sincronicità con i nuclei tematici cari a Koltès. Disperazione, lotte e rassegnazione saranno le motivazioni che guideranno i personaggi lungo la trama dell’opera, proiettando lo spettatore già dai primi momenti in un’atmosfera spettrale e pungente, di cui la costruzione di mura esibite nella loro più cruda materia, mattone su mattone, tracciano, senza alcuna possibilità di fuga, labirinti di solitudine. Dalla precarietà di mura instabili, segno di una civiltà alla deriva, di un luogo che ormai ha perso ogni potenziale identità, come l’hangar che suggestionò Koltès durante il suo viaggio in America, sbucano da ogni dove attori dalla bravura indiscussa, forti e singolari presenze sceniche, tutte dotate di una propria efficace cifra stilistica come Anna Amadori, Gabriele Duma, Olga Durano, Gianluca Enria, Francesco Martino, Maurizio Patella, Selvaggia Tegon Giacoppo, Florentin Tchinda Mohamed. Lo spettacolo si apre con due personaggi, entrambi appartenenti alle classi alte della società: un uomo d’affari intenzionato a suicidarsi pur di sfuggire agli abissi di una crisi economica che non risparmia nessuno, e una donna, sua segretaria, capitata per caso in quel posto dimenticato. L’incontro con gli abitanti dell’hangar, paradossalmente inteso come luogo di transito, avviene molto presto. L’intera messa in scena si articolerà in uno scontro continuo tra i membri della stessa famiglia, un conflitto che non troverà mai l’epilogo desiderato, perché a decidere delle loro vite concorrono le determinazioni imposte dalla classe sociale di appartenenza. Ogni relazione verrà quindi vissuta come feroce conseguenza di una mercificazione che costringe alla repressione di qualsiasi sentimento positivo; tutto è merce, scambio, e l’unica logica possibile è quella dettata dal denaro. Charles (Francesco Martino), più di ogni altro, è la figura che si fa carico di un’impellente istanza di cambiamento, un’emancipazione che svanisce nella debole opportunità di rubare gli averi posseduti dai due benestanti: un orologio, una macchina e delle carte di credito. Tutti i personaggi sono mossi da una logorante forma di resistenza, una ferrea volontà a non accettare l’incapacità di scrollarsi di dosso quel magma di povertà e decadenza morale in cui sono incastrati, dove l’unica certezza possibile è quella di esistere. A evidenziare questa condizione di solitudine concorre un uso peculiare della forma monologante, unico momento di profonda comunicazione dei personaggi. Parole affilate come lame, pronte a esplodere come a distendersi in un crescendo di comicità grottesca attraverso le ruvide vocalità di una madre, Cécile, abbruttita dalla sofferenza di una vita inclemente (magnifica Olga Durano), di un tempo che scorre tra luci tenui e ombre allungate, in una scena sempre in penombra, che stupisce e immobilizza quando un’enorme palla prende il volo verso l’alto; come ‘something in the way’, questo è il pezzo scelto dal regista per accendere un sole che scandisce le ore, che decide delle inquietudine dei singoli personaggi, ma anche un sole contro cui imprecare. La trovata di Adriatico risulta geniale. Forte è il senso dell’individualità, ancora più forte la dimensione di alterità con cui ognuno è costretto a dialogare. Una figura in particolare incarna in modo tacito e assoluto il riconoscimento con l’’altro’, Abad (Florentin Tchinda Mohamed). E’ attorno a lui che la messa in scena ruota, lui che con i suoi silenzi loquaci, lungi dall’essere assenza, restituisce vigore alla frammentazione identitaria che scuote tutti i personaggi, a prescindere dai fattori socio-culturali che li ritraggono. Estraneità da se stessi, da un altro da sé che ci si ostina a non riconoscere. Le domande che si innestano al termine di una rappresentazione così complessa e ben curata sono molte, e tutte convergono in un’ampia riflessione sull’uomo contemporaneo, pensiero che si sostanzia tramite le continue pulsioni erotiche ed esistenziali agite dagli attori: come Monique (una bravissima Anna Amadori), che pur di non accettare la propria alterità, preferirebbe isolarsi in una colata di cemento.
