Le cognate
di Michel Tremblay
uno spettacolo pop di Andrea Adriatico
traduzione di Jean-René Lemoine e Francesca Moccagatta
con la cura drammaturgica di Stefano Casi
con le sorelle Francesca Ballico, Francesca Mazza, Angela Malfitano, Tita Ruggeri
le loro amiche Anna Amadori, Angela Baraldi, Rossella Dassu, Olga Durano, Maria Grazia Ghetti, Ida Strizzi
la cognata Lea Cirianni e sua suocera Ilde Passera (= Gianluca Enria, Giulio Maria Corbelli, Marco Matarazzo, Eva Robin’s),
la figlia/nipote Sara Kaufman
e le sue amiche Eva Geatti e Valentina Grasso
con l’aiuto di Daniela Cotti
scene e costumi di Andrea Cinelli con Maurizio Bovi, Arian Matuka, Isabella Sensini e Ideeintesta
immagini di Raffaella Cavalieri
tecnica Matteo Nanni
suono Alessandro Saviozzi
comunicazione Giampiero Leoni
produzione esecutiva di Monica Nicoli con Mariaconcetta Mercuri, Valeriano Pesante
una produzione teatri di vita
realizzata per bè bolognaestate08
con Comune di Bologna-Settore Cultura; Regione Emilia Romagna-Servizio Cultura; Ministero per i Beni e le Attività Culturali; Fondazione Carisbo; Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna
a barbara nativi
Debutto: Bologna, Teatri di Vita, 3 luglio 2008.
Quindici donne ammaliate dall’implacabile simbolo del consumismo: la raccolta dei punti-premio! Lo strumento subdolo e insinuante del marketing che, solleticando la vocazione del diligente collezionista con il gusto infantile del gioco, vuole convincerci che tutto è facile e tutto è regalato (sono 80 milioni le carte fedeltà oggi in Italia). Ma cosa succederebbe se una donna avesse un milione di punti da attaccare sugli album e chiamasse parenti e vicine ad aiutarla nella titanica impresa?
La commedia Le cognate di Michel Tremblay è l’esilarante meccanismo di un affollato incollaggio punti con contorno di invidie e facezie. Le casalinghe disperate di Tremblay spettegolano e si accapigliano, appiccicano bollini e sognano lavatrici, in un crescendo di situazioni comiche che coprono baratri di solitudine e dolore. Il testo, scritto nel 1965, negli anni del massimo impulso del consumismo, è considerato il capolavoro della drammaturgia canadese, per lo straordinario equilibrio di comicità e tragedia, di linguaggio popolare e struttura moderna. Con le sue irresistibili trovate Tremblay sa descrivere con sensibilità il vuoto esistenziale di vite di donne, piegate dal perbenismo e dal malumore, tutte casa chiesa e centro commerciale.
Per ridare vita a questo testo corale Andrea Adriatico ha scelto una schiera di attrici made in Bologna, per un concerto teatrale marcato da una ricca polifonia delle voci: uno spettacolo che il regista definisce pop, per dare la misura di un’epoca che ha fatto aderire per la prima volta – e da allora per sempre – l’aggettivo “popolare” alle leggi del mercato oltre che alla figuratività di Andy Warhol & co.
Siete pronti a entrare nel tinello pop della casalinga da un milione di punti? a condividere con lei il brivido pop degli album e dei premi? a spiare la sua fragile esistenza pop ben dissimulata tra Coca Cola e frigoriferi ultimo grido?
Visioni critiche
E la miscela puntualmente esplode in Le cognate, commedia che il canadese Michel Tremblay scrisse nel ’68, portata ora in scena da Andrea Adriatico per Teatri di Vita con una vivace compagnia impegnata a far vivere i personaggi tra cattiverie, snobberie da cortile, impeti razzisti, pregiudizi, perbenismi troppo fragili per resistere ai colpi della gelosia, dell’invidia e dell’infelicità in un quotidiano che frustra e opprime. La scena geometrica di Andrea Cinelli, composta da un grande numero di scatole grigie di cartone, macchiate qua e là di colori accesi, è la cucina in cui si ritrovano le donne. Donne inscatolate in sogni infranti che desiderano vincere qualcosa alla tombola della vita, fosse anche un oggetto inutile.
