Le amarezze
di Bernard-Marie Koltès
traduzione di Marco Calvani
uno spettacolo di Andrea Adriatico
con Olga Durano e Marco Cavicchioli
e Anas Arqawi, Michele Balducci, Innocenzo Capriuoli, Rita Castaldo (Sofia Longhini), Ludovico Cinalli, Nicolò Collivignarelli, Alessio Genchi, Giorgio Ronco, Myriam Sokoloff
scena Andrea Barberini, Giovanni Santecchia
aiuto scena Anna Chiara Capialbi
cura tecnica Lorenzo Fedi, Giovanni Iaria, Mirko Porta
produzione Teatri di Vita
con il contributo di Comune di Bologna, Regione Emilia Romagna, Ministero della Cultura
In accordo con Arcadia & Ricono Ltd per gentile concessione di François Koltès
L’opera “Le amarezze” è edita da Arcadiateatro Libri, “Bernard-Marie Koltès TEATRO – Volume 1”
Debutto: Teatri di Vita, 2 novembre 2023
prima rappresentazione in Italia
Un ragazzo al centro di un vortice di relazioni familiari e sociali, come in un sogno oscuro e indecifrabile, lacerato dai conflitti, dagli slanci dell’esistenza e dai presagi di morte: così il 22enne Bernard-Marie Koltès, nel 1970, ricostruiva per il teatro il romanzo autobiografico di Maksim Gor’kij “Infanzia”. Dovevano passare ancora sette anni prima che lo sconvolgente debutto di “La notte poco prima della foresta” ad Avignone off lo lanciasse come uno dei più importanti drammaturghi francesi, che ha lasciato il segno con opere come “Lotta tra negro e cani”, “Nella solitudine dei campi di cotone” e “Roberto Zucco”, prima di morire di Aids nel 1989, a soli 41 anni.
Andrea Adriatico è stato il primo regista a portare in scena in Italia le opere di Koltès, in una lunga e intensa frequentazione, da quel monologo avignonese (ribattezzato “L’ultima notte”, 1991) a due riduzioni da alcune prose (“Fuga”, 1992, e “Là dove ci si vede da lontano”, 1994), fino a “Il ritorno al deserto”, 2007 e per la prima volta in Italia “Quai ouest” al festival Vie del 2013. Adesso, ancora per la prima volta in Italia, Adriatico esplora il cantiere teatrale adolescenziale di Koltès con “Le amarezze”. Titolo ambiguo, spiegato così dall’autore: “Come l’acido sul metallo, come la luce in una camera oscura, le amarezze si sono abbattute su Alexis Peskov”, il protagonista muto dell’opera, che è il nome vero dello scrittore russo dalla cui autobiografia Koltès ha preso ispirazione, e che scelse come pseudonimo letterario “Gor’kij”, ovvero “L’amaro”.
Così concludeva la presentazione della sua opera e del suo Alexis il 22enne Koltès: “L’hanno aggredito con la violenza e la rapidità della grandine e del vento, senza che un tratto del suo volto abbia avuto un fremito. Stracciato, bruciato, in piedi finalmente, ha fermato gli elementi come si soffia su una candela. E la sua voce ha trafitto il silenzio”.
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Visioni critiche e social
Ma, d’altra parte, come eravamo stati avvertiti dal foglietto esplicativo consegnato insieme al biglietto d’ingresso, si trattava di ricercare la comprensione perfetta, ovvero quella che ignora l’esegesi e la giustificazione, per cui me ne sono andato tranquillo, sollevato dalla necessità di interpretare criticamente ciò cui avevo appena assistito.
Le amarezze, uno spettacolo di Andrea Adriatico, basato sul primo testo teatrale di Bernard-Marie Koltès, drammaturgo francese scomparso nel 1989, che a sua volta prende spunto dal romanzo autobiografico dell’autore russo Maksim Gor’kij, nonostante l’invito a non interpretarlo criticamente, movimenta nel cervello una serie infinita di domande, la maggior parte delle quali rimane senza risposta.