In un hangar sul fiume si svolge Quai ouest di Bernard-Marie Koltès, in una zona morta della città, abitata da “spettri”, da immigrati marginali che cercano di sopravvivere. Andrea Adriatico per il festival Vie sposta l’azione sull’argine del fiume Panaro e la rende un avvincente sprofondare nel buio del crepuscolo, della notte, di un giorno che sembra illuminare e dà solo riflessi diversi a ombre che si agitano tra i resti di un non-luogo degradato, in cerca di qualcosa da accaparrare, da scambiare, da rapinare. Con ritmo e visioni cinematografiche, costruisce muri interrotti e instabili di mattoni che incidono come ferite il paesaggio naturale; fa arrivare con un’auto di lusso un riccone che vuole suicidarsi dopo un crack e la sua iperefficiente, isterica segretaria, che cerca di parare gli assalti del popolo degli abissi. La recitazione dei bravi attori – esperti e intensi come Anna Amadori, Olga Durano e Gabriele Duma, immedesimati nelle rispettive parti come Gianluca Enria, Francesco Martino, Maurizio Patella, Selvaggia Tegon Giacoppo e Florantin Tchibda Mohamed – disegna una discesa agli inferi contemporanea per quadri ellittici, sospesa in modo avvincente, tragicamente lirico, tra un plot incalzante e continui avvitamenti della storia su se stessa, nei meandri dei rapporti di scambio umani.
Sulle sponde di un fiume mi sono seduto e ho sputato sui morti e sui vivi: questo avrebbe potuto dire Bernard-Marie Koltès sulla genesi di uno dei suoi primi drammi compiuti, Quai Ouest, portato in scena (nonostante il maltempo) da Andrea Adriatico all’interno di Vie dei Festival (in replica per Teatri di Vita fino al 9 giugno). Sulle sponde di un fiume cerca la morte un inetto uomo d’affari, accompagnato da una segretaria pragmatica e un po’ isterica; arrivato lì per morire, salvato controvoglia, tutto il dramma è la ricerca della strada: prima per arrivare al fiume, poi per scappare verso la città più vicina. Via dalla periferia delle cose, dalla povertà o dall’ignoranza infantile, dal desiderio represso, nel rabbioso tentativo continuo di ingannare l’altro. I due involontari villeggianti cittadini (Gabriele Duma e Anna Amadori) diventano prede e oggetto di scherno, ponte per i sogni dei miserabili, sfogo mercificante alla propria voglia di fregare la vita. Ci sono molti sputi: di saliva, di pietra, di parole. Gli attori, impegnati in questo lungo gioco al massacro in attesa della notte, sono perfettamente divisi tra il lancio di frasi infuocate (come un sole a mezzogiorno) e la coreografia di ombre nel verde accompagnate dall’ottava sinfonia di Mahler. Spiccano, nel testo e in scena, Charles/Carlos (Francesco Martino) e la madre Cécile (Olga Durano), belluina e grottesca, portatrice di una irrazionalità fangosa ed esotica (non a caso il suo delirio agonico finale ne riporta in luce le radici sudamericane). Immobile e muto, oggetto e artefice della salvezza come della catastrofe, è il nero, Florentin Tchinda Mohamed: derubato e baciato da Charles, insultato e desiderato da Cécile, angelo della vita e della morte. E poi i due personaggi più meschini, il freddo padre di Charles e l’amico truffatore (Gianluca Enria e Maurizio Patella). Sulle sponde di un fiume (il Panaro a Finale Emilia, il Reno a Bologna) arriva anche lo spettatore. Quinte di mattoni nudi e un sipario di buio naturale, ma soprattutto le scarpe: scarpe spaiate, prese in ostaggio, rimaste a terra, lanciate, usate da una madre per calciare il figlio, ultimo lasciapassare per il paradiso (se di marca Weston). Perdere una scarpa è l’unico modo che resta a una ragazzina (Selvaggia Tegon Giacoppo) per essere certa di non sognare. Quai Ouest è un dramma del suolo, che deride e abbatte chi vola troppo in alto, ma che non idolatra nemmeno le profondità. Nelle crepe della città degli uomini, oltre ai cadaveri, nessun tesoro, ma solo la polvere.
