L’omosessuale
o la difficoltà di esprimersi
di Copi
uno spettacolo di Andrea Adriatico
con Anna Amadori, Olga Durano, Eva Robin’s
e Andrea Fugaro, Saverio Peschechera, Alberto Sarti
cura Saverio Peschechera, Daniela Cotti
scenotecnica e luci Salvatore Pulpito
costumi Valentina Sanna
scene Andrea Cinelli
organizzazione Monica Nicoli
grazie a Stefano Casi
ad Alfredo Ormando
Debutto: Bologna, Teatri di Vita, 12 luglio 2012.
In Cina! In Cina! In Cina! Sembrano lontane parenti delle tre sorelle di Cechov… Eppure sono tre decadenti e decadute gran signore (o signori?) autoesiliate in una Siberia da cui non riescono a uscire, assediate da lupi affamati… Sono Irina, la Madre e la signora Garbo, tutte in corsa verso qualcosa, in un caleidoscopico delirio camp.
L’omosessuale o la difficoltà di esprimersi è uno dei testi più travolgenti di Copi, che nelle vesti della signora Garbo l’ha portato in scena a Parigi nel 1971 con la regia di Jorge Lavelli.
La commedia è un inesauribile accavallarsi di colpi di scena che ogni volta modifica completamente ogni riferimento, a cominciare da quello sessuale. È il trionfo del delirio transgender e psichedelico, che esplode in una graffiante comicità. Si ride di cose atroci, mentre il mondo alla deriva rappresentato in quella capanna nella steppa assomiglia sempre più al nostro mondo scardinato.
La strampalata storia di Irina e della Madre nella steppa, sempre in procinto di partire per un altrove che non esiste, mentre ricevono la visita di personaggi come loro senza un’identità e un sesso definitivi, è una vera cavalcata nella più sfrenata fantasia, che moltiplica la comicità di Copi per descrivere con il sorriso l’umanità lacerata dei nostri tempi. Un’umanità dove “la difficoltà di esprimersi” ha l’immagine atroce delle mutilazioni: fisiche, umane, sociali.
Visioni critiche
Andrea Adriatico ha ricevuto il voto di Sandro Avanzo per la miglior regia per L’omosessuale o la difficoltà di esprimersi ai Premi Ubu 2013.
Lo spettacolo ha ricevuto una nomination per il premio Rete Critica da parte di Roberto Rinaldi (Rumor(s)cena), con la seguente motivazione:
Sembra tutto sovraccarico e ridondante ma la materia drammaturgica e teatrale di Copi viene resa con un’esemplare leggerezza dal regista Andrea Adriatico, esaltata dalla recitazione superlativa delle tre bravissime protagoniste affiatate e in grado di reggere la scena all’aperto a pochi metri dal pubblico che si diverte non senza cogliere un messaggio di sconforto alla base della commedia.
Lo spettacolo è al quarto posto nell’elenco del miglior teatro LGBT del 2013, a cura di Sandro Avanzo per cinemagay.it, con la seguente motivazione:
Dopo aver portato in scena tanti testi di Copi si può dire Eva Robin’s “è” il suo emblema nel teatro italiano. Nella galleria non poteva mancare l’interpretazione di Madame Garbo (ruolo che fu dello stesso Copi). Irresistibile si ispira alla Joan Crawford degli anni ’40 giocando col kitsch dell’abbigliamento balneare e col camp delle situazioni inanellate tra lupi famelici della steppa e treni transiberiani che non partono mai. Diretta ancora una volta da Andrea Adriatico è in lizza con una erinni come Olga Durano e una falsa mite Anna Amadori. Strampalata e graffiante guerra di regine.
Lo spettacolo ha vinto l’edizione 2012 del Premio Facebook/Short Theatre.
Copi mescola, svia, rigira, porta al divertimento più sfrenato e assurdo per lasciare un retrogusto di realtà profonda, psichica, sempre dolorante, con allegria. In questo testo deforma e fa esplodere la commedia borghese, intingendola in un’omosessualità, come recita il titolo, “difficile a esprimersi”. Irina vive con la presunta madre, signora Simpson. E’ una specie di ebete ninfomane. Si dichiara incinta, non si sa di chi, scatenando la gelosia dell’altra donna, che si scopre essere stata la sua (il suo?) amante, operatosi (operatasi) per amore (da uomo a donna? da donna a uomo?). Mentre nella dacia in Siberia, assediata dai lupi e dal gelo, arriva la maestra di piano Garbo, di cui la ragazza sarebbe innamorata, che forse l’ha messa incinta, ma forse no. Dopo un aborto, l’irruzione di un generale e del marito della signora, dopo vorticose rivelazioni di altre identità,nascoste, diverse, in un vortice che mescola i generi sessuali, li rende indistinguibili, dopo la scoperta di un topo nel didietro della signorina diventata anoressica (il topo fu uno dei personaggi chiave dei fumetti di Copi, pubblicati in Italia su “Linus”), tra sogni di evasione e ribaltamenti, ancora, delle apparenze e dei desideri, sperando di raggiungere la Cina (come parodia dell’”A Mosca! A Mosca!” delle Tre sorelle), si finisce dove si era iniziato: in rivelazioni che non scoprono nulla, che ribadiscono la meravigliosa straziante confusione della vita, abolendo le categorie con lo sberleffo, aprendo la libertà, anche quella del dolore del sé profondo.
Il testo è stato letto come macchina nevrotica, come esplorazione di pulsioni represse. Resta una farsa irresistibile, che Adriatico affronta con la mano felice rivelata in altri Copi (Le quattro gemelle, Il frigo). La Siberia la ambienta all’aperto, sotto alberi frondosi e frastuono di cicale. E’ un telo bianco steso per terra dalla signora Simpson e da Irina in costume da bagnanti, con asciugamani, occhiali da sole, palette e secchielli. La signora Garbo arriva su impossibili trampoli da drag queen e gli uomini irrompono dal parco esterno in costumi improbabili con pelouche,scavalcando una rete di recinzione. In un angolo se ne sta, senza interferire, una madonnina di Lourdes, non sappiamo se stabile in quel sito o se oggetto di scena. Le rivelazioni vorticose, con una citazione anche della “visita inopportuna” che concluderà la vita dell’autore (è il titolo dell’ultima pièce scritta da Copi, che ride con allegra amarezza della sua malattia), si susseguono tra stralunamenti, infantilismi, vezzi, voci baritonali delle gentili fanciulle, colpi di scena nel gioco dell’amore, racconti di operazioni multiple e fughe da Casablanca, in cerca di identità sempre instabili, mai delimitabili.
