
Orgia
di Pier Paolo Pasolini
uno spettacolo di Andrea Adriatico
con Francesca Ballico, Maurizio Patella, Monia Fucci
cura e assistenza Daniela Cotti , Monica Nicoli, Saverio Peschechera
e l’aiuto di Giorgia Papa
scena Andrea Cinelli
tecnica Francesco Salentino
grazie a Stefano Casi
una produzione Teatri di Vita
con Comune di Bologna, Regione Emilia Romagna, Ministero per i Beni e le Attività Culturali
e l’adesione della Presidenza della Repubblica Italiana
Debutto: Bologna, Teatri di Vita, 11 maggio 2004.
Orgia è la tragedia di Pasolini più astratta e forse la più emozionante e poetica: un’orgia di parole, passioni, ricordi, che travolgono un Uomo e una Donna che si torturano a vicenda come in un sacrificio rituale. Ma è anche la denuncia dello sradicamento di una società lanciata verso un abbagliante e infido progresso contro cui si pone la rivoluzione del Diverso contro la barbarie che avanza. Adriatico conduce lo spettacolo su un equilibrio della recitazione tra attenzione alla poesia e al senso delle parole di Pasolini e una fisicità estrema che viene sottolineata dalla vicinanza imposta agli spettatori.
Visioni critiche
Il dialogo provocatorio tra due coniugi (Maurizio Patella e Francesca Ballico) e poi la conversazione provocante tra lui e una ragazza (Rossella Dassu) diventa ben presto un’orgia di parole, di passioni, di ricordi, ma anche di gesti e violenze in cui marito e moglie si torturano a vicenda nel giorno di Pasqua, come in un sacrificio rituale. Lui, uscito da una grave malattia, si trasforma in carnefice di lei, vittima e allo stesso tempo istigatrice del suo boia. I ricordi di un mondo naturale in cui si poteva essere veramente felici sottolineano e mettono in moto lo sradicamento e l’assurdità del presente, di una società che cerca di imporci i segni e simboli che non ci appartengono e creano in noi conflitti insanabili.
La violenza e la brutalità in scena non manca e non è finzione: sono veri i lividi sulla schiena della Ballico; sono vere le emozioni di chi siede a margine della scena e fanno altrettanto male. Gli spettatori-voyeur, chi visibilmente turbato, chi distoglie lo sguardo, chi impassibile, sono tutti ugualmente torturati e punzecchiati crudelmente dal carnefice Pasolini. La poesia che scopriamo nel rapporto masochista spesso banalizzato ci rende consapevoli della sconfitta inevitabile a cui ci porta il dramma, ma una possibilità rimane aperta: quella della diversità, l’unico modo per resistere alla dilagante omologazione e brutalizzazione del mondo. (…)
E’ una tragedia dura e amara quella che si consuma davanti ai nostri occhi, ancora più disarmante per la sincerità assoluta con cui è stata scritta (sebbene il testo non sia a volte di facile comprensione) e l’efficacia con cui è messa in scena da Adriatico.
Il regista infila attori (Francesca Ballico, Maurizio Patella e Rossella Dassu) e pubblico in uno stretto e basso cunicolo nero, appena lo spazio per muovere gli attori tra due file di sedie ai lati (la scena è di Andrea Cinelli). Al centro c’è un lunghissimo letto coperto da una stoffa ricamata che richiama alla prima occhiata certe camere di una volta (come se ne trovano ancora, in casa di vecchie signore o in qualche alberguccio antiquato). (…) Gli amplessi violenti, le catene, la nudità di tutti esibita a più riprese (a un passo dagli occhi del pubblico) punteggiano una conversazione fluviale che tocca i luoghi privilegiati della poetica pasoliniana: il paesaggio italiano, la vita di provincia, i padri e i figli, la rivoluzione, gli operai, il senso di colpa, l’educazione cattolica. Peccato che gli spettatori perdano il filo dopo dieci minuti e non lo trovino più, salvo restare a tratti incantati da certi passaggi in cui le parole, finalmente, bucano la quarta parete. Tra gli interpreti, che recitano con generosità anche se restano piuttosto monotoni e al di sotto del compito, Francesca Ballico disegna, con pochi tratti efficaci, la moglie borghese con la vocazione alla decadenza.
La strettissima vicinanza fisica, le inquadrature di composizione cinematografica (Adriatico ha debuttato di recente nel lungometraggio con il film Il vento, di sera) precipitano l’osservatore quasi fin dentro l’azione e nei diversi punti di vista da cui si può scrutare, rendendo tutto più evidente e doloroso. La violenza del marito risalta come costretta, quasi surdeterminata, grazie alle rigide posture da marionetta o militaresche che l’attore si impone, con improvvisi scatti di voce o di corpo, slanci a far male, masturbazioni, aggressioni sessuali. Attraverso la perversione grida non “una vita”, ma una condizione, quella borghese. E lei, la moglie, un’affilata e controllatissima Francesca Ballico, si offre alle torture con freddezza straniata, trasformandosi, per piccoli spostamenti e sguardi, in accusatrice, in dimostratrice, in supplice tentatrice, in animale sacrificale a un dio che urge oscuro in una interiorità magmatica.