Il Quai Ouest di Koltès che Andrea Adriatico cala in una dimensione di grottesco poetico, vive di una regia che incastra a perfezione un incrocio di linguaggi seducenti: tutto si gioca su una sconvolgente profondità di campo, con la moltiplicazione policentrica delle prospettive e dei punti di fuga che però conduce sempre alla negazione della via d’uscita e dell’altrove, che come una calamita crudele lega i dinamismi sociali all’ereditarietà delle colpe presunte, senza concedere oasi in un deserto di speranze. Non ci sono scaglie palpitanti di mare al di là dei cocci aguzzi di bottiglia, rappresentati dalla prigione di mura squassate dal degrado e dall’abbandono, che costituiscono l’unica cristalizzazione materiale in mezzo al nulla: l’uomo del disincanto si infrange in maniera coatta con la sua brutale immanenza, non ha paura del buio e della notte, anzi le ha edificate a regno del piacere e della sopravvivenza, abisso in cui cala persino l’asso della sua componente più ludica e sensuale: basti vedere come si stagli in questo orizzonte il personaggio conturbante interpretato da Maurizio Patella, ormai una presenza costante negli spettacoli di Adriatico. Non c’è trascendenza: anche l’acqua, di solito elemento rigenerante, porta con sé solo la semiosi della morte per annegamento: in questo caso la spirale verso l’oblio del suicidio-omicidio di un uomo dell’alta società, strozzato dalle angosce del capitalismo competitivo, le cui vesti sono sbranate e affidate ad un gioco di sorte peggio del Cristo raccontato dai Vangeli, a cui non viene concessa, nemmeno in punto di morte, la serenità di essere guardato per quello che è, piuttosto che per quello che ha e possiede. Non basta nemmeno quell’affascinante Something in the way dei Nirvana, quasi un leit-motiv da ‘fighissima’ serie tv americana noir, né la trovata geniale di un sole straniante che getta una luce di irrazionale lirismo ad un paesaggio condannato a non potersi autoriflettere per via dei suoi abissi di negazione, a placare il grido di dolore, lancinante per la magnifica Olga Durano, che svetta per famelicità tra tutti i personaggi presenti in scena. La struttura narrativa sempre aperta e spiazzante, complice un permanere in condizioni di poca visibilità che è metaforico della miopia della precarietà, con i continui cambi di focalizzazione, sembra quasi volerci abbandonarci alle incognite nel fetore di tenebra verso cui scendiamo senza orrore, consapevoli che, baudelarianamente parlando, si tratta di un inferno, rimosso e nascosto, così come quella periferia marginale suburbana che pullula di storie e umanità, che sfuggono allo scatto pregnante delle immagini da cartolina delle città. Non è il mondo del progresso e del contratto sociale, qui l’uomo è lupo per l’uomo e le trattative risuonano nel pozzo del mercato nero e della sopravvivenza a breve termine, del difficile equilibrio di forze che brutalmente schiaccia i protagonisti di questo sottobosco. Narrativamente questo microcosmo perverso conferisce adrenalina e appeal a questa dinamica continua più di ombra che di luce, fino a quell’estremo dell’indecifrabile, inconfessabile sensazione di fascino per le cose ripugnanti. Seguiamo i personaggi per un breve tragitto, senza perderci in genealogie di trame a lungo raggio, assecondando la vita di brevissima prospettiva della periferia, lì dove ci si difende con le unghie e con i denti, lì dove le inquietudini si scaricano verso l’estraneo, il diverso, lo straniero. Di qui la scelta della presenza quasi muta dell’immigrato, àncora per l’ostinazione alla chiusura. Uno spettacolo che getta prospettive di nuova concezione dei luoghi, che scardina i confini del teatro e parla di complessità alla città da uno dei suoi luoghi più simbolici dal punto di vista delle dinamiche di una inclusione sociale dei nuovi cittadini ancora tutta da realizzare, in un momento in cui non si trova ancora la strada per vedere la luce fuori dal bosco e l’altro sembra condannato a rimanere solo una minaccia.