La più bella canzone di De Gregori, quella che gli ha permesso, per una volta, di superare il maestro Bob Dylan di cui ha praticamente copiato Three Angels migliorandola, Atlantide, svuotata dalle parole, ha contribuito a mantenere umana una situazione di scena orwelliana dove le attrici e gli attori, dotati di tute pseudo-militari e di microfoni altrettanto orwelliani, ci hanno ordinato di sederci e hanno dato vita ad un’opera inquietante quanto affascinante.
Gor’kij, che noi conosciamo soprattutto come l’archetipo dello scrittore del realismo socialista (e staliniano), in realtà si chiamava Aleksej Peskov e, da bambino, rimase prestissimo orfano di entrambi i genitori venendo affidato ai nonni, alla nonna soprattutto che è stata la sua stella polare.
Il nome di Aleksej è infatti quello che riecheggia durante lo spettacolo e sono sue le amarezze del titolo che, come dice Koltès, si sono abbattute su di lui come l’acido sul metallo o come la luce in una stanza buia.
E la sua voce ha inchiodato il silenzio costringendoci a riflettere profondamente su quanto avevano appena vissuto non convinti di esserci liberati dagli ingorghi dell’intelletto.
Grazie!
Immaginate un universo concentrazionario che contempli insieme, contemporaneamente e contestualmente un antimilitarismo sottopelle: letteralmente, è il caso di dirlo, dato che sotto il vestito niente, per i performers impegnati nell’estenuante gioco di ruoli e di salti spazio temporali che Andrea Adriatico agisce entro una millimetrica ricostruzione spaziale come sempre debitrice delle sue competenze scenografico- architettoniche ed avrete servita su un piatto molto caldo, una rivisitazione brillante di un testo desueto e semisconosciuto del drammaturgo puer aeternus Koltes.
Stiamo parlando delle Amarezze, uno spettacolo divertissement al nero di seppia, (come se Copi avesse invaso la santa madre Russia), che, senza modificare un rigo delle parole di Koltes, Adriatico ha tratto da un di lui lavoro giovanile e sperimentale, datato 1970: ovvero quando l’autore bello e ventiduenne, tanto per citare in tema, si esercitava a scomporre episodi biografici dallo sfortunato contesto familiare del grande e controverso scrittore russo Peskov, meglio conosciuto come Gorkij, ovvero, L’Amaro, per l’appunto.
Da qui, il gioco di rimandi e incastri forse non semplicissimo da cogliere, considerando anche la oggettiva ricchezza, complessità e paradossalità della biografia di Gorkij, ma che rende estremamente chiaro l’esprit du temps, quei favolosi anni là, impregnati di antiautoritarismo e antimilitarismo, come si diceva.
A buon intenditor, si potrebbe aggiungere, perché evidenti sono i nessi con quanto sta attualmente avvenendo….dissolta la santa madre Russia cosi come la Russia dei Soviet, forse era già chiaro quando Koltes si esercitava da cucciolo per poi fermarsi e fare un vero esordio con tutti i crismi un bel totale più tardi, come un nocciolo duro di violenza familiare quasi ancestrale, quasi tribale, persino dai contesti più vagheggiati utopicamente, ci avrebbe portato soltanto a catastrofi sempre più ravvicinate, in definitiva provocate da uno spirito colonizzatore che tutti ci pervade.