Il mondo mutante, utopico di Copi, diventa gioco, spaesamento, divertimento a ritmo di una meravigliosa canzone francese come refrain, Mélocoton di Colette Magny, segnata dalla ripetizione della frase “io non so niente”, per chiudersi su quell’altro canto alla bellezza, all’amore, alla disperazione che è Cosa sono le nuvole di Pasolini e Modugno. Tutto è retto dalle tre interpreti. Se alla prima si nota ancora qualche tempo comico non perfetto, si capisce che con le repliche il meccanismo diventerà ben oliato. Olga Durano, un po’ Bette Davis un po’ Tina Pica, con un’improbabile parrucca nero corvino che dà il meglio di sé quando è scarmigliata, ricorda pure il grande compianto padre Giustino (interprete, per altro, di Una visita inopportuna): spinge, sostiene, dà ritmo, furoreggia, trascina. Anna Amadori, Irina, è un fragile animale tutto istinto smarrito nella vertigine della carne e nella vertigine delle mutazioni, fino alle soglie di un’ebetudine simile a quella del Pierrot contadino di Watteau, in un indimenticabile disegno dell’idiota come natura, come vittima e carnefice agito dalla carne che travolge ogni possibilità di pensiero, ammaccata, violata, trionfante. Eva Robin’s, sotto le mossette, questa volta virate a una prestanza scenica quasi ginnica, con pose plastiche compiute e subito smontate, dimostra una maturità d’interprete che va ben oltre la parodia, inoculando sguardi assassini e coltellate di sensibilità nei vortici della pochade. Anche il contributo, veloce, degli uomini (Maurizio Patella, Saverio Peschechera, Alberto Sarti),aggiunge leggerezza e un vago senso di minaccia esterna, in un lavoro che si chiude impacchettando gli scarni arredi di scena, forse per partire, più probabilmente per finire, sospesi sull’abisso del poter essere, del voler essere, del provare e trasformarsi a essere, sotto la farsa del dover essere.
Lo spettacolo del drammaturgo franco argentino Copi, proposto all’interno del cartellone festivaliero Cuore di Grecia raccoglie consensi nella nicchia che vive con passione le proposte sempre interessanti del teatro di via Emilia Ponente. Tantissimi i pregi: innanzitutto la possibilità di scoprire un testo brillante e irriverente, una regia fuori dagli schemi, capace di riplasmare uno spazio marginale della città in un’arena dell’incredibile, dove campeggia una sorta di salice piangente guarnito da una decadente cascata di finocchi, gioco probabilmente allusivo, così come le mutilazioni via via messe in scene, del senso di caos e della difficoltà di esprimersi e dare etichette della rappresentazione omosessuale, e della società tutta.
Ottimo anche il gioco di interpretazione creato dagli scambi irriverenti tra le tre attrici, con il loro rovesciamento dell’ideale terzetto neoclassico delle Grazie. Antieroiche, lontane dal canone della donna tradizionale Eva Robin’s, Olga Durano e Anna Amadori: ciniche, brutali, parodiche, perfette interpreti di una scena irresistibilmente grottesca. Gustoso in generale l’effetto di ribaltamento di grandi maschere classiche: il generale della steppa che assume i tratti dell’amante di Jean Claude di Sensualità a corte, l’insegnante di piano dall’aspetto tutt’altro che asburgico, un rapporto genitori – figli sviscerato e continuamente capovolto fino alla labirintica dispersione.
La trama? Inutile provare a capire chi sia Irina, chi siano i suoi amanti, di chi sia il feto che espelle volgarmente mentre narra dei suoi incontri occasionali tra le foreste e le stazioni di una metaforica steppa. Anche un terzetto di uomini in scena, anche se solo come comprimari: Maurizio Patella, costante presenza degli spettacoli di Adriatico, Saverio Peschechera e Alberto Sarti. Vastissima l’eco di riferimenti che si possono intravedere tra i meandri del testo, tra le foglie degli alberi immobili e cangianti della scenografia: c’era un incubo freudiano dietro alla morbosa voracità di Irina che porta dentro di sé il suo topolino? Difficile dirlo, meglio rinchiudersi in una montaliana definizione per via negativa.
Il regista Andrea Adriatico ambienta la storia di queste sventurate confinate volontariamente in Siberia (il cambio di sesso è la loro colpa!), tra le fronde degli alberi, un prato arso dalla siccità che esalta la connotazione surrealistica del posto. Una sorta di pianeta lontano da noi quanto simile ad un mondo virtuale dove rifugiarsi in cerca di sollievo, in fuga da una vita senza scopo. Si fa strada nelle povere esistenze di queste donne, alla deriva senza speranza, un’ ineluttabilità spinta verso un’utopico miraggio per un amore agognato e mai realizzato.
Eva Robin’s, al quale il regista affida il ruolo di una vamp uscita da qualche rivista patinata, è intenzionata a portarsi via la sventurata Irina per ricominciare un’improbabile vita in Cina. Olga Durano (figlia d’arte di Giustino Durano, indimenticabile attore del teatro italiano) è una madre arcigna e severa mentre Anna Amadori è la figlia ninfomane quanto labile e vulnerabile. Tre attrici strepitose capaci di rappresentare la follia di pulsioni e sentimenti opposti, odio e amore, eros e thanatos, dove il perturbante è sempre in agguato. Copi anticipa con la sua lucida visionarietà e una buona dose di comicità pungente, alla base del suo teatro, capace di ironizzare la tragedia della vita di chi si sente relegato ai confini di una società che lo ha espulso.
Il diverso qualunque esso sia è tenuto alla larga e visto con sospetto. Ovvero la “difficoltà di esprimersi” con l’unica colpa di essere omosessuale. Le azioni sulla scena vengono reiterate come se un gesto, un comportamento umano sia vincolato dal meccanismo della coazione a ripetere. Più lo ripeti e più speri di rimuoverne la causa. Tutto inutile: Copi fa capire che dentro l’inconscio umano ci sono variabili impazzite che mai potranno essere sconfitte. Il dolore viene anestetizzato dal piacere dissacrante che fa sembrare tutto imprevedibile o meglio non prevedibile. Si può spiegare l’amore qualunque esso sia? Copi non lascia scampo e appena tu credi di aver decifrato un semplice indizio lui confonde tutto e rimescola le carte. Irina confessa una gravidanza ma cambia versione, ogni volta per ingannare la madre che tenta di sapere chi sia l’uomo responsabile di averla messa incinta.
Una figlia ex figlio? Un tempo era un uomo che ha desiderato diventare donna o il contrario? La sessualità femminile convertita in quella maschile. Di sicuro sono identità di genere in dissolvimento. Confini inesistenti, amori evanescenti. C’è materia in abbondanza per un manuale di psicoanalisi. Irina cerca la fuga da una madre possessiva e gelosa della Signora Garbo molto “garbata” e suadente, nonché insegnante di pianoforte della figlia, di cui forse è la responsabile della sua gravidanza ma a cui è difficile credere con gli strumenti del raziocino messo a dura prova comunque. Non per una legge della natura umana da rispettare ma per quel sentimento di incredulità che ti assale nel percepire come ne L’omosessuale o la difficoltà di esprimersi, possa accadere di tutto o il contrario di tutto. E allora compaiono strampalati personaggi simili a folletti, (Maurizio Patella, Saverio Peschechera, Alberto Sarti), sbucati improvvisamente da dietro gli alberi. Appare un generale, il marito della signora, viene evocato un medico che si chiama Feydeau (e non può che pensare al celebre autore del teatro comico francese), per gli strani malesseri di Irina che espelle dalle viscere perfino un topo. Sembra tutto sovraccarico e ridondante ma la materia drammaturgica e teatrale di Copi viene resa con un’esemplare leggerezza dal regista Adriatico, esaltata dalla recitazione superlativa delle tre bravissime protagoniste affiatate e in grado di reggere la scena all’aperto a pochi metri dal pubblico che si diverte non senza cogliere un messaggio di sconforto alla base della commedia.