Porto delle ombre: negli abissi della crisi con il Quai ouest di Koltès messo in scena da Teatri di Vita

Si vendono, si comprano, cercano di uccidersi e qualcuno alla fine schiaccia il grilletto. Sono disperati tutti i personaggi di Quai ouest di Bernard-Marie Koltès, in un hangar in una zona degradata della città sul fiume nell’originale. Andrea Adriatico ha reinventato quel mondo di margini e di fantasmi sull’argine del Panaro, a Finale Emilia ancora con i segni del sisma dello scorso anno per il debutto al festival Vie, e ora a Bologna fino a domenica 9 giugno sulla riva del Reno, dove qualche anno fa il sindaco-sceriffo Cofferrati mandò le ruspe per abbattere un insediamento di immigrati rumeni. Il regista costruisce vari muri di mattoni a secco, interrotti, spezzati come resti di un luogo abbandonato a causa di un cataclisma, ferite in un paesaggio placido di alberi di alto fusto, di rumori di acqua, di versi di animali, di lampeggiare di lucciole. Non-luogo quasi ballardiano, per uno spettacolo di forte impianto cinematografico e di radicale denuncia sociale, senza nessun tono predicatorio. Koltès qui fa quasi l’antropologo o l’entomologo: e il regista di Teatri di Vita ritorna a uno degli autori che più ama, mettendo in scena solitudini e violenze, la sprezzante, incrollabile sicumera dei ricchi che dominano ogni rapporto e la fame disposta a tutto dei miseri, degli immigrati, degli ultimi. Adriatico, in questa quarta prova con Koltès, si cimenta ancora su un testo non del canone maggiore. Nato dalle suggestioni di un viaggio negli Stati Uniti, Quai ouest vive di spinte contraddittorie e sembra una preparazione del più denso Nella solitudine dei campi di cotone. Lì domina l’astratto meccanismo e il deflagrante furore lirico continuamente raffreddato; qui siamo precipitati in un plot tendente al noir, che spesso si incarta nella ripetizione o nell’a solo ritmato fino a limiti desolati dell’ossessione che diventa poesia. Adriatico coglie le indicazioni delle didascalie e chiede agli attori una recitazione antinaturalistica, come di fretta, come se qualcosa, un’impellenza fisica, premesse e essi avessero fretta di arrivare in fondo. E rende radicalmente (e simbolicamente) l’indicazione di tempo che fa trascorrere una notte, un giorno e un altro giorno. Un riccone, forse un supermanager o un magnate, con la sua biondoplatino segretaria d’ordinanza, capita in quel margine della città, sul fiume, per farla finita con la vita, dopo un misterioso crack economico. Con la donna tesa allo spasimo isterico dal timore di quel luogo tanto diverso dal suo rassicurante mondo di plastica, e comunque sempre tesa maternamente a proteggerlo oltre ogni buon senso, incontra il popolo degli abissi che lì dimora. E subito i suoi propositi di suicidio innescano appetiti sulla sua roba e compravendite vertiginose, patteggiamenti, scambi, rivelando pulsioni e opzioni opposte e devastanti. Il regista fa iniziare tutto nel buio del tramonto intorbidato nella notte, negando o rendendo difficile la visione in tutta la parte inziale. I personaggi sono ombre di un oltremondo che si dimenano tra le rovine. I ricchi arrivano con una macchina di grossa cilindrata; gli altri spuntano come animali da preda dai muri sgretolati, si inseguono, si desiderano, si ignorano, cercano di trarre profitto dal misterioso, quasi pasoliniano, Ospite. E, continuamente, si tradiscono tra di loro. Ci sono un giovane uomo, Charles, che sembra il capo, legato da un antico rapporto con un nero cui ha salvato la vita e che considera quasi una cosa sua, anche se quello, apprendiamo, a volte è stato più abile di lui a monetizzare. Ci sono un giovane che cerca di sedurre la sorella adolescente di Charles, un tipino che sa opporre resistenza per contrattare meglio il piacere, spinta da curiosità e attrazione. Col tempo spunteranno anche la vecchia madre di Charles, e scopriremo trattarsi di famiglia di immigrati ispanici, e il vecchio padre zoppo e spione, che quasi contagerà col tempo tutti gli altri