In scena, in questa sorta di campo da gioco cupo e coatto si fronteggiano due potenze patriarcali e matriarcali quali Marco Cavicchioli e Olga Durano, alternativamente capostipiti e vittime di una dinastia bastarda e miserevole che incarnano con misurata adesione carica, tuttavia, di pietas nei confronti di un destino da teatrino delle crudeltà. Intorno la compagnia, letteralmente militaresca, si attira, respinge, tormenta e seduce, secondo logiche coreutiche da musical dell’era dell’Acquario
Lo spettacolo che Andrea Adriatico ha ricavato dal primo, cupo e acerbo testo teatrale di Koltès, tratto dal bellissimo racconto di Maksim Gorkij Infanzia, va decisamente olttre la semplice messinscena di questo dramma di solitudini e disperazioni esacerbate, per la prima volta sui palcoscenici italiani, per diventare, nelle mani del regista bolognese, una sovraeccitata, compiaciuta affermazione della propria modalità registica. Ancora prima che la rappresentazione abbia inizio, gli spettatori sono costretti ad aspettare fuori dalla sala guardati a vista da astiosi guardiani e poi fatti entrare in un grande spazio rettangolare circondato da un’altra rete metallica che sembra delimitare un mondo orwelliano totalitario e distopico: una prigione, al cui interno troviamo gli attori completamente nudi che si rincorrono, si vestono e si rispogliano, indifferenti gli uni agli altri, come se agissero in multiple vicende parallele. Tutti eseguono i comandi di una voce misteriosa che tiene sotto controllo le loro vite: insomma, quasi un’altra storia. Ambientare l’opera prima di Koltès in un tempo futuro invece di cavarne quegli indizi drammaturgici che saranno materia viva e sostanza dei suoi lavori successivi non rende giustizia a un dramma d’apprendistato teatrale che offre molti stimoli e racchiude vari motivi di interesse. Diversamente da Koltès, che usa il discorso diretto nel dialogo fra i protagonisti, Adriatico predilige quello indiretto di un narratore esterno, al contempo, scompone e adatta i 16 quadri del dramma in una visione d’insieme malferma e insicura. Gli attori si immolano con dedizione, energia fisica e mentale nell’oscuro progetto registico, e sembrano muoversi e recitare con grande impegno ma senza la piena consapevolezza di quello che dicono o fanno. Alla fine, poco o nulla sembra quadrare in una proposta scenica ambiziosa ed enigmatica.
CAPOLAVORO
Lo dico subito: qui per me siamo dalle parti del capolavoro. Capolavoro: termine scivolosamente vago, consumatissimo. Soprattutto nel mondo delle arti della scena. Come straordinario e necessità. Come augurissimi e tanta roba: parole vuote.
Qui, capolavoro, lo uso in senso etimologico, perché Le amarezze di e a Teatri di Vita a Bologna (in scena ancora da mercoledì 17 a domenica 21 gennaio 2024) pertiene -prima, durante e dopo ciò che accade in scena- al fare, all’azione: all’«esplicazione di energia volta a un fine determinato», come dice il vocabolario Treccani a proposito di lavoro.
Capolavoro, poi, lo intendo in senso comune: c’è maestria, qui. E c’è straziante bellezza, per dirla con Pier Paolo Pasolini, autore molto caro anche a una delle anime fondative di Teatri di Vita, lo studioso Stefano Casi.
PRIMA
Prima di questo spettacolo, era il 1913, il russo Maksim Gor’kij scrive Infanzia, primo capitolo di una dolente trilogia autobiografica. Prima di questo spettacolo, era il 1970, debutta in una chiesa di Strasburgo la creazione che Bernard-Marie Koltès ha trasdotto dal racconto di Gor’kij.
Le amarezze, il titolo. In questa riscrittura, il muto protagonista è Aleksej Maksimovič Peškov. Che è poi il vero nome di Maksim Gor’kij. E questo pseudonimo letterario, Gor’kij, significa “l’amaro”.
Prima di questo spettacolo ci sono i molti attraversamenti scenici che negli anni Andrea Adriatico ha compiuto, delle inquietudini di Bernard-Marie Koltès. Questo, per dire che prima c’è tanto: un mare che certo non voglio né posso esaurire. Ma che va suggerito: non come enigma, né come rassicurazione d’esperienza. Come fondo mare in cui tuffarsi, piuttosto.
DURANTE
Forme della sopraffazione. O anche Esercizi di sopraffazione. Così si sarebbe potuto intitolare, questo mio articoletto. Su uno spettacolo, questo, che andrebbe mostrato in ogni scuola di teatro, azzardo, per la sua attitudine strutturalista, brechtianamente didattica.
Lo spazio scenico è perimetrato da una rete metallica. Dentro, un manipolo di persone di diverse età, prima nude e poi vestite con tute di stoffa pesante dall’aspetto militaresco, si soverchiano reciprocamente in molti modi, con linguistica ferocia.