Con vistose acconciature anni ’60 e abiti di patetica volgarità, le protagoniste di questa lotteria di perdenti riescono a mostrare il peggio del loro animo, tra liti, unisoni da coro greco, canzonette e piccole confessioni-spettacolo. La regia di Adriatico privilegia i toni di un grottesco acceso e caratterizza con decisione alcuni personaggi rendendoli macchietta, ma non cancella la sensazione di cattività, di disfatta, di infelicità che permea la commedia, riflesso di una società illividita, ipocritamente conformista capace di distruggere ogni sogno, anche il più innocente.
Le cognate oggi rappresenta una specie di reperto archeologico: possiede andamento e atmosfera di un’epoca e di una provincia che si presentava al mondo con una sua specifica grettezza piccoloborghese, una sua quotidianità claustrofobica e muliebre: quindici donne impegnate a incollare punti su delle cartelle-premio, quindici pettegole che aprono le cateratte delle lagnanze e delle cattiverie. Il gioco è squadernare la ferocia femminile, mettere in scena una guerra di tutte contro tutte, una specie di mattanza verbale attraverso la quale offrire una critica di costume: ai comportamenti neoconsumistici anni Sessanta, alle frustrazioni e alle invidie che ne conseguono, alla riduzione in schiavitù mediante la stimolazione dei desideri materiali. Solo che non tutte le province sono uguali e anche se il regista s’impegna a “tradurre” la situazione dall’ambito del Québec a quello emiliano, grazie a un bel gruppo di attrici di scuola bolognese, resta pur sempre uno scarto, una inverosimiglianza. Sicuramente gli stessi demoni abitano la pettegola nostrana e la sua consorella d’oltre Atlantico, eppure dissimile pare la forma esteriore che le agitazioni dell’animo prendono. Sicché solo apparentemente la commedia di Tremblay s’eleva a paradigma di comportamenti globalmente validi di un certo status sociale, quello della piccola gente.
Resta piuttosto limitato a un’epoca e a un luogo geografico. Anche perché la traduzione italiana perde inevitabilmente la specificità linguistica de Les belles-soeurs, ossia il cosiddetto “joual”, dialetto del francese “québecois”. Su questo idioma popolare di Montréal si dispiega gran parte della vena grottesca e caricaturale di Tremblay, qui ovviamente impossibile da restituire per quanto Adriatico cerchi, e addirittura in parte riesca, a darne un’idea attraverso uno stile pop della sua messinscena. Tale limite è della commedia, non della regia, e ne determina crudelmente l’efficacia per l’interlocutore a cui si rivolge, mancando il testo di assurgere a una dimensione universale.
I provinciali sono tutti uguali, non le province.
Andrea Adriatico confina le interpreti in un contenitore fatto di scatole che ricordano il muro che i Pink Floyd fecero saltare nel concerto di Berlino. Qui però i mattoni vengono solo spostati per fornire, nel secondo atto, una visione opposta, un punto di vista rovesciato che permette al pubblico di penetrare ancor di più la miseria dei personaggi.
Con un ritmo blando e molti riferimenti alla provincia canadese che si interroga sull’Europa, critica i film francesi e manifesta la sua lateralità culturale, il testo, di sicuro impatto tragicomico, perde gran parte della sua appetibilità trasformandosi in un pretesto per mostrare le storture piccolo borghesi di un gruppo di sciamannate bigotte, impossibilitate a nascondere punti deboli e deprecabili pulsioni. I dialoghi sono intervallati da noiosi monologhi, a volte anche drammatici, che dovrebbero bilanciare l’effervescenza delle scene corali ed invece finiscono per appesantire ed allungare ulteriormente il brodo, aggiungendo stereotipi triti ed esternazioni che vorrebbero far riflettere sull’ipocrisia del mondo moderno.