con il suo passo claudicante, in un muoversi instabile, tremante, dilagante, che vedrà smuoversi perfino le pareti dei muri, come per un sisma interiore che quel mondo devasta. Il buio viene squarciato da una palla aerostatica che rappresenta il sole. Quasi come in un intermedio rinascimentale, girerà come il sole, spostando le sue ombre, illuminando e occultando nello stesso tempo relazioni e sentimenti. Per poi riprecipitare la scena, al suo tramonto, in un buio dell’anima che cederà il posto, incongruamente, a altri momenti di luce, mentre la situazione si fa più ingarbugliata, la vendita più difficile, e il ricco moribondo, bagnato per un tentativo di affogamento, azzoppato, si trasforma di nuovo in padrone che dirigerà perfino il proprio finale sacrifico rituale. Se gli uomini in queste lande sono impegnati in avventure del commercio della pelle, le donne rappresentano le tre età dell’essere umano, con particolari incrinature: l’adolescenza in cerca di esperienze, che cerca di salvaguardare i sogni in un ambiente torbido e ostile all’amore, dal quale cerca disperatamente, in modo inane, di evadere; la maturità efficiente, borghese, ben armata, materna, che si trova disequilibrata nel mondo nuovo, senza riferimenti, e cerca di erigere tutte le proprie resistenze per non crollare, con una punta di attrazione per quei “selvaggi” che sfocia in un (abortito) tentativo di seduzione; la vecchiaia di Cécile, la matriarca degli abissi, che ricorda tempi migliori e mondi diversi, e celebra quell’apocalisse delle relazioni con una devastante feroce nostalgia di un mondo lontano nello spazio e nel tempo, intinta in una magia sciamanica, che vorrebbe far indietreggiare le lancette dell’orologio. Ma intorno ci sono solo lupi, e l’urlo diventa più straziato, specie nei confronti del figlio traditore del passato e inadatto al presente per difetto di cinismo. Spettacolo denso, duro, complesso, chiede allo spettatore lo sforzo (ampiamente ricompensato) di seguirlo per più di due ore all’aperto (e al debutto il tempo è stato davvero inclemente). Vive di una cifra di regia rigorosa e di grande visionaria intelligenza, con interpretazioni che, seppure diseguali, arrivano a render bene le profondità del testo. Non sempre si decide in modo convincente tra naturalismo tendente al cinematografico (o alla fiction televisiva) e stilizzazione interiore. Su quest’ultima linea stanno la splendida Olga Durano, un’anziana madre di ruvida stregonesca violenza contadina, la segretaria survoltata di Anna Amadori, immagine arroccata di un mondo minacciato e Virgilio di un inferno vivente, la giovanissima Claire di Selvaggia Tegon Giacoppo, sempre tesa verso qualcosa, pronta a difendere il suo precario spazio di adolescente o a strappare un po’ d’aria in un ambiente soffocante, il riccone di Gabriele Duma, con una capacità di dominio delle situazioni tanto superiore da risultare cinica condiscendenza. Gianluca Enria (il vecchio padre zoppo e insinuante) e Florantin Tchibda Mohamed, il nero, rappresentante per Koltès dei popoli senza parola, stanno a metà tra i due mondi, mentre virano verso un naturalismo più spiccato Francesco Martino, un Charles più convincente nei momenti intimi che nelle fondamentali transazioni con gli altri, e un Maurizio Patella che si concede qualche stereotipo giovanilistico. Grande lavoro, comunque, che segna anche una svolta produttiva in Teatri di Vita, che per la prima volta collabora con Emilia Romagna Teatro. Quai ouest è uno spettacolo di quelli che cresce nella memoria anche a distanza di giorni dalla visione, che inquieta, con la sua capacità di parlare della nostra crisi economica e interiore per metafore, astrazioni, tagli di luce, accumularsi di ombre, per magiche o stridenti atmosfere umane e ambientali. Sarebbe bello rivederlo in teatro. Sarebbe un’ulteriore sfida ricostruire al chiuso quella ferita profonda nel paesaggio, che è lacerazione nella psiche, nei corpi, nella realtà di noi esseri umani immersi nel regime dello scambio globale.