Come non pensare, immediatamente, a due celebri allestimenti del testo La prigione di Kenneth H. Brown, ex marine diventato anarchico (The Brig del Living Theatredel ’63 e La prigione della Compagnia della Fortezza nel ’94)? A noi, seduti attorno, il compito grotowskiano di testimoni muti di un artaudianamente crudele inventario di soprusi.
Alcune figure (chiamate in causa e al fare mediante il proprio vero nome, anche così elidendo la distanza tra attorialità e performatività) sono seccamente etero-dirette da voci che, al di fuori del recinto, impongono loro una serie di azioni veementi, finanche aggressive. Microfoni usati come strumenti di potere. Reiterazioni e variazioni (una ridda da vertigine della lista, direbbe Umberto Eco) divengono qui linguaggio, struttura in evidenza che mostra l’accadimento nel suo farsi, che ostende i propri meccanismi: scene ripetute in direzioni diverse e/o a ruoli invertiti, enumerazione progressiva dei sedici quadri che compongono quest’opera, presentazione della struttura di una composizione musicale annunciata (una Sarabanda di J.S. Bach), indicazione di diversi modi di ballare, anche ripetendo la medesima partiture fisiche e vocali con luci e suoni diversi e così creando atmosfere affatto difformi, recitazione delle didascalie del testo.
Le persone in scena si offrono all’esercizio con materica esattezza: un altro grande russo, Vsevolod Ėmil’evič Mejerchol’d, avrebbe certo apprezzato. Sintesi incarnata di queste contrapposizioni, è il corpo-teatro di Olga Durano, presenza misteriosa, in grazia di officiante, che meriterà ben altro spazio di attenzione ma che ora desidero almeno nominare. E ringraziare.
La regia di Andrea Adriatico qui articola un montaggio, o meglio una composizione, di materiali di e da laboratorio, termine non da intendere nell’accezione banalmente sminuente in uso nei mondi delle arti della scena, piuttosto in quella analitica, finanche strutturalista, che affida al linguaggio e alla sintassi teatrali che incarna il proprio esatto consistere (e questo, in un panorama zeppo di creazioni che usano l’ibridazione dei linguaggi come scappatoia per la propria gracilità, non è cosa da poco) e che consegna alle persone riceventi ciò che accade con l’implacabilità di un fatto.
DOPO
Dopo quasi due ore di ammaliante immersione in questa esperienza estetica (dunque, etimologicamente, conoscitiva), d’improvviso si è costretti bruscamente ad uscire dalla grande sala: ci si ritrova nel freddo del Parco dei Pini attraversati da salutari domande sul linguaggio di cui siamo costituitə.
A distanza di qualche giorno da quell’incontro, ora che finalmente riesco a scrivere queste brevi note, risuona sottile ma distinto l’eco di aver sfiorato qualche cosa che non conosco ma che a tratti, come nella poesia, si rivela.
Si entra uno alla volta, al comando di una sorta di kapò che apre e chiude il portone consegnandoci, all’interno, a un altro secondino che dà l’ordine perentorio di sederci nel posto da lui assegnatoci. Nella penombra intravediamo impaurite delle persone nude costrette a indossare delle tute militaresche che le vengono lanciate. Si respira già un clima autoritario in odore di violenza. Ed è quella che, a diversi livelli, emergerà da subito in questo allestimento de Le amarezze di Bernard-Marie Koltès, ideato dal regista Andrea Adriatico, frequentatore assiduo, e primo in Italia, delle opere dello scrittore francese morto di Aids nel 1989 a soli 41 anni.
Nell’abituale clima di violenza sospesa che incombe sui suoi testi, il drammaturgo maudit dal dirompente talento, dalla vita spericolata e dalla scrittura fluviale e incandescente, crea già, con questo primo e quasi sconosciuto testo teatrale del 1970 tratto dal romanzo di Maksim Gor’kij Infanzia, un livido affresco sul tema dell’incomprensione, della contestazione, e dei conflitti relazionali.
Al centro un ragazzo, Alexis, dentro un vortice di relazioni familiari e sociali, come in un sogno oscuro e indecifrabile, lacerato dai conflitti, dagli slanci dell’esistenza e dai presagi di morte. Al Teatri di Vita di Bologna, ci troviamo improvvisamente dentro un hangar seduti in fila attorno a un grande spazio delimitato da un reticolato metallico, gabbia o prigione, a spiare un manipolo di uomini e donne agli ordini di tre carcerieri che dall’esterno del recinto, e con noi testimoni muti, impartiscono ordini, suggeriscono azioni.