È un pungolo al perbenismo di una borghesia ipocrita messa alla berlina dall’autore argentino/francese. Tra secchielli e palette di plastica, una madonna di Lourdes formato giardino posta nell’angolo che crea stupore per una presenza impossibile da comprendere se voluta o casuale. Oggetto di scena su quel fazzoletto di terra ed erba secca e bisognosa di pioggia che solleva polvere ad ogni passaggio, dove si consuma una processione laica e strampalata in cui appaiono sentimenti soffocati e inibiti, esibizionismi da draag quen su scarpe dai tacchi vertiginosi. Piombano improvvisamente a terra i finocchi/ortaggi: è il segno del sacrificio. Vittime e carnefici di se stesse. Arrotolate dentro un sudario artificiale dove Copi seppellisce per sempre una vita che forse non voleva nemmeno iniziare.
Un parrucchiere promiscuo o qualche cosacco girovago, o forse un rivoluzionario fedifrago, l’ufficiale Garbenko? Oppure ancora, inattesa, l’insegnante di piano, la signora Garbo, un transgenderdal corpo di donna ed il sesso maschile – Eva Robin’s in scena – che per Irina ha perso la testa, e che è pronta, è pronto, a fuggire con lei oltre frontiera, sui binari diacci della transiberiana?
“Ci sono delle circostanze nella vita e lei, signora Simpson, lo sa meglo di me, in cui non si può fare a meno di essere sinceri”, fa la Garbo dichiarandosi a Irina. E nella sua battuta, la stessa che scrisse e pronunciò Raúl Damonte Botana, in arte Copi, autore e attore della pièce, durante la prima dello spettacolo al Théatre de la Resserre di Parigi, anno 1971, c’è il grattacapo centrale, oltre il sipario: quello dell’incomunicabilità di sé stessi.
“L’omosessuale o la difficoltà di esprimersi” è una commedia tragica (o una tragedia da avanspettacolo) fra le più potenti e pungenti del vignettista e drammaturgo franco-argentino, oggi riproposto dal regista Andrea Adriatico – lo scorso luglio ai bolognesi Teatri di Vita, i prossimi 5 e 6 settembre al Teatro India di Roma – coi dialoghi serrati e illogici dei suoi attori en travesti, così complessi e incapaci di comunicare, di comunicarsi, se non giungendo alla massima deformazione, aggrappandosi all’estrema parodia.
È uno spettacolo visionario, bellissimo, nel cui non-senso c’è il senso del timore: la paura di non riuscire a dire ciò che si vorrebbe, a raccontarsi come si potrebbe. A definire, insomma, incasellare, la propria identità. Sessuale, anzitutto, e parallelamente emotiva. Per essere uditi, quindi capiti, dagli altri. Senza la scorciatoia del clichè, l’escamotage parossistico, il mezzuccio della macchietta: ché un solo tratto, caricaturale, non li supplisca tutti, in un calderone di stereotipi sregolati e oltraggiosi, corroborati da una comicità grottesca, debilitati da un impulso autolesionista.
Tra cambi di sesso volontari e obbligati, in questo teatro dell’assurdo che è fatto di musica e latrati, di favola e d’orrore, dolci pene e peni e seni posticci, una sali-scendi d’amore e turpiloquio, Colette Magny in “Melocoton”, il brano che fa da sottofondo allo spettacolo, canta e spiega, in certo modo, il copione di Copi, ripetendo: “J’en sais rien, viens, donne-moi la main”. Non so nulla, vieni, dammi la mano. Come a dire non chiedermi niente, non so dirti chi sono. So darmi come sono. So essere solo, insomma, e perdona s’è poco, me.
Vi si racconta di Irina, che ha smesso di prendere lezioni di piano e si concede nei bagni della stazione a chi le capita, di sua madre, la signora Simpson, e della signora Garbo, insegnante di piano di Irina che vuol fuggire con lei in Cina, ora che Irina è incinta, di lei, e lasciare la Siberia, dove sono tutte rifugiate, previa la complicità di suo marito Garbenko e del generale Puskin. Irina ha però appena abortito e non sa davvero di chi sia il figlio, se di sua madre, della signora Garbo, di Garbenko o di qualche cosacco.
Irina accetta comunque di partire con la signora Garbo che, racconta, suo padre, per punirla di una sua relazione con un cinese dal quale ha avuto un figlio che ha poi ucciso, le ha fatto apporre chirurgicamente un pene, morendo poi di crepacuore.
Irina prima si fa la cacca addosso, poi si rompe una gamba, e infine si taglia la lingua ritardando con questi suoi capricci la partenza.
Grazie a un pressante interrogatorio a Irina da parte della signora Garbo veniamo a sapere che la signora Simpson e Irina non sono madre e figlia, che sono diventate donne dopo essere state operate a Casablanca, che la signora Simpson si è fatta operare per poter essere deportata in Siberia con Irina e che Irina non voleva diventare davvero donna ma farsi solo il seno.
Bastano questi elementi per capire l’impianto metaforico più che surreale della pièce, che è la più feroce denuncia del patriarcato, con cui gli uomini decidono le sorti di chi non sta nei ranghi, siano donne trasformate in uomini o uomini costretti a mutilarsi per andare in un altrove dove essere se stessi.
Una tragedia appena mitigata dal gusto camp dell’eccesso, dell’ironia e dell’autoironia, dal dettaglio sessuale esagerato e inopinato (il topo che Irina si infila nell’ano prima di partire, il dettaglio del membro del parrucchiere travestito con la veletta al quale Irina si concede, o quello del marito della signora Garbo) tramite i quali Copi denuncia la morale borghese che non permette a nessuno di derogare da quelli che oggi, il testo è stato scritto nel 1971, chiamiamo stereotipi di genere, quelle caratteristiche e comportamenti cioè che consideriamo connaturati ai due sessi e che sono invece il frutto di una tradizione culturale.
L’omosessualità non viene mai menzionata nel testo, dove si parla solamente di rapporti eterosessuali tra uomini e donne (qualunque sia il sesso biologico di partenza) e dove la procreazione di Irina è una intenzionale chimera (visto che la riassegnazione di sesso rende irrimediabilmente sterili), una eterosessualità che sembra dirimere qualunque rapporto sociale.
L’omosessualità è la grande assente proprio perchè non trova un linguaggio adeguato tramite il quale poter esprimere l’amore per le persone dello stesso sesso, se non tramite una rinormalizzazione che fino a ieri ha visto i gay femmine mancate e le lesbiche uomini mancati. Una rinormalizzazione che partiva dall’idea che l’omosessualità fosse una malattia, derubricata solamente nel 1994, e che in Italia, vale la pena di ricordarlo, vedeva ancora nel 1971 curare, dietro ricovero coatto in manicomio, Giovanni Sanfratello, il giovane compagno di Aldo Braibanti, processato e condannato per plagio, a base di elettrochoc e coma insulinici.