Le attrici, tutte molto preparate, faticano a collegare i loro personaggi alla scena ed al testo e finiscono per confrontarsi tra loro senza reali motivazioni, soffrendo, tutte, della mancanza di una tensione che non cresce mai e di un’ilarità che stenta ad investire il pubblico. Il tentativo di scardinare l’ipocrisia degli anni sessanta aggredendola con la follia dei giorni nostri fallisce poiché le derive dell’uomo consumatore, la teledipendenza, la libertà sessuale, l’ansia d’acquisto e la lobotomia di massa sono state ampiamente raccontate, ed il testo, senza veri modelli da distruggere e tabù da far crollare, finisce per svuotarsi. I personaggi, belli e colorati, inseriti in una divertente scenografia, stentano a raggiungere una platea che li osserva come piraņa in un acquario e dopo aver seguito qualche evoluzione e goduto di qualche morso, è pronto a passare ad un’altra vasca alla ricerca di un po’ di mordente.
La commedia di Michel Tremblay mette in scena la follia di 15 donne che trascorrono una serata a incollar punti mentre spettegolano nutrono invidie sognano e si accapigliano. Scritta nel 1965 Le cognate riflette l’ambiente bigotto e piccolo borghese di un Canada che stava per conoscere il boom economico, un mondo nuovo in cui “lo strumento subdolo e insinuante del marketing che, solleticando la vocazione del diligente collezionista con il gusto infantile del gioco, vuole convincerci che tutto è facile e tutto è regalato (sono 80 milioni le carte fedeltà oggi in Italia)”. Oggi la commedia viene riproposta da Andrea Adriatico, un regista impegnato che stavolta si cimenta e riesce a costruire una drammaturgia che da lui stesso è definita pop, nel senso più estremo che l’aggettivo popolare vuol significare. L’ambiente evocato non è propriamente la realtà quebecchiana descritta nella commedia originale, ma la vita della provincia bolognese, e le donne sul palco – non a caso tutte attrici della scuola bolognese – interpretano il ruolo di signore e signorine di un’italietta in via di sviluppo che cercano di far fortuna e di fare il salto di qualità con il matrimonio e la furbizia. Ma quelle messe in scena sono donne che hanno anche molto non detto: ed ecco allora che giocando tra il serio ed il faceto attraverso l’alternanza di dialoghi, monologhi e improbabili cori, si scopre una voglia repressa di cambiare, di tornare indietro per far scelte diverse e la voglia di riscatto e di affermazione.
Una commedia leggera ma con spunti, che pur sembrando un po’ datati, fanno riflettere sulla condizione femminile di qualche tempo… e riporta poi immediatamente al presente! a volte sembra che il ’68 il movimento femminista e alcune battaglie sulla libertà di scelta (borto, matrimonio, divorzio, studio etc etc) siano passate. Dimenticate.
Lo spettacolo è stato presentato in anteprima domenica 7 settembre 2008 all’interno della terza edizione della manifestazione romana Short Theatre – Ai confini della realtà. Un appuntamento dedicato alla ricerca sulla drammaturgia contemporanea che si svolge nel suggestivo spazio del teatro India che per l’occasione diventa luogo di confine, di relazione e osservatorio privilegiato non solo sulla realtà teatrale attuale ma proprio sulla realtà stessa.
Stiamo parlando naturalmente della commedia Le cognate di Michel Tremblay, che aveva già trent’anni quando la compianta Barbara Nativi la fece conoscere all’Intercity Festival di Sesto Fiorentino. Ricordando quel precedente, l’odierna riedizione diretta da Andrea Adriatico per Teatri di Vita, nata a Bologna Estate 2008 e attualmente ospite al Festival Short Theatre all’India di Roma, ha il difetto di trattare il testo come un classico, invitandoci ad assaporarne ogni sfumatura, mentre forse era invece il caso di snellire e alleggerire (altro che short, il tutto dura due ore più intervallo). Intendiamoci, la compagnia, quindici attrici tutte dell’area bolognese, è vivace e spiritosa, e la confezione, piacevole: scena geometrica fatta di grandi scatole grige, poi movimentata con altre di altre tinte che fungono da sedili o da gigantesche caselle per una tombola; coloriti costumi e vistose parrucche anni Sessanta di Andrea Cinelli con Maurizio Bovi e Isabella Sensini; luci forti e chiare di Tiziano Ruggia.