La prima è quella di una coppia con l’uomo che, in una sorta di danza, trascina la donna prendendola per la gola. Azione che si ripete col ribaltamento dei ruoli. Altre, di prepotenze e soprusi, ne seguiranno, ripetute tra coppie e tra gruppi, individuando un becchino, un cadavere, un vecchio e una vecchia, un voyeur, la donna verde, il fidanzato, e i vari personaggi di nome Piotr, Igocha, Maksim, Tziganok, Varvara, scaturiti dal romanzo russo. In 16 quadri, annunciati uno alla volta dai performer a un microfono, si inscenano una serie di dinamiche coercitive di stampo famigliare con un intreccio di ruoli, di personaggi, di situazioni continuamente ribaltate, ricollocate nel rettangolo spaziale, rimodulate con salti temporali.
In Le amarezze, attingendo al primo capitolo della trilogia di Gor’kij Infanzia, il ventiduenne Koltès ricostruiva l’autobiografia dello scrittore dalla gioventù precaria e durissima, innestandola nella concezione personale dei conflitti famigliari e autoritari. Gor’kij nel suo romanzo tracciava a tinte fosche la traiettoria del declino della famiglia, i conflitti e i fallimenti, illuminata solo dalla figura della madre, vittima del dispotico potere del nonno e della bassezza morale dei fratelli. Unica vera luce nel tetro mondo del muto protagonista Alexis, la nonna, che fu per lui il un riferimento affettivo e spirituale.
Il respiro della tragedia e la forza di un testo di denuncia del sistema dei ruoli e delle relazioni come forma di violenza che caratterizzano il romanzo, aleggia fortemente nell’allestimento di Adriatico. L’andamento strutturale e di rimandi – che non segue uno sviluppo narrativo e men che meno c’è da ricercare una chiara trama -, fluisce scomposto e ricomposto tra ossessive ripetizioni e posture fisiche, corse e staticità, grida e mormorii, mentre i dialoghi e i monologhi si sovrappongono, le azioni si concatenano avendo come fulcro una grande culla, oggetto e luogo simbolo di quell’infanzia perduta.
Nello scorrere delle scene – corroborate a tratti dalla barocca Sarabanda di Bach, dalla canzone del rapper Coez, dalle atmosfere sonore di Charlie Ryan, e dalle note di Atlantide di Francesco De Gregori -, la rappresentazione di questo artaudiano “teatro delle crudeltà”, s’incunea prepotentemente nel nostro presente con la canzone War di Bob Marley che dà inizio alla sequenza finale. Nella semioscurità illuminata da fari impazziti, arriva un mulinare di droni che s’alzano, si impennano e si impigliano tra la rete; e gli umani, atterriti, spogliarsi e correre senza via d’uscita sovrastati dal rumore di elicotteri, di spari, di sirene. Bruscamente, a noi viene urlato di uscire fuori.
L’odore della guerra, dei conflitti e dell’oppressione in quella prigione a cielo aperto, ci accompagna anche fuori dall’hangar. Koltès nella presentazione della sua opera e del suo personaggio Alexis, così concludeva il testo: «L’hanno aggredito con la violenza e la rapidità della grandine e del vento, senza che un tratto del suo volto abbia avuto un fremito. Stracciato, bruciato, in piedi finalmente, ha fermato gli elementi come si soffia su una candela. E la sua voce ha trafitto il silenzio».
Compatto e corale l’ensemble attoriale prevalentemente giovanile: Anas Arqawi, Michele Balducci, Innocenzo Capriuoli, Rita Castaldo, Ludovico Cinalli, Nicolò Collivignarelli, Alessio Genchi, Giorgio Ronco, Myriam Sokoloff, con i due più maturi Olga Durano e Marco Cavicchioli.