Un testo così complesso nei suoi risvolti e sottotesti richiede una messa in scena di enorme precisione per non farlo implodere sotto il peso stesso dei suoi non detti.
Andrea Adriatico è riuscito ad allestire una messinscena che rasenta la perfezione.
A cominciare dall’uso dello spazio scenico in cui lo spettacolo si è svolto, il canneto all’esterno del teatro India, che Adriatico impiega in maniera creativa non solo utilizzato un grande telo di plastica per segnare la zona di prato dove si svolge la scena ma estendendo l’azione, al di là della recinzione che delimita la zona dell’India, nei prati incolti che lo circondano dove fa svolgere l’arrivo di Garbenko nella slitta trainata dai cani, a decine di metri dalla zona adibita a palco, che l’attore raggiunge scavalcando la recinzione.
Per alleggerire il portato tragico della pièce Adriatico ha l’intuizione elegante e efficacissima di far svolgere l’azione non già nell’interno borghese della dimora di Irina e sua madre, come vuole Copi, ma in una spiaggia, dove le due donne si muovono con indumenti adeguati al luogo dal costume da bagno, agli asciugamani e gli occhiali da sole con annessi secchielli da spiaggia (in Siberia…). Tutti i costumi (di Valentina Sanna e Andrea Cinelli, ) sono stati scelti in base a uno squisito gusto pop che rendono plausibile l’implausibile del testo sottolineando l’alterità di un discorso che si muove su più fronti.
L’amore come manipolazione (quello di Garbo per Irina che vuole portarla via) quello della Signora Simpson per Irina, che si è fatta operare per poter essere deportata con lei in Siberia.
L’odio patriarcale dei padri per le figlie (il padre di Garbo che l’ha resa uomo, o, meglio, donna col pene) e degli uomini su altri uomini (Irina che racconta di essere giunta in Egitto fuggendo dal Marocco, prima di essersi operata, dove era stata coinvolta nel furto di una vacca da alcuni uomini).
Un potere esercitato variamente tramite i sentimenti o la sessualità che meriterebbe analisi ben più approfondite di quella che possiamo permetterci qui.
Si ride a denti stretti durante lo spettacolo, un riso mai come in questo caso esorcizzante, che grida con ferocia quell’impossibilità di comunicare che non è da imputare all’omosessualità di per sé ma al mondo esterno che non le dà modo né spazio nemmeno per esser detta per esistere come Irina simbolicamente denuncia quando si taglia la lingua.
La messinscena di Adriatico si distingue anche nel finale. Mentre Copi chiude la piéce con Irina che fa i capricci fingendo di non riuscire a camminare Adriatico fa cadere stecchite le tre donne in terra raggiunte subito da un lancio di finocchi (quegli ortaggi che, ma è probabilmente falso, erano impiegati durante i roghi medievali per coprire l’acre odore di carne umana bruciata). Poi, sceso da un alto muro divisorio, un uomo copre le tre vittime ripiegando il telo di plastica impiegato per delimitare la zona adibita a palco, mentre sentiamo le note di Che cosa sono le Nuvole cantata da Modugno dal film omonimo di Pierpaolo Pasolini, dove uno spazzino getta le marionette Totò e Ninetto Davoli in una discarica.
Uno spettacolo perfetto nella messinscena quanto nella regia e molto anche nella recitazione.
Bravissime e intense Eva Robins e Olga Durano che dice le sue prime battute con la voce almeno un ottava sotto il suo tono naturale a sottolineare il sesso biologico della signora Simpson. Ancora più brava, se è umanamente possibile, Anna Amadori la disperata dignità con cui restituisce il vissuto delle parole e dei silenzi di Irina sono un risarcimento morale per tutte le vittime dello stigma sociale contro l’omosessualità, come Alfredo Ormando che il 13 gennaio 1998 si è dato fuoco davanti la basilica di San Pietro (Mi tolgo la vita perchè, a causa della mia condizione di omosessuale, non sono accettato dalla famiglia e dalla società) morendo dopo 10 giorni di agonia, al quale lo spettacolo è dedicato.
“L’omosessuale o la difficoltà di esprimersi” rappresenta uno dei testi più straripanti, originali e intrisi di trascinante ironia partoriti dall’inesauribile fantasia dell’autore, summa del suo mondo esplosivo popolato da creature che travalicano ogni decisiva definizione di identità e sesso e del suo interrogarsi sull’intrinseca difficoltà del comunicare la propria reale essenza al prossimo, al di là delle ottuse barriere frapposte dalla società borghese benpensante e delle naturali intime reticenze connaturate all’individuo.
Sulle note di “Melocoton” di Colette Magny – brano che accompagnerà come un’affascinante intelaiatura sonora diversi passaggi della narrazione ed esprime alla perfezione, con la malinconia del suo incedere cadenzato, l’assenza di certezze e la bruciante necessità di vicinanza e calore umano che trasuda dal testo di Copi – con piglio militaresco entrano in scena Irina (Anna Amadori) e Madame Simpson (Olga Durano) inoltrandosi nella gelida ed inospitale steppa siberiana per catturare qualche agognato raggio di sole. Sin dalle prime battute il rapporto tra le due donne ci appare ambiguo e difficilmente definibile: la prima, giovane ragazza immatura e continuamente bisognosa di sostegno e aiuto; la seconda al contrario determinata, severa, perentoria nell’affrontare i pericoli del mondo esterno, ma allo stesso tempo incredibilmente generosa e sempre maternamente disponibile ad accudire la sua compagna di vita. Madre e figlia? Decisamente no. Amanti? Probabilmente, ma non solo. Amiche con un legame madre-figlia che deborda frequentemente nell’incestuoso? Sì, forse questa definizione si avvicina maggiormente al loro menage “familiare”. L’unica certezza è che il loro incontro sarebbe avvenuto alcuni anni prima a Casablanca in occasione dell’operazione chirurgica del loro cambiamento di sesso.
Dopo appena pochi istanti trascorsi a godere del tepore dei raggi solari, Madame Simpson redarguisce con veemenza Irina per aver trascurato le lezioni di pianoforte finanziate dal loro mecenate, lo zio Pierre (Guai ad indisporlo! Se si interrompessero le sue sovvenzioni, loro due finirebbero direttamente nel cuore della steppa a mendicare), tenute dalla conturbante signora Garbo (Eva Robin’s). L’irriverente ragazza ha piuttosto preferito trascorrere i pomeriggi in infuocati incontri di sesso promiscuo nei bagni della stazione, seducendo ruvidi cosacchi, un bizzarro parrucchiere e persino l’ufficiale Garbenko, marito della sua insegnante di musica. Si scoprirà ben presto che queste infuocate intemperanze adolescenziali hanno prodotto il loro frutto: Irina è incinta, senza poter immaginare neanche lontanamente chi sia il padre; il feto verrà però prontamente evacuato in un secchiello da spiaggia, proprio mentre sopraggiunge, torbidamente sinuosa su tacchi vertiginosi ed adornata da un abito che ben poco lascia all’immaginazione disvelando una bellezza esuberante, la premurosa signora Garbo. Preoccupata dalla sparizione della sua allieva, giunge a sincerarsi delle sue condizioni e, ennesimo colpo di scena, a dichiararle perdutamente il suo amore! Irina confessa a questo punto che il padre del nascituro sino a pochi istanti prima custodito nel suo grembo era proprio la sua zelante istitutrice, anche lei transgender dal sensuale corpo femminile ma avente attributi sessuali maschili.