Ma, snocciolata nella sua integrità o quasi, la pièce risulta ripetitiva e le gag con cui si cerca di movimentarla, usurate. Ammesso che sia ancora possibile far ridere con una sorda, una balbuziente, una grassona, ci vorrebbe il massimo di leggerezza e di velocità, mentre qui si punta, al contrario, sull’eccesso, strilli assordanti, abbigliamenti assurdi, cafoneria spinta fino all’inverosimile. E’ vero, siamo nel grottesco: ma un simile accanimento contro comari della provincia canadese in un’epoca in cui lo stesso Canada era provinciale rispetto agli Usa non riesce a coinvolgerci. I miei ricordi saranno appannati, ma non mi sembra che la Nativi sottolineasse tanto la nazionalità e i costumi tribali delle sue donnette, né che la durata fosse altrettanto wagneriana. In più, oggi la teledipendenza e il consumismo sfrenato (anzi, ci dicono addirittura che il problema è opposto: non consumiamo abbastanza!) sembrano argomenti su cui la satira non ha più molto da aggiungere. Insomma, pur rinnovando l’apprezzamento per l’impegno delle quindici, alcune delle quali creano macchiette molto valide (di personaggi non è il caso di parlare), il recupero non mi è sembrato del tutto convincente.
La prospettiva di un cambiamento, per una soltanto delle quindici donne sulla scena, è la causa scatenante di un dramma ironico e graffiante. La storia diviene soltanto un pretesto per creare una particolare ambientazione, altalenante tra episodi corali e momenti di toccante intimità. Ogni personaggio trova il proprio spazio d’espressione, sottolinea e difende la propria caratterizzazione, in un curioso e costante esperimento di ricerca di somiglianze e differenze.
Un’acconciatura, un abito, un’espressione vocale, rimandano immediatamente a un particolare gruppo di appartenenza. Le sorelle, le vicine di casa, le amiche della figlia, le conoscenti. Tutto sembra chiaro e stabilito, inquadrato, in una scientifica declinazione della femminilità nel pieno del rilancio economico. Ma le interazioni tra i personaggi, le parole non dette, i pensieri a bassa voce, ribaltano la situazione. Non c’è emozione, non c’è passione a vivere nel posto assegnato dalla società.
Un canto di liberazione ansioso e improvviso rilancia il ritmo della vicenda, esaspera il rito della tombola come strumento di riscatto sociale, amplifica la frustrazione di chi vive un esistenza di fatica e rinunce. Con la regia di Adriatico tutto è squisitamente reale, non c’è alcuna preoccupazione nel voltare le spalle al pubblico che soddisfa il proprio bisogno voyeuristico sbirciando le vite di chi si affanna sulla scena. Lo spazio teatrale è annullato da scatole ammassate che incorniciano ogni cosa, e che quasi cedono alla tentazione di chiudere quella quarta parete che le separa dalla platea.
A tratti sembra di fissare un vecchio schermo televisivo dai colori improbabili, o una vetrina di un negozio vintage, quando la luce cala e tutti i personaggi restano immobili come manichini di cera.
Una prova che convince e nasconde, sotto le parrucche e la maschera da pop art, l’umanità varia e dolente dei nostri giorni.
All’interno di questo affresco, tra patetico e un po’ mostruoso, si delineano alcune fisionomie individuali inquadrate con maggior spicco, come quella di Pierrette, la sorella trasgressiva che ha “fatto la vita” in un night, o di Angéline, la beghina che a 65 anni ha scoperto una parvenza di felicità attraverso frequentazioni equivoche.
Ma il taglio complessivo della vicenda, giocata su toni lividi, graffianti, resta corale, con alcune situazioni in cui gruppi di donne pronunciano davero all’unisono – come in un’antica tragedia – le proprie battute.