Per la prima volta in Italia, giunge in scena un’opera giovanile di Koltès, composta ad appena ventidue anni. E, non a caso, fautore di questa “scoperta” è il regista Andrea Adriatico che, a partire dal 1991, si è attribuito il meritorio compito di far conoscere anche in Italia i testi del drammaturgo francese, concentrandosi anche su titoli meno conosciuti e su scritti non specificatamente teatrali. Ecco, dunque, l’approdo a questo dramma frammentario, sedici quadri autonomi ed eterogeni – per lunghezza e natura, ora dialoghi, ora soliloqui, ora sola azione fisica – pur nel ricorrere di alcuni personaggi – il vecchio e la vecchia, Varvara, Piotr, Michail… Il giovanissimo Koltès aspirava a tradurre nel linguaggio scenico Infanzia, il romanzo autobiografico di Maksim Gor’kij, autore che il drammaturgo tramuta in protagonista muto, Alexis – il vero nome del russo. E d’altronde, a spiegare quanto meno in superficie il titolo del dramma, Koltès era a conoscenza che lo pseudonimo Gor’kij significa “l’amaro”. Ma il drammaturgo francese, poco più che adolescente, sapeva bene che quella peculiarità auto-ricosciutasi dallo scrittore sovietico era frutto di un’esistenza trascorsa fin dalla più tenera età fra innumerevoli difficoltà, nella miseria e nella precarietà, economica e soprattutto affettiva: «L’hanno aggredito con la violenza e la rapidità della grandine e del vento, senza che un tratto del suo volto abbia avuto un fremito. Stracciato, bruciato, in piedi finalmente, ha fermato gli elementi come si soffia su una candela. E la sua voce ha trafitto il silenzio». Con queste parole Koltès terminava il programma di sala per la prima rappresentazione del suo dramma – avvenuta nel 1970 a Strasburgo, con la stessa regia e la sua presenza sul palco nei panni proprio di Alexis/Maksim.
Adriatico prende dunque in mano il copione, apparentemente acerbo e farraginoso ma in realtà palpitante di “amara”, acida verità, e ne pone in evidenza la bruciante universalità, sottoponendolo ad alcuni innesti testuali, del tutto coerenti e inerenti, a partire da una riflessione, contenuta anch’essa nel succitato programma di sala, in cui Koltès ribadisce la natura di serissimo “gioco” del medium teatrale. E, ancora, altri testi risalenti agli anni successivi, alla maturità del drammaturgo, e riguardanti, per esempio, Cassius Clay ovvero la capoeira: in entrambi i casi il tentativo – vano alfine – di addomesticare l’innata violenza degli uomini… E in violenza – fisica e verbale, psicologica ed “economica” – consistono proprio le “amarezze” sperimentate più o meno direttamente da Alexis che, nella rigorosa e allo stesso tempo viscerale regia di Adriatico, osserva quanto avviene in una sorta di recinto rettangolare, avvolto nella semi-oscurità. Lungo i suoi lati più lunghi siedono gli spettatori, fatti entrare con brusca impazienza a gruppi di quattro e obbligati a sedere dove viene loro indicato: non si tratta, nondimeno, di una velleitaria e forse un po’ anacronistica pratica da avanguardia bensì il coerente precipitato di un disegno registico che mira ad assecondare e rendere chiara la poetica di Koltès. Al pubblico è concesso di assistere all’”umiliazione” degli attori – all’inizio e alla fine nudi, sottoposti a pressioni psicologiche e inclini a meschine eppure umanissime rivalità, costretti a sforzi fisici e ferite che i cerotti, che a un tratto compaiono, non possono certo saturare – e, quindi, quasi inevitabilmente, deve scontare il privilegio che gli è concesso ricevendo un trattamento ruvido, fino alla finale intimazione a lasciare il più veloce possibile la sala… Non si può certo pretendere consolazione né catarsi – neppure quella “surrogata” rappresentata dagli applausi finali – ma conservare nella mente immagini e parole che dicono delle miserie che gli uomini, da sempre, amano infliggere e financo subire. Nei vari quadri, che si susseguono senza alcuna soluzione di continuità, quasi un incubo protratto ovvero il flusso di coscienza di una mente suo malgrado oscura, vediamo mogli distese sui cadaveri martoriati dei mariti ma anche donne sottomesse e atrocemente angariate, genitori e figli oramai ignoti gli uni agli altri, anziani abulici ovvero incattiviti… All’interno dell’ampio recinto, una raffinata culla di legno, apparente simbolo di un’auspicata palingenesi che, tuttavia, le “amarezze” portate in scena costantemente vanificano. Il “gioco” del teatro cui Koltès chiede agli spettatori di partecipare è un’esperienza tanto irrazionale – l’indicibile illogicità del male – quanto precisamente regolata; non un passatempo né un semplice “intrattenimento”, quanto, appunto, un mettersi “in gioco”, accettare – o meno – una – grande o minima – trasformazione… Un “gioco” di cui Adriatico e il suo consapevolmente disciplinato ensemble di attori sanno rinverdire con coinvolta intransigenza le regole, felicemente attivando il pensiero e il senso critico degli spettatori. E non è poco…
Due eccellenti esempi di teatro al di fuori dei circuiti commerciali: a Bologna Andrea Adriatico mette in scena Le amarezze, il primo testo scritto a 22 anni da Bernard-Marie Koltès, a Milano la compagnia Eco di Fondo con Pigmalione rilegge un capitolo inedito nella storia della Shoah.