I piedi sprofondano nell’erba e nella terra mista a sabbia, alcune ombre si muovono tutto intorno, rimangono indistinte nelle tenebre quasi complete e nel rumore di acqua che scorre. Una berlina scura illumina il cammino, i fari aiutano a distinguere per un istante le persone, poi si ritorna al coprente buio, vero e proprio personaggio dello spettacolo “Quai ouest” in programma per il VIE festival a Bologna. La location è molto particolare, ci troviamo in riva al fiume Reno, dove qualche anno fa le ruspe abbatterono un insediamento di immigrati rumeni. Lo spettacolo sembra ripartire proprio da lì, con una scenografia di mattoni rossi incastrati l’uno sull’altro, senza calcina, che costituiscono un muro posticcio e che sembrano le macerie scampate alla distruzione di allora. La berlina si avvicina e con i fari illumina questa muraglia arancione in modo suggestivo, come se fossero luci di navi in lontananza (il titolo alla lettera si potrebbe tradurre “banchina/molo ovest”). Dalla macchina discende un uomo e una donna, sicuramente benestanti, che stridono con la desolazione e con il buio di sottofondo. Lui ha deciso di suicidarsi e lei, la sua segretaria-mamma, si è ritrovata in questa avventura suo malgrado: mentre lei cerca di capire come tornare nel mondo civilizzato, lui è nel panico più completo, “non so niente, assolutamente niente”. Per arrivare al fiume, dove ha deciso di annegare, deve interagire con le persone del luogo e vincere le loro naturali diffidenze, “è venuto a toglierci l’acqua così ce ne dovremo andare anche da qui!”, “nessuno verrebbe qui disarmato senza un motivo”. La contrapposizione fra i ricchi, vestiti di chiaro, futili, quasi dei bambocci, ed i poveri immigrati, gli esiliati, le persone che devono mercanteggiare su tutto, che usano il buio per restare anonimi, è forte: i primi sembrano gli unici ad avere possibilità di cambiamento, di andarsene da quel posto, gli altri galleggiano in un’acqua torbida, i loro affari e i loro sforzi sono mirati alla sopravvivenza, nessuna rivalsa, nessuna speranza, nessuna luce. E il ricco “è venuto per tutti noi”, i suoi averi, che ovviamente non gli servono più dati i suoi propositi, vengono spartiti tra gli astanti, che mercanteggiano, giurano, si barattano orologi e gemelli in cambio di favori, tramano uno alle spalle dell’altro. Assomigliano a tante iene pronte a contendersi la carogna. Il testo è molto bello e, senza pregiudizi, racconta la storia di questa famiglia di immigrati che si è trasferita lì da molto tempo, tanto che i figli non conoscono altro posto che quello, mentre la mamma si ricorda anche nel suo paese d’origine, “tiepido quando qui fa freddo”, una sorta di Eldorado, ed è l’unica a volerci ritornare: al ricco, in cambio del suo “aiuto”, non chiede soldi o carte di credito, cerca di ottenere i passaporti per andarsene. I suoi monologhi sono forti, rabbiosi, decisi e ruvidi, anche se urlati alla luna, totalmente inconcludenti, interpretati da una bravissima Olga Durano. Interessante il rapporto degli immigrati con le tenebre, che sono al tempo stesso rassicuranti e misteriose: due di loro che flirtano e mercanteggiano il loro amore, lo fanno sempre davanti ad una breccia nel muro che da sul buio pesto, corrono a destra e sinistra ma si trovano sempre lì davanti, l’oscurità li minaccia ma li attrae. Tra di loro non emergono tenerezza e affetto, solo uno scambio utilitaristico, e anche nella famiglia si nota più odio che amore, più risentimento che comprensione. La luce del giorno evidenzia il loro status quasi bestiale, perché i ricchi possono vedere “il denaro anche attraverso la stoffa”, il figlio chiederà più volte alla mamma di fargli ombra, “ho la luce in faccia!”