Le strade della catastrofe sono obbligate: scollata la realtà dalle cose, ridotte le parole a segni che non aderiscono agli oggetti, agli atti, ai sentimenti, non rimane che un rovesciarsi in continui ruoli esterni, estranei, uno smarrimento che non può che segnare lo svanire nella morte o nell’abbraccio omicida del potere, dell’autorità. La moglie si immolerà, dopo essere stata incatenata, ridotta all’immobilità, denudata. L’uomo avrà bisogno di trovare un’altra martire su cui sfogare le sue continue crisi di consistenza, rese dal bravo Maurizio Patella con improvvise scomposizioni in aggressione o delirio delle sue precise partiture gestuali. La ragazza di Rossella Dassu, insieme antica e completamente, ambiguamente, d’oggi, decisa e inconsapevole, è il catalizzatore di un precipitare definitivo: in fondo, dentro se stessi, per uscire dai due vicoli ciechi del tunnel, verso la scoperta della diversità. L’uomo indossa gli stracci intimi abbandonati in terra dalla ragazza fuggita, e si trasforma in donna senza perdere nulla della sua mascolinità. C’è molto di più della rivendicazione dell’omosessualità, l’esplorazione di una via vicino all’origine e al futuro, di una ricomposizione, di uno sguardo profondo che renda libertà a una vita esaurita in ruoli asfittici. Questo dramma eccessivo e verboso ritrova la sua spinta utopica irriducibile nel finale, reso con evidenza e tagliente, sofferta misura da Adriatico. Questa lunga, oscura giornata di Pasqua scolorante in un primo autunno termina con l’uomo-donna nuovo impiccato come un crocifisso sulle catene tese sul letto, luogo di desiderio, sesso, orrore, rovina, morte, luce. Mentre intorno un suono di campane promette una qualche resurrezione.
Ambientato opportunamente in uno spazio astratto – una sorta di tunnel nero che è un anfratto della coscienza, un collegamento sotterraneo tra passato e futuro, ai cui sbocchi non si vede tuttavia la luce da una parte né dall’altra – lo spettacolo, costruito attorno a un grande letto che si sviluppa in lunghezza in mezzo al pubblico, graffia e inquieta soprattutto finché riesce a mantenere queste geometrie sfasate; nella seconda parte, quando l’Uomo incontra l’altra Ragazza – e comunque ogni volta che il commento prevale sullo sforzo di poesia – le sue lucide scansioni tendono a scomporsi, e la disperata prolissità pasoliniana si fa soverchiante.
Nel secondo atto l’uomo ha già distrutto la sua famiglia, annientandone tutti gli altri componenti. Ora, dopo aver distrutto la struttura (ri)produttiva della società borghese, entra in relazione sessuale con una donna di estrazione popolare. Egli non riesce a prescindere dal proprio ruolo di maschio dominatore e distruttore. La sua carica sessuale si esprime ancora in forma sadica. La donna che aveva ingenuamente accettato l’ipotesi che fosse possibile un rapporto paritario con chi appartiene alla classe dominante ne resta umiliata, prima ancora che sconfitta. Umiliata per la sua ingenuità. Infine, l’uomo, vinto dalla sua malattia che rappresenta le contraddizioni insolubili interne alla sua classe, perde il suo equilibrio, mantenuto dai sui freni inibitori, perde la sua identità sessuale definita, socialmente, proprio nell’immediatezza della sua fine, a testimoniare l’inemendabilità della propria classe.
La recitazione, fortemente corporea, densa di atti sessuali, di corpi nudi è una prova non facile per gli attori (ed anche per gli spettatori – alcuni, per lo più donne, hanno abbandonato lo spettacolo, evidentemente insostenibile per la propria educazione). La prova è ben superata dalle due donne (Francesca Ballico e Rossella Dassu), meno credibile l’interpretazione dell’uomo (Maurizio Patella). L’angusto spazio destinato alla rappresentazione provoca una forte ed emotiva partecipazione degli spettatori.
Con passione e adesione il regista Andrea Adriatico evidenzia comunque questo scarto, riflette il divario tra l’azione, spinta qui a una fisicità esasperata – con sesso e botte quasi veri, praticamente sotto il naso degli spettatori – e un flusso di parole mantenuto su scansioni fredde e rarefatte. Nell’eloquente impianto scenografico, un nero tunnel sospeso tra due mondi, l’attesa di un futuro che non c’è e l’impossibile nostalgia del passato – lo spettacolo è intenso e tagliente finché riesce a conservare le sue asciutte simmetrie: poi, a poco a poco, le argomentazioni si impastano con le tensioni della carne, e l’invadenza del testo diventa scomposta, esorbitante.
La recitazione anti-naturalistica della Ballico, che risorge dopo ogni percossa, dopo ogni morso o oscena profanazione della carne per tornare, con voce calma e suadente, alla parola, diventa dunque il mezzo straniante per riacquistare la propria posizione di spettatori, ma anche il contrassegno dissonante del continuo passaggio da un piano all’altro dell’opera, dall’orgia di ricordi, rimorsi e recriminazioni evocati con sublime ed estenuato distacco, al prossimo scoppio distruttivo, così fino alla fine, fino alla morte.