E’ stato il primo regista a far conoscere in Italia il genio di Bernard-Marie Koltès (1948-1989), mettendo in scena nel 1991 La notte, ribattezzando così La notte poco prima della foresta che lo stesso autore aveva diretto al festival di Avignone nel 1977: Andrea Adriatico torna ora su Koltès affrontando il suo primo testo, Le amarezze, scritto a soli 22 anni. Alsaziano di Metz, era un inquieto viaggatore, attratto dai deserti dell’Africa, dalle regioni più remote dell’ex Unione Sovietica che percorse in auto, ma anche dalla fascinazione urbana di New York. Allievo alla scuola di regia del Théatre National de Strasbourg, negli anni settanta comincia ad acquisire una certa notorietà quando la radio trasmette L’Héritage e Des Voix Sourdes, ma il primo testo che oltrepassa i confini regionali è Sallinger, ispirato al Giovane Holden dell’omonimo scrittore americano (al cui cognome aggiunge una L), incentrato sul crollo di una famiglia che riverbera il crollo di un paese e di un sistema di vita. La notorietà e il successo arrivano con Scontro di negri contro cani che segna l’inizio del fortunato sodalizio con il regista Patrice Chéreau, il quale lo sceglie per inaugurare nel 1983 il suo Théatre des Amandiers a Nanterre dove nei successivi cinque anni andranno in scena anche Quai Ouest, Nella solitudine dei campi di cotone (l’allestimento più recente l’abbiamo visto la scorsa estate al CampaniaTeatroFestival, diretto dal russo Timofey Kulyabin con John Malkovich e Ingeborga Dapkunaite) e Il ritorno al deserto. Il suo ultimo testo lo scrive poco prima di prendere congedo dalla sua breve vita, tragicamente troncata dall’Aids: è Roberto Zucco e lo mette in scena nel 1990 Peter Stein alla Schaubuhne di Berlino. Oggi Koltès è considerato uno tra i più autorevoli drammaturghi del novecento, i cui testi sono stati tradotti e vengono rappresentati in tutto il mondo, come numerose sono state e continuano a essere le messe in scena sui nostri palcoscenici.