. Percepiamo questo fastidio anche noi, con gli occhi completamente abituati alle tenebre, non appena una palla illuminata spunta fuori dal muro e ci illumina. Questo enorme sole percorre tutto il muro, da un capo all’altro, per poi tramontare dietro di esso: una scena di sicuro suggestiva e ben creata, con movimenti degli attori molto puliti. Il vero protagonista di questo spettacolo è comunque Acab, un enorme uomo di colore, che apre lo spettacolo quasi all’improvviso raccontandoci la sua storia: lui non è immigrato, abita lì da sempre. Tutti gli altri personaggi si rivolgono a lui, ma senza avere in cambio risposte, i lunghi monologhi diventano dialoghi solo con i suoi occhi, con l’intensità e la forza delle sue espressioni, ma non con la sua voce. Egli rappresenta le persone che ormai hanno perso ogni diritto, non sono più rappresentati, sono invisibili, non hanno più voce, mimetizzati nel buio. Qualcuno gli dice: “non fai abbastanza rumore per essere regolare”, anche da questo si può capire che è un clandestino, costringendolo come un topo a nascondersi nel buio ghetto della fogna. E’ lui a salvare il ricco dal suicidio, buttandosi nel fiume e riportandolo a riva, per poi denudarsi davanti al pubblico quasi a scusarsi di aver agito d’istinto per salvare una vita, preso letteralmente a calci dalla mamma, un vero fiume in piena. Ed è sempre lui che agisce nel finale, per niente prevedibile, che lascia lo spettatore in preda a mille interrogativi, a mille riflessioni. Uno spettacolo davvero interessante questo messo in scena da Adriatico, che già aveva rappresentato con successo altri testi del famoso drammaturgo francese Koltès, morto prematuramente di AIDS a 41 anni. La suggestiva scelta della location, che ha avuto un peso rilevante nelle suggestioni sceniche, ed un cast di attori molto bravi, vestiti pochissimo e talvolta bagnati fradici (noi, a pochi metri da loro, abbiamo il plaid sulle gambe!) ha decretato il successo di pubblico di questo spettacolo.

Con questo suo Quei ouest, in prima rappresentazione assoluta per l’Italia, Andrea Adriatico sembra portare a compimento e a piena maturità espressiva un percorso drammaturgico e registico, dedicato a Bernard-Marie Koltès, cominciato agli inizi degli anni Novanta e culminato con Il ritorno al deserto del 2007. Quella distanza soprattutto formale, ironica, che caratterizzava Il ritorno, in Quai ouest è come se si fosse impossessata dei personaggi, ne definisce i confini, ne interdice la completa relazione degli uni con gli altri, ne rilancia, al tempo stesso, la natura simbolica e reale. Come se sotto la pelle di quelle parole, di quegli interminabili monologhi, di quelle conversazioni tenute sempre sul filo dell’insensatezza, che sembrano non avere uno scopo preciso se non quello di “anticipare” un’azione fisica vera, si nascondesse una devianza, un’amputazione, un delirio panico, l’infelicità per un dolore segreto, che proprio in quel posto buio di un molo fluviale occidentale, trova la metafora giusta per esprimersi, sorprendere quelle persone che stentano a diventare personaggi: presenze autentiche di un corpo sociale misero, emarginato, retto dall’istinto e non dalla logica di una rgaione condivisa. Otto persone si trovano “gettate” in quel luogo maledetto, un antro del mondo visualizzato magnificamente da Adriatico da un labirinto di muri, senza sapere esattamente cosa ci stanno a fare e cosa vogliono l’uno dall’altro: forse solo fuggire, da qualcosa, da qualcuno, in un viaggio senza meta, che non prevede ritorno. A rimuovere la crosta ideologica, politica del dramma, la sua alta tensione sociale ed etica, questa opera di Koltès sembra affondare le sue radici nel “teatro dell’assurdo” di Genet, Arrabal, Vitrac, ma principalmente di Pinter: quel luogo notturno, sterminato, fangoso,  en plein air, con quella palla di luce artificiale che si muove misteriosa a illuminare come un sole malato la scena, con quella carica di minaccia incombente che possiede, somiglia tanto a una “stanza” chiusa pinteriana. Molto bravi tutti gli attori per intelligenza interpretativa e dedizione scenica.