Tra un’ipotesi di fuga in Cina sulla Transiberiana, rocambolesche cadute, un parapiglia di accuse e recriminazione reciproche e il contrappunto di alcuni grotteschi personaggi maschili che irrompono dal retro del canneto facendo esplodere petardi, arrampicandosi su grate ed indossando eccentrici costumini dalla foggia quantomeno kitsch (come non rivolgere un elogio alla grande ironia e destrezza dei tre baldi comprimari maschili della pièce, interpretati da Saverio Peschechera, Alberto Sarti e Maurizio Patella), si può agevolmente immaginare come questo glitterato tourbillon di abbacinante nonsense, spietato sarcasmo, dialoghi taglienti come affilatissimi rasoi alternati a palpiti di incredibile tenerezza, non condurrà ad un epilogo in alcun modo risolutivo. Le tre battagliere protagoniste riceveranno la visita a sorpresa del dottor Feydau (sferzante il parallelismo del suo nome con quello del padre del teatro comico francese, che concluse la sua instancabile opera di autore di farse e vaudeville internato in un ospedale psichiatrico), il cui intervento terapeutico era stato da loro sovente evocato e al contempo atrocemente temuto: il medico scaglierà su di loro una infinita valanga di finocchi tramortendole, per poi raccogliere in un telo-sudario i loro corpi e tutti gli arredi di scena, quasi a voler sottolineare un senso di compiutezza della loro esperienza terrena, ormai liberata dai vincoli del dover essere, del dover trasformare il proprio corpo e la propria anima per inseguire la felicità, del dover comunicare il proprio mondo interiore superando quotidianamente insormontabili ostacoli.
Lo spettacolo conquista senza riserve lo spettatore grazie ad una miscela sapientemente dosata tra la follia irrefrenabile della drammaturgia di Copi, la riconoscibile ed ineccepibile cifra registica di Andrea Adriatico ed il coinvolgente lavoro d’ensemble dei talentuosi interpreti in scena che innescano un esplosivo meccanismo ad orologeria dai tempi comici squisitamente calibrati. Davvero trascinante la prova recitativa di Olga Durano, capace di plasmare con sorprendente ricchezza il suo complesso personaggio: furibonda ed irrequieta sotto la sua scarmigliata parrucca nero corvino ed un paio di vistosi occhiali da sole, elargisce perle di dissacrante ironia con un ritmo incalzante, un’energia poderosa ed una solidissima presenza scenica. Suo perfetto contraltare Anna Amadori, abilissima nel dar vita ad una creatura stralunata e fragile, insofferente, nevrotica e frustrata che cerca sfogo in pulsioni sessuali incontrollabili e passioni dilanianti, avendo ormai irrimediabilmente smarrito la bussola della propria esistenza; pregevole la poliedricità di accenti della sua interpretazione e la brillante alchimia instaurata sul palcoscenico con la sua madre-amica-carceriera. Infine come non rimanere catturati dal carisma ammiccante, dalla profondità dolente e dai luminosi guizzi di imprevedibili trovate umoristiche, concentrati nell’intensa e ricercata prova di Eva Robin’s, al suo secondo Copi dopo “Il Frigo” (diretto dallo stesso Adriatico) e reduce dal successo di “Tutto su mia madre” e “Otto donne e un mistero”. La Robin’s, ora che può dirsi finalmente archiviato il sensazionalismo da cui era stata avvolta ad inizio carriera grazie al gretto provincialismo italico, si conferma attrice teatrale a tutto tondo, versatile ed appassionata, riuscendo a catalizzare con spontaneità e fascino l’attenzione del pubblico.
“L’omosessuale o la difficoltà di esprimersi” è un piccolo gioiello teatrale visivamente magnifico, sorprendentemente divertente nella sua sconsiderata irrazionalità e allo stesso tempo denso di significativi spunti di riflessione, uno spettacolo a cui auguriamo assolutamente una circuitazione il più ampia possibile e che conferma la particolare sensibilità, intelligenza e originalità degli artisti di Teatri di Vita.
“Guariamo dalla sofferenza solo provandola appieno” (Marcel Proust)
Le due protagoniste, presumibilmente madre e figlia, presumibilmente donne, entrano nella scena con quel passo forzato, scocciato, di chi deve di nuovo raccontare quella propria situazione esistenziale, relazionale (con la consapevolezza, ogni volta, di non essere capiti).
Per questo hanno imparato a restituire un frame, una cornice del racconto rispetto alla quale ci si è come accordati, per non avere proprio l’impossibilità di comunicare il proprio dolore, o anche nasconderlo, quando l’altro ci costringe a riviverlo solo cercando parole.
In quel frame vengono posizionate tutte le varie vicende (sofferenti) di cui dare conto all’altro tirannico, ogni volta ricominciando dall’inizio, come se la storia, di nuovo daccapo, potesse per noi come cambiare la realtà (o perlomeno farla sembrare diversa, più comprensibile, più accettabile).
Eppure, come abbiamo detto, ripetere è anche nascondere. Ed è allo stesso modo un segreto il ripetersi della canzone in sottofondo, “Melocoton” di Colette Magny, che così vuole convincerci del ritmo, della melodia di questa storia nascosta. La canzone, come un’afflizione sopportabile, ribadisce: “io non so niente” (oppure: a questo proposito non vorrei dire niente)!
Allo stesso modo, ogni volta a fatica, è il racconto della nostra propria storia fragile, quella che abbiamo imparato a memoria cercando di occultare la debolezza su cui l’altro potrebbe appoggiare la sua cattiveria. Ma la fragilità (non possiamo farci niente) è subito evidente, ed è su quella fragilità che l’altro rinforzerà i suoi terribili pregiudizi.
Capita a tutti. Ci chiedono di noi e allora non sappiamo rispondere, non vorremmo rispondere, perché le domande fanno sempre molto male, diventano, sono già, quasi sempre dei tormenti.
Ma poi rispondiamo seguendo un racconto che è già stato, più e più volte, collaudato, oppure assumendo quel tono semplicemente affermativo, conciliativo, per non deludere le supposizioni, e non fare andare, così, troppo in là, l’inquisizione.
Copi (l’autore) evidentemente conosceva bene questa difficoltà di esprimersi, cercando in qualche modo di evitare la mortificazione e l’abuso. La soluzione? La sfrontatezza, l’esuberanza, l’ironia (che difendono molto bene dal dolore che l’altro vorrebbe ulteriormente infliggerci con quel suo interrogatorio forzato). Ecco anche perché, delle due protagoniste, non riusciamo ad avere un’identità precisa, esattamente come se ci trovassimo di fronte a delle persone di cui ignoriamo il sesso (è un espediente?). Questo aspetto senza dubbio incuriosisce. È l’odore del sangue che sentono i predatori.