La sua scrittura anti-naturalistica è spesso non semplice da decrittare, colma di ambiguità, mistero (per certi versi ritroviamo echi di Genet) dove la parola ha la supremazia sull’azione, parola sovente cruda, feroce, spesso ambivalente (il dialogo tra dealer e cliente nella Solitudine dei campi di cotone), ricca di monologhi (La notte poco prima della foresta). I temi che affronta sono scomodi: il razzismo, l’emarginazione del diverso (Roberto Zucco), l’omosessualità, la violenza e l’immigrazione, tematiche che Andrea Adriatico ha attraversato nelle sue regie, a cominciare appunto dall’Ultima notte, poi nel Il ritorno al deserto e nel 2013, in prima nazionale, Quai Ouest, ma anche misurandosi con due riduzioni dalle prose, Fuga e Là dove ci si vede da lontano. A lui dobbiamo anche la scoperta di Le amarezze, rappresentato per la prima volta nel 1970 a Strasburgo nella chiesa di Saint Nicolas, diretto e anche interpretato dall’autore, pubblicato prima da Ubulibri in Bernard-Marie Koltès – Da Sallinger a Roberto Zucco, a cura di Franco Quadri, e ora da Arcadiateatro Libri in Bernard-Marie Koltès Teatro-Volume !°. La pièce prende spunto da un’opera minore di Maksim Gor’kij (1868-1936) dal titolo Infanzia, prima parte di una Trilogia, scritta nel 1913 durante il suo soggiorno a Capri. In realtà lo scrittore, considerato l’iniziatore del realismo socialista, si chiamava Alexej Maximovic Peskov: Gor’kij in russo significa “l’amaro” e Koltès chiama proprio Alexis il muto testimone “sempre presente, anche se non viene menzionato in nessun momento: guarda, si distrae, s’intromette, si oppone, incoraggia, senza che i fatti siano mai trasformati, senza che i personaggi lo riconoscano.” Il romanzo, da cui fu tratto anche un film diretto da Mark Semenovic Donskoj nel 1938, è autobiografico e narra la poverissima e brutale esistenza di Gor’kij bambino, a cinque anni orfano di padre e cresciuto con un nonno tiranno e una nonna affettuosa affabulatrice.
Questa brutalità si riscontra nella pièce la cui trama è obiettivamente difficile da raccontare, popolata com’è da personaggi e azioni che spesso non sembrano connesse tra loro, quasi che l’autore di proposito voglia mantenere nello spettatore l’incertezza e la confusione, lasciandolo in balia della pura emozione che quanto avviene in scena possa o debba suscitare in lui, facendogli vivere una vera e propria esperienza emotiva. Simile a quello della prima di Strasburgo, nel programma di sala compaiono due testi di Koltès e il secondo recita così: “Come l’acido sul metallo, come la luce in una camera oscura, le amarezze si sono abbattute su Alexis Peskov. L’hanno aggredito con la violenza e la rapidità della grandine e del vento, senza che un tratto del suo volto abbia avuto un fremito. Stracciato, bruciato, in piedi finalmente, ha fermato gli elementi come si soffia su una candela. E la sua voce ha trafitto il silenzio.” Chiaro riferimento al romanzo di cui ritroviamo la maggior parte dei personaggi, da Varvara, prima partoriente e poi prostituta, la Vecchia e il Vecchio, imbruttiti dalla miseria che li fa disputare anche sul numero delle foglie del tè, Maxim, il figlio prima rispettoso e sottomesso che poi vuole uccidere il padre, Piotr che descrive le sadiche sevizie a cui un marito sottopone la moglie. A questo canovaccio sostanzialmente rispettoso del testo, Adriatico assembla altre brevi prose del Koltès narratore.
Le sorprese per lo spettatore cominciano sin dall’inizio quando gli viene intimato bruscamente da giovani in divise paramilitari di accedere in gruppi di quattro alla sala dall’esterno, entrando a scaglioni sotto l’occhio severissimo degli stessi che ci indicano i posti. Ci ritroviamo seduti intorno una lunga e altissima gabbia rettangolare entro la quale si moveranno i performer, a loro volta obbedienti agli ordini dei guardiani/secondini che ai lati di questa sorta di prigione o campo di lavoro dirigono l’azione muniti di microfoni. L’incipit è la citazione del primo dei due brani riportati nel programma di sala, con Koltès che afferma: “Il teatro è un gioco. Se si vuole partecipare bisogna conoscerne le regole, accettarle, conformarcisi, salvo ritrovarsi inevitabilmente nella stupida posizione di un adulto buttato nella rete complicata di giochi infantili di cui ignora la trama e ai quali non potrà mai mescolarsi né capire niente.” Attori e attrici sono prima tutti nudi e poi, chiamati per nome, si rivestono con le medesime tute. Tramite ordini secchi si comanda loro di ballare, ora sensualmente ora in modo frenetico. Gli interpreti non coincidono sia per sesso che per