Il regista Andrea Adriatico, nell’affrontare il testo a Teatri di Vita di Bologna, ha scelto di calarlo nel clima ambiguamente patinato di un quadro della pop art, fra richiami ai colori accesi delle immagini pubblicitarie, parrucche bionde alla Marilyn, incongrue minigonne. L’impressione della citazione pittorica è accentuata dalla scena di Andrea Cinelli, che racchiude l’azione in una sorta di cornice: nella seconda parte, quella degli svelamenti dei disagi e dei misfatti, la cornice sparisce e l’ambiente e i personaggi del quadro, con un bell’effetto, vengono colti come da dietro. In questo modo, il regista centra senza dubbio lo scopo di ribaltare l’interpretazione della Nativi, che esasperava l’impatto grottesco di bigodini e rossetti sbavati, trasformando le protagoniste in maschere sinistre: qui il taglio algido, levigato, alla Andy Warhol si collega ai miti della civiltà del supermarket, ma rende i personaggi fin troppo sexy, perdendo il contrasto fra un aspetto da pie frequentatrici di parrocchie e un’assoluta mancanza di scrupoli.
Non si attenua, comunque, la perfidia del testo, ed è pungente l’apporto delle 14 attrici bolognesi coinvolte.
All’interno di questo affresco, tra patetico e un po’ mostruoso, si delineano alcune fisionomie individuali inquadrate con maggior spicco, come quella di Pierrette, la sorella trasgressiva che ha “fatto la vita” in un night, o di Angéline, la beghina che a 65 anni ha scoperto una parvenza di felicità attraverso frequentazioni equivoche.
Ma il taglio complessivo della vicenda, giocata su toni lividi, graffianti, resta corale, con alcune situazioni in cui gruppi di donne pronunciano davero all’unisono – come in un’antica tragedia – le proprie battute.
Il regista Andrea Adriatico, nell’affrontare il testo a Teatri di Vita di Bologna, ha scelto di calarlo nel clima ambiguamente patinato di un quadro della pop art, fra richiami ai colori accesi delle immagini pubblicitarie, parrucche bionde alla Marilyn, incongrue minigonne. L’impressione della citazione pittorica è accentuata dalla scena di Andrea Cinelli, che racchiude l’azione in una sorta di cornice: nella seconda parte, quella degli svelamenti dei disagi e dei misfatti, la cornice sparisce e l’ambiente e i personaggi del quadro, con un bell’effetto, vengono colti come da dietro. In questo modo, il regista centra senza dubbio lo scopo di ribaltare l’interpretazione della Nativi, che esasperava l’impatto grottesco di bigodini e rossetti sbavati, trasformando le protagoniste in maschere sinistre: qui il taglio algido, levigato, alla Andy Warhol si collega ai miti della civiltà del supermarket, ma rende i personaggi fin troppo sexy, perdendo il contrasto fra un aspetto da pie frequentatrici di parrocchie e un’assoluta mancanza di scrupoli.
Non si attenua, comunque, la perfidia del testo, ed è pungente l’apporto delle 14 attrici bolognesi coinvolte.
(Renato Palazzi, “Il Sole 24 Ore”, 6 luglio 2008)
Sono vite “da pidocchi”, da dimenticare. Si attaccano a un moralismo bigotto perché hanno paura del mondo, per non sprofondare. E’ desolato il quadro umano nascosto sotto l’allegria consumista nelle Cognate di Michel Tremblay, del 1968, uno dei testi più significativi della drammaturgia canadese francofona.
Germaine ha vinto un milione di punti e invita sorelle e amiche a incollarli per sbattere loro in faccia la propria fortuna e farle schiattare d’invidia. E quelle stanno al gioco per derubarla, per vivere la loro, di illusione, per boccheggiare un po’ meno. Andrea Adriatico ne fa uno spettacolo colorato, pop. La caciara del chiacchiericcio si alterna a coretti intimidatori contro chi sgarra dalle regole (i figli, la sorella “perduta”); l’azione si blocca in deliziosi quadretti stupefatti al pensiero dell’oppio serale della tv, si scatena in una tombola dionisiaca, si ghiaccia in monologhi che squarciano le maschere. Al debutto c’era qualche lentezza, un finale che potrebbe essere ancora più frenetico, ma anche uno spettacolo solido, amaro, divertente. Che vive delle sue 15 interpreti, strepitose, da una Francesca Mazza Mae West di parrocchia a un’Angela Baraldi che infila le ferite della vita nella balbuzie, da una spiritosa padrona di casa Tita Ruggeri alla sorella smarrita nei night di Angela Malfitano, da una rancorosa Anna Amadori a tutte le altre, ognuna con una scintilla particolare.