Ci fa diventare carnivori alludere all’ambiguità sessuale di una persona.
La terza protagonista allora, per questo motivo, è l’amante (Eva Robin’s), il nostro sospetto appurato, il punto centrale del dolore (oltre il rapporto morboso affettivo/afflittivo “parentale” delle altre due, che pure ci provano a sostenersi l’un l’altra camuffandosi). È cioè la supposta verità che si svela (secondo noi) rispetto alle domande e alle supposizioni. È l’omosessualità. O meglio, di nuovo, l’idea, il frame che abbiamo dell’omosessualità, e che ci fa credere che sia il corpo, o l’uso del corpo, a prendere il sopravvento in quel rapporto nascosto, che quasi si impone con una metamorfosi fittizia (l’operazione). E questo travestimento (o mutamento chirurgico) è come se restituisse però come una forza in più a chi soffre, una ancora possibile identità, proprio di fronte all’altro indagatore, usurpatore.
Altro aspetto spiegato molto bene è quello che gira intorno alla frase “Irina smettila di sanguinare”.
Forse dovremmo renderci conto che non possiamo dire a nessuno di smettere di soffrire…e se Irina (la figlia) si è tagliata la lingua e ha il sangue che scorre in un’emorragia che ci allarma, forse vorrebbe soltanto dirci che, anche senza parole, ognuno continua, comunque (anche quando non chiediamo, o forse faremmo meglio a non chiedere), a sanguinare, a esprimere il proprio dolore attraverso tutte quelle forme che prende il corpo (che quel dolore pure vorrebbe contenere). Così con gli occhi, i capelli, il proprio aspetto martoriato e necessariamente mutato. Più che chiedere perciò dovremmo vedere, ascoltare, sentire…
La messa in scena è molto intelligente, e commovente (di Andrea Adriatico). Al di là dell’ironia che usa per far ridere o far sorridere, ragiona per contrapposizioni assolute (nel racconto siamo in Siberia, ma visivamente ci troviamo su una spiaggia con cappelli da mare e occhiali da sole…).
La scena finale è un’interruzione. Tutto si inceppa, muore per un istante, ma, come in un remake, la storia di nuovo verrà raccontata da capo, per soffrire di nuovo (e fino di nuovo a morire). Bravissime Anna Amadori, Olga Durano ed Eva Robin’s per Teatri di Vita.
È una regia en plein air che opta per lo spazio indeciso del canneto del teatro India, uno spiazzo di ghiaia perimetrato da fabbriche dismesse e da un’alta recinzione su cui corre una pista ciclabile, corsia preferenziale di casuali spettatori perlopiù immigrati. La scena è deserta, un “terzo paesaggio” alla Gilles Clément, quando due bagnanti in infradito srotolano come una stuoia il loro demanio, un tappeto in pvc che farà da aire du jeu. Quasi venissero da una terra lontana, estradate, Irina (Anna Amadori) e sua madre (Olga Durano) si sistemano come villeggianti al mare – il fraseggio cantilenante di Colette Magny, Melocoton funziona da refrain – nel ritaglio bianco di un altrove forastico abitato da lupi famelici (forse licantropi?). Il paesaggio del dramma è quello siberiano dei campi di detenzione, gelida steppa di isolamento, ma Adriatico interviene sulle polarità e gli ossimori, suggerendo con accessori e costumi uno scenario marittimo dai colori flash shock. Irina (un ex uomo) cerca di sfuggire al controllo della nevrotica iperprotettiva madre adottiva, Madame Simpson (una ex donna, il cui nome allude non casualmente alla soubrette Wally) per ricercare squallide avventure sessuali: trattata come una bambina – i giochi da mare diventano stoviglie o sanitari dove espellere il piccolo feto che Irina porta in grembo; il termos non contiene tè ma il liquore mirabelle; la bambola gonfiabile si risemantizza in canotto o ciambella – è oggetto delle attenzioni di uomini e donne indistintamente, per quanto in quella terra uomini e donne siano indistinguibili. Madame Garbo, l’insegnante di piano (una raffinatissima Eva Robin’s, musa elegante nel teatro di Adriatico già con Frigo sempre di Copi), la brama, la reclama e le sue profferte d’amore diventano perfino dichiarazioni e promesse di fuga a Pechino. Pur sposata a un mezzo uomo, Garbenko (Maurizio Patella), specie di satiro in mimetica con fallo fluorescente gusto cartoon e orecchie da furetto, è in verità lei l’uomo di casa, anche in virtù dell’innestato sesso maschile. Ma questa non è una storia d’amore e non reclama un lieto fine, piuttosto è una tragedia condita di fiabesco, dove gli aiutanti magici non possono freanare il masochismo della protagonista Irina, mitigare la sua ricerca di oblio contro la disperazione, l’eccesso di esistenza soddisfatto dalla reificazione dell’atto contro l’emarginazione che sconta, contro la differenza che vuole rivendicare fino a autoinfliggersi mutilazioni fisiche.
Nessun happy ending allora per dei personaggi che non riescono ad uscire da quel tappeto bianco, nessun rito d’iniziazione o di passaggio a battezzare i suoi personaggi. Tanto vale arrotolare via tutto: sono bambole rotte che non funziona più, scarti di una subumanità sotto una pioggia di finocchi freschi, gettati da un parapetto come rifiuti in una discarica. È la stessa fine dei burattini pasoliniani di Che cosa sono le nuvole?, una storia d’amore che si fa canzone.
L’omosessuale è una strana commedia. Farsa sarebbe più esatto non fosse che i personaggi agiscono seguendo ciascuno una propria logica. L’elemento di disturbo si coglie in ciò che dicono. Tra azione e parola i nessi sono chiari di tanto in tanto, ma il più delle volte l’azione va verso ovest e la parola verso est. Dico est e ovest invece che, poniamo, destra e sinistra, perché fissazione delle tre protagoniste, che sono in Siberia, è la Cina. Vogliono andar via, vogliono andare verso Oriente. Che cosa la signora Simpson, la figlia Irina e la signora Garbo ci facciano, in Siberia, ovvero perché sono lì, non lo sappiamo. Ciò che si vede è che queste tre donne, proprio donne non sono. A quanto pare, Casablanca è stata una proficua (o disgraziata) meta della loro vita. Chi sia donna, chi donna non sia più, chi sia uomo, non si sa. Ma quasi all’inizio scopriamo che Irina è incinta e che quando la madre le chiede di chi sia incinta, la figlia risponde di non saperlo. Al che, sorprendentemente, la Simpson risponde escludendo d’esserne responsabile dal momento che i loro rapporti sono cessati da anni.
Vi sono altri personaggi: lo zio Pierre che lì, in Siberia, mantiene Irina e sua madre; o l’ufficiale Garbenko, vecchio amore della signora Garbo, maestra di pianoforte di Irina. Tra costoro, in fondo, non vi sono veri rapporti. Potremmo congetturare una competizione tra Simpson e Garbo per chi abbia più influenza sulla giovane e scervellata ragazza: una donna che ama farsi possedere da un parrucchiere con la veletta «nei cessi della stazione tra mezzogiorno e le cinque» o, come lei precisa, «tra le due e le quattro e mezzo»; che detesta le sue lezioni di piano e si rifiuta di mangiare le minestre preparate dalla madre.
