l’ultima notte.

un pezzo dedicato a bernard-marie koltès

con il lavoro di andrea adriatico, gabriele argazzi, daniela cotti, emanuela pierucci, eriberto rosano, iris faigle, marc richman, paola contento, patrizia bernardi, sokol keci
(sostituzioni: fabio michelini)

fotografie di filippo partesotti
una coproduzione :riflessi società di pensieri, Santarcangelo dei Teatri d’Europa
in collaborazione con Associazione Culturale Italo-Francese
Prima rappresentazione: Santarcangelo, Sala Polivalente, 18 ottobre 1991

 

 

Koltès tra i killer della Uno bianca

Neppure tre mesi fa, pochi chilometri di distanza da qui, due giovani operai senegalesi morivano crivellati dai colpi dei “killer della Uno Bianca”. Era sabato e, con un compagno, andavano verso Rimini, capitale del divertimento padano: a insanguinare le strade dell’Emilia Romagna questa volta non fu una “strage del sabato sera” per alcol o velocità, ma il risultato di una logica di odio e violenza che mette tuttora a dura prova una terra sinonimo di civiltà e “felicità”.

Tre mesi dopo quel 17 agosto, i killer della Uno bianca ritornano sul luogo del delitto in uno spettacolo teatrale realizzato dalla compagnia di Bologna “:riflessi – società di pensieri” e coprodotto da Santarcangelo dei Teatri d’Europa. Stiamo parlando di L’ultima notte, prima parte di un dittico dedicato al drammaturgo Bernard Koltès (la seconda parte, La fuga, sarà pronta in gennaio), presentata giorni fa a Santarcangelo di Romagna e interpretata da Eriberto Rosano, Gabriele Argazzi, Patrizia Bernardi, Daniela Cotti, Iris Faigle e Sokol Keci, diretti da Andrea Adriatico.

Lo spettacolo riflette, cercandone le implicazioni a noi più vicine, il mondo dell’autore francese scomparso due anni fa. Una perdita precoce per il teatro europeo, al quale Bernard-Marie Koltès ha lasciato alcuni capolavori come il postumo Roberto Zucco. L’ultima notte di cui si parla nel titolo è quella di uno straniero schiacciato dal disagio esistenziale e sociale di un “diverso”, anche con precisi riferimenti contingenti, come quello dell’Albania (tra l’altro, uno dei componenti della compagnia è un profugo albanese). Quella dello “straniero” in scena è una lenta via crucis condotta sulle sponde di una Italia di sabbia, trasformata con piccole piante di ulivo in un nuovo orto del Getsemani. L’unica luce in scena, oltre a quella di un faro fendinebbia, proviene da un’automobile, una Fiat Uno bianca, muta testimone delle parole dello straniero. Dentro, tre donne come i tre killer, che a tratti lasciano cadere sassi dal finestrino per una simbolica lapidazione. Lo spettacolo si conclude con lo straniero “crocifisso” a terra, e attorniato dalle tre donne nelle pose delle Marie piangenti sul Cristo deposto.

Uno spettacolo di grande rigore visivo e intellettuale, che non dà tregua agli spunti politici di maggiore ambiguità. Come nel ruolo dei tre personaggi femminili: freddi killer ma anche prefiche accorate, dispensatrici di luce e di buio. O come nel gioco su “chi è lo straniero?”, dove l’immigrato parla italiano mentre i rappresentanti di tutti i Nord del mondo si esprimono con cadenza meridionale, e addirittura gli spettatori romagnoli – seguendo l’ordine della cartina geografica riprodotta in scena – si trovano inconsapevolmente a calcare la terra d’Africa.

Il lavoro riflette anche una profonda meditazione sullo spirito dell’opera di Koltès, con citazioni più o meno esplicite, come i brani ispirati a La notte poco prima della foresta. C’è, per esempio, un piccolo cane bianco legato alla caviglia del protagonista, ricordo della più famosa pièce Lotta fra negro e cani; c’è un karateka sempre in azione (a ricordo degli entusiasti saggi di Koltès sul kung-fu); e la stessa Uno bianca che uccide e dà la luce è un richiamo alle auto poliziesche che uccidono il protagonista arabo del romanzo Fuga a cavallo lontano nella città.

Ma c’è, soprattutto, il senso di una dolente partecipazione all’inquietudine e al disagio di Koltès, riassumibili in quello che lui stesso definiva il senso dello “sradicamento”, qui riproposto visivamente nell’immagine di un corpo sotterrato sotto una radice in terra italiana, e poi sollevato con un rgano a mezz’aria a rappresentare una instabile crocifissione. Il tutto ricucito attraverso una colonna sonora che slitta dal “rap” nostrano di Jovanotti alle note della Passione secondo Matteo di Bach (quelle della morte del pasoliniano Accattone), per confermare il senso del calvario dello straniero e del fallimento della civiltà eurocentrica. Ma anche questa musica, per un’ennesima beffa del destino (o per un ennesimo cinismo politico), è trasmessa dall’autoradio degli imperscrutabili sicari della bianca Fiat Uno.