Lotta d’angeli

Messaggi da un uomo in fuga

uno spettacolo di Andrea Adriatico

drammaturgia di Milena Magnani

con Patrizia Bernardi, Daniele Cantalupo, Gabriella Fabbri
(sostituzioni: Isabella Carloni, Filippo Plancher, Giorgio Volpi)

e anche Rocco Bernasconi, Daniela Cotti, Filippo De Capitani, Monica Nicoli

intervalli, Cocito e Pastore, Ciprì e Maresco
scena Andrea Cinelli, Roberto Ledda
abiti e scarpe Etro
impermeabili e accessori Mandarina Duck
trovarobe Dan Kotek
sarta Pia Pancotti
preparazione atletica Alfredo Sorrini
fotografie Rocco Bernasconi e Cinzia Fontana
grafica e immagine Daniela Cotti
organizzazione e ufficio stampa Barbara Pulliero e Monica Nicoli
tecnica Rocco Bernasconi e Roberto Ledda
amministrazione Stefania Gelli
produzione :riflessi 1998 (poi: produzione Teatri di Vita) con
Teatri di Vita (Bologna, I), La Fonderie (Le Mans, F), Podewil (Berlin, D)
con il contributo di Comune di Bologna – Settore Cultura, Regione Emilia Romagna – Servizio Cultura, Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento dello Spettacolo
Prima rappresentazione: Le Mans, La Fonderie, 23 aprile 1998

Visioni critiche

Pièce déconcertante, troublante et belle, s’il en est. Le spectateur ne se laissera pas déstabiliser par le texte, dit d’abord en allemand, puis en italien pour finir en français. Il lui faut se libérer des mots, n’en retenir que le chant pour mieux entrer dans l’agitation de la boîte à vivre qu’on lui mise sous les yeux. Les italiens ont réussi à faire évolouer deux femmes et un homme dans le cube d’une chambre murée, dont la seule ouverture est, au devant de la scène, un film plastique, écran voyeur et fenêtre impossible. Des moments d’émotion forte, le talent protéiforme des comédiens (chorégraphie, chant lyrique, multilinguisme) et le jeu de lumière et d’ombres font oublier les quelques longueurs de ce Combat divin.

Due figure femminili emergono dalla semioscurità e le immagini morbide e ovattate della messinscena contraddicono la violenza appena trattenuta dei monologhi delle due protagoniste. Si muovono lente queste donne nel silenzio spezzato da brandelli di musica operistica; con sottile inquietudine fanno e disfanno valigie in una atmosfera densa e appannata che si fa simbolo di una insoddisfazione profonda, di una ricerca incessante dell’altro, che sembra rimanere sempre senza risposta… Ferite, rimangono prigioniere di un mare di ricordi frammentati, che raccontano in un mosaico di lingue diverse.

C’è un cielo sotto Bologna dove piovono angeli. Cadono da un buco del soffitto e vengono giù come omini unisex alla Magritte, impermeabile e borsa in mano. Anime allo sbando dentro una camera da letto, che ficcano la vita in grandi valigie e la disfanno di qua e di là. Si svolge in questo affresco perimetrale la Lotta d’angeli di Andrea Adriatico, pièce visionaria alternata fra esplosioni di immagini e buio totale. Lo spettacolo è una sorta di percorso a ostacoli nel tragitto interiore della coscienza, monologare intermittente su quesiti senza risposta, dibattito con dio a distanza, che i tre protagonisti si palleggiano a vicenda.

Spettacolo dall’intenso clima onirico, visionario, febbrile, Lotta d’angeli intreccia suggestioni bibliche ed echi di un mondo mediterraneo vagheggiato e forse ormai scomparso. Il regista Andrea Adriatico procede per riferimenti allusivi, per scosse d’emozione penetrante e impalpabile, per vaghe concatenazioni metaforiche: vi si esprime, se non ho male inteso, una sensazione della vita come esilio o come prigionia, come lontananza da un universo dei padri – o di Dio, che forse è poi lo stesso – di cui aleggia una continua nostalgia, unita alla consapevolezza dell’impossibilità di ritornarvi.

Sono angeli che non sanno più volare quelli che si scontrano in Lotta d’angeli. Angeli e naufraghi, dice Milena Magnani che ha contribuito alla drammaturgia del lavoro con brevi testi colmi di quotidiana poesia. Uomini dal sentimento nomade. Vecchi fermi con le biciclette nei campi. Vecchie che fantasticano guardando il mondo da dietro una finestra. Un mondo che sarebbe piaciuto a Pasolini, autore caro del resto ad Adriatico, richiamato anche dalla Passione di Bach che accompagna lo spettacolo e dalla caduta di un pallone che muta il segno di quel fischietto, innestandolo nella cronaca di una partita.