Appare difficile dire che sviluppo abbia la vicenda poiché sviluppo non c’è. Ancora più difficile fissare un qualunque atto finale, ben riconoscibile. Siamo in pieno surrealismo, nella seconda ondata surrealista del Novecento — che fu essenzialmente di matrice latino-americana. Ma in Copi tutto quello che nel 1971, quando Jorge Lavelli mise in scena la commedia, poteva sembrare un mero effetto del ’68, uno sberleffo tra i tanti, oggi ha una sua dolorosa, sbilenca trasparenza: vi serpeggia una disperazione di continuo irrisa — e in Copi così sarà fino all’ultimo, fino al suo testamento-capolavoro, Una visita inopportuna, in cui rappresentò se stesso colpito dall’Aids, la malattia che lo uccise a quarantotto anni.
Con la scansione di «Melocoton» cantata da Colette Magny, Andrea Adriatico centra in pieno la caratura ilaro-tragica del testo, piazzando le sue attrici in costume da bagno, su un’ipotetica spiaggia. Rispetto a ciò che dicono, i loro gesti risultano vistosi, roboanti, infine comici. Con quei loro deliranti nomi, scesi dall’empireo letterario-cinematografico, i pazzi attestano di vivere in un pazzo mondo — nel quale davvero non più importa quale sia l’inizio e quale la fine.
Olga Durano è la figlia di Giustino, che fu protagonista di Una visita inopportuna, e ha la stessa voce cavernosa del padre. Anna Amadori la fronteggia da pari a pari. Eva Robin’s è la meravigliosa attrice che imparammo a conoscere in Frigo degli stessi Copi e Adriatico.
Di tutte le commedie di Copi, L’omosessuale o la difficoltà di esprimersi è forse quella che più è dotata di una struttura in qualche modo “teatrale”, anche per il fatto che utilizza dei cliché di un certo teatro del passato, essendo costruita come la parodia di un drammone russo ottocentesco. È inoltre la pièce dell’autore franco-argentino che meglio si presta a una vasta gamma di umori e sfumature nell’approccio alla vicenda: Tonino Conte, ad esempio, affrontandola anni fa al Teatro della Tosse di Genova vi aveva colto una nota gelidamente malinconica, Annalisa Bianco e Virginio Liberti ne avevano fatto una sorta di stralunato musical.
Andrea Adriatico, nell’aguzza messinscena realizzata per i Teatri di Vita, ne esaspera invece – e insieme ne raggela – le componenti più lividamente grottesche, a partire dalla scelta delle interpreti principali: la giovane Irina, emblema di seduzione, oggetto del desiderio di maschi e femmine, è un’attrice di mezza età, la brava Anna Amadori, che palesemente non ha il physique du rôle di una perversa Lolita. La signora Simpson, la sua presunta madre, affidata a Olga Durano, è una specie di irsuta erinni dal vocione baritonale. Eva Robin’s, l’affascinante signora Garbo, affascinante lo è davvero, ma il membro virile che al suo personaggio sarebbe stato trapiantato in sala operatoria lei viceversa ce l’ha sul serio, per natura, e non fa molto per nasconderne l’evidenza.
Va detto, per giunta, che la scombinata trama è ambientata, stando alle indicazioni dell’autore, nel freddo paesaggio siberiano, fra corse in slitta e attacchi di lupi famelici. E questi personaggi, in effetti, non fanno che parlare di steppe e di cosacchi e di temperature a quaranta gradi sotto zero: ma lo fanno presentandosi incongruamente in costume da bagno, con cappelli di paglia e occhiali da sole e tutto quanto occorre per una giornata sulla spiaggia. E poco importa che questa spiaggia – suggerita da un telo bianco quadrato che madre e figlia stendono scrupolosamente al momento dell’inizio – sia circondata da sacchi delle immondizie, mucchi di cartacce, bottigliette di plastica vuote.
L’intreccio, scandito da quei folgoranti scambi di battute perfidamente surreali che formano anche l’autentica ossatura delle vignette di Copi, e a cui le tre impeccabili interpreti conferiscono una specie di allucinata inesorabilità, mescola scenari esotici e situazioni romanzesche – la Transiberiana, il sogno di un’avventurosa fuga in Cina – a ogni sorta di sconcezze e di sfrenate oscenità, topi infilati negli orifizi, aborti, ossessioni fecali. Tutte e tre le protagoniste hanno sesso incerto, tutte si dichiarano variamente passate dai chirurghi di Casablanca. E il passatempo preferito di Irina è mettersi nuda nei cessi della stazione per farsi sbattere dai cosacchi.
Adriatico, nel trattare questa materia incontenibilmente debordante, eccessiva, “scandalosa”, non usa mezze misure: non la attenua, non la smussa ma la rende, al contrario, ancora più tagliente. Anziché alleggerirla, ne accentua i tratti sgradevoli trasformando quelle ambigue figurette in maschere sguaiate, strappandole brutalmente al loro contesto, esasperandone certe componenti trucemente patologiche. Il finale si volge in tragedia, con tutti i personaggi che crollano al suolo quando muore Irina, e le tre donne avvolte nel telo che copriva il pavimento come rifiuti da buttare: ma è una tragedia svuotata di pathos, ottusa e volutamente inappagante, sintesi di quella vena derisoria ma sostanzialmente disperata che è propria dell’autore.
[ELENCO DEL MIGLIOR TEATRO LGBT DELL’ANNO. Lo spettacolo L’omosessuale o la difficoltà di esprimersi è al quarto posto.]
Dopo aver portato in scena tanti testi di Copi si può dire Eva Robin’s “è” il suo emblema nel teatro italiano. Nella galleria non poteva mancare l’interpretazione di Madame Garbo (ruolo che fu dello stesso Copi). Irresistibile si ispira alla Joan Crawford degli anni ’40 giocando col kitsch dell’abbigliamento balneare e col camp delle situazioni inanellate tra lupi famelici della steppa e treni transiberiani che non partono mai. Diretta ancora una volta da Andrea Adriatico è in lizza con una erinni come Olga Durano e una falsa mite Anna Amadori. Strampalata e graffiante guerra di regine.