Un letto. Fischi improvvisi mutano d’azione. Cadute dall’alto. Stacchi di buio. Uno specchio circolare. Lingue diverse, tedesco, francese, italiano. Eleganze, raffinatezze di accessori, abiti, scarpe e valige d’ogni dimensione. Frasi spezzate intensamente liriche ma anche di opaco ricordo: con continuità. Come per le musiche: con il coraggio di cercare la coerenza anche nelle condizioni estreme, tra ricerca estetica e gusto popolare. Canzoni al microfono. Un frammento di telecronaca (Parma-Inter!). L’apertura in alto resta inquietante, con figure chiare che salgono e scendono senza spiegazione. Lui e lei. Cambiarsi freneticamente. Disfare le valige. Parole attraversando la scena: pensando a Giacobbe. In lotta con l’angelo?

La compattezza visiva ricorda il precedente spettacolo Salvo, quella stratificazione materica qui mediata da una parete di velatino che ne assorbe le pulsioni e vibrazioni “vive” dei corpi, rende le immagini su di un piano quasi sospeso, come fossero attraversate da un collasso della percezione; un’allucinazione insomma, un’allucinazione posseduta da presenze poco “terrigne” in campo neutro, o per meglio dire di indecifrabile locazione temporale. E ancora una volta il regista Andrea Adriatico si serve di una scrittura drammaturgica, anzi la omaggia, piega al suo servizio la struttura stessa dello spettacolo che, in questo modo, insegue una traiettoria di verbosità epilettica (o piana, ma sempre sistematica) già incontrata nei suoi lavori tratti da Koltès o Garcia Lorca.

Le azioni e le parole disegnano non una storia ma un disagio, il male di vivere e l’accettazione, la lotta col proprio angelo (o demone), che può essere l’uomo per la donna, o semplicemente l’altro, quello che guardiamo, incrociamo, tocchiamo, ignoriamo tutti i giorni. La nera stanza, chiusa da un velo, per oltre un’ora diventa mondo autosufficiente, altare dei riti più segreti della relazione e della solitudine, della violenza sottile e dell’ansia, in uno spettacolo rigoroso, acceso dalle parole viventi della scrittrice bolognese Milena Magnani, che situano o spiazzano, che disegnano e abbandonano. Forte è la tensione che il regista e gli attori riescono a creare tra parole e azioni, tra introspezione e accumulo di segni.

Ad un certo momento dalla valigia di una coppia d’amanti che par fuggire da qualcosa di angoscioso ed è giunta ad una tappa della propria vita che risulta essere più minacciosa (claustrofobica) del pericolo che la minacciava, oltre a indumenti biancheria e altro esce una papera. Viva. Che si muove come attonita, scrollando le ali in inutili tentativi di volo. E se ne sta chiusa nel perimetro angusto, semibuio, falciato da luci striscianti che vengono da un lucernaio, unico “foro” di ingresso e, pare, di uscita da quel luogo designato a raccogliere umane ambasce. Senza saper cosa fare.

La scena di Andrea Cinelli e Roberto Ledda è una stanza nera, forse un sotterraneo, che rinvia a Porta chiusa di Sartre, con un letto, valigie, uno specchio parabolico. Gli angeli piombano da una botola-lucernario sul soffitto. Della vita restano frammenti sonori – Bach, Gabriella Ferri, il ronzio televisivo di una partita di calcio, heavy metal. Sono angeli di passaggio, in questo teatro post-esistenzialista. Angeli-naufraghi, dalla luminoosità del cielo, dal cerchio della luce. Gli angeli scendono su un paesaggio di uomini in fuga (metafora alla Blanchot, dove la fuga è un continuo movimento che genera se stesso).

Milena Magnani’s New-Age “angels” seem to be the victims of discrimination and exclusion – in other words, society’s losers. A voice-over from a soccer broadcast alludes to another theme that is at center stage in Italy this year, the arbitrariness of referees – injustice without any possible remedy. Although neither Magnani nor director Andrea Adriatico offer easy solutions, they give full expression to the emptiness that castaways must feel. Text in various languages underlines the universality of this predicament. Adriatico exploits the strenghts of physical theater to suggest the mental state of his three subjects, Patrizia Bernardi, Filippo Plancher, Giorgio Volpi.