davanti al divismo della signora Garbo (Eva Robin’s). Il ritmo serrato ricorda il teatro di Feydeau e l’interazione dei personaggi tocca vette di comicità camp matematica, a volte brutale. Irina è chiusa in un involucro fragile, schiava di una sessualità morbosa e compulsiva: “si fa sbattere” dai cosacchi nei bagni della stazione, lecca una caramella per lungo tempo, rimane incinta, abortisce e utilizza i suoi orifizi con improbabili esiti. Assume connotazioni socialmente patologiche: evita lo sguardo di tutti, il suo corpo è sempre disteso o accovacciato, viene trascinato per la scena e sballottato, sottomesso a una tempesta di domande su una sedia minuscola che ricorda moltissimo le celebri vignette de La femme assise di Copì. La Cina nella quale la signora Garbo vorrebbe ritornare portandosi via Irina, diviene quasi il sogno irraggiungibile della Mosca
čechoviana. È tutto un paradosso, una comica brutalità, un gioco crudele sulla scelta – o la costrizione – di cambiare sesso. La signora Garbo ha un uomo influente al suo servizio, è istruita, elegante, ha una storia familiare travagliata ed è figlicida. Il suo è un amore feroce, sfocia in una sequela di domande claustrofobiche a cui Irina risponde come fosse in un interrogatorio nel quale giustificare la propria identità. Irina subisce una continua mutilazione, e porta il senso di ineluttabilità della propria condizione: prima si rompe il dito, poi una gamba, e decide di tagliarsi la lingua. “Smettila di sanguinare!”. Non viene ascoltata, non viene aiutata. Irina cade e con lei dei finocchi dall’albero: gli stessi con cui si coprivano i corpi degli omosessuali sui roghi nel passato e oggi si vituperano sui bus, per strada, in televisione. La regia di Andrea Adriatico inserisce un personaggio in più: un uomo osserva da lontano, occhio voyeuristico che alla fine copre la miseria di queste vittime, sul richiamo pasoliniano cantato da Modugno in Che cosa sono le nuvole. La pièce di Copì ci insegna che esiste l’esilio, è una condizione che non trova una via d’uscita neanche nella comunicazione. Come Alfredo Ormando, gay suicida per protesta in piazza San Pietro, a cui è dedicato questo lavoro, i tre personaggi decidono volontariamente di rinunciare a sé stessi. In questo spettacolo qualsiasi emozione è forte, irrefrenabile, irrinunciabile.
La provocazione del testo riguarda anche le attrici: Anna Amador, Olga Durano Eva Robin’s , che riescono a servire il testo con naturalezza, inventiva e arte, obiettivo per nulla facile e lo stesso va detto per una regia che risolve con essenzialità minimalista la provocazione del testo. Il merito è di Andrea Adriatico.. Curioso che queste tre donne transgender recitino il dramma dell’identità sessuale sul Lago che ha accolto la leggenda di una donna che camminava sulle acque forse su un mantello o forse a diretto contatto con l’acqua. A distanza di un’ora sul lago di Chiusi si celebrava Santa Mustiola attraverso la performance di Silvia Frasson .
Questa commistione tra mito leggenda religione, follia, sacro presunto, profano attuale è merito del coraggio di Andrea Cigni, direttore artistico di Orizzonti, che ha pro – vocato in maniera estrema ciascuno di noi con le nostre convinzioni, i nostri taboo, le nostre certezze, le nostre mediocri recite “out of theater” , le nostre eterne campagne elettorali e continue fughe dalla responsabilità. Da oggi il lago non è più solo il luogo simbolico del miracolo al confine tra fiaba, leggenda e mito che si sostiene con l’autorità della religione, è il luogo dell’identità ambigua, del disagio psicologico, del mal di vivere, del rifiuto a comprendere l’altro e il diverso. Lo spettacolo si chiude insacchettando quei “ rifiuti” umani protagonisti della loro fuga mancata, scorie da nascondere, pezzi di noi stessi da negare. Saremo capaci noi di riaprire quel sacchetto e di accogliere nei diritti quella parte di noi che ancora ci fa paura? ce lo avremo questo coraggio? la risposta non possiamo chiederla al teatro ma a noi stessi. Fuori dalla platea i protagonisti siamo noi.
Il Regime, il bigottismo omofobo, non riescono a identificare (perché vogliono annullare la diversità alla loro norma) questi tre soggetti del desiderio, ma si compiacciono a osservarli da lontano e dall’alto degli occhiali scuri di un uomo in nero, si gustano ‘la difficoltà di esprimersi’ in cui li hanno relegati, ridotti a non andare a tempo con il tempo: fuori ci sono 40 gradi sotto zero e loro sono in costume da bagno.
Finché, per sfinimento, istigazione o resa, tutti i personaggi di questa corte transgender delle mete irraggiungibili non cade a terra, come i finocchi appesi a un filo tra gli alberi, nell’ultima e sorprendente unghiata di dolorosa autoironia di Andrea Adriatico. ‘Finocchi’ a indicare storicamente ‘le persone spregevoli’, che non valgono nulla né meritano alcuna stima. Anna Amadori, Olga Durano ed Eva Robin’s hanno portato Irina, la signora Simpson e la signora Garbo alla morte, ma prima hanno donato loro la vita che volevano e un’intermittenza di ribellione. Con grazia profonda e scostumata.
Il silenzio, la perversione, l’autodistruzione si fanno allora le uniche armi di sopravvivenza: la retorica della dialettica ha fallito, nel nostro mondo ormai domina l’arroganza della ragione, cioè di chi vuole averla.
Adriatico prende il testo di Copi e decide di esasperarne ulteriormente il meccanismo del paradosso: questo gulag mai esplicitato si sposta sulla riva del lago con tanto di teli da mare e costumi da bagno, mossette e pantomime ottocentesche, per una temperatura di quaranta sotto zero che è evocata e non si vede e che proprio per questo, nell’esilarante surrealtà dell’intera vicenda, gela ancora più il sangue. Le interpretazione di Eva Robin’s ma in particolare di Olga Durano e Anna Amadori ne fanno semplicemente, a nostro avviso, lo spettacolo più brillante dell’estate.
Tra siparietti deliranti e drammi da avanspettacolo, Copi riesce a condensare in poche battute inevitabilmente coprolaliche tutta l’incertezza e l’instabilità dell’essere “umani”. La questione principale è, ovviamente, l’identità, quella di genere, ma anche quella sociale. La signora Garbo, transgender suo malgrado, perde la testa per Irina, ormai donna dopo l’operazione, lasciandola incinta. Al di là delle improbabili derive fantascientifiche, invero trascurabili e anzi deliziosamente parodiche, è l’onestà con cui questi personaggi affrontano il tema del genere, del sesso e di tutto quello che vi gravita attorno a lasciare il segno.
«Devo andare al gabinetto per cagare il bambino», dice Irina, ed è solo uno degli esempi di come anche la lingua, in quest’opera dai toni e dai colori lisergici, si faccia foriera d’identità, delimitando confini nuovi e sgretolandone di antichi, per quanto fatti carne. Si lavora quindi sull’apparenza per negare l’essenza, o per ribadirla con ferocia, in un gioco costante di dentro/fuori, strenuamente tesi sul filo del liminale. La mesta Anna Amadori (Irina), l’iperprotettiva Olga Durano (Madre) e l’esuberante Eva Robin’s (signora Garbo) lottano per conquistare l’affetto l’una dell’altra, ma la «difficoltà di esprimersi» è talmente grande da rendere vana qualsiasi azione.
Un fuoco d’artificio di situazioni rocambolesche dalle tinte poetiche esplodono sulla scena con gusto e misura, rivelando una regia fresca che non ha paura di osare e di usare lo spazio. Tutto il resto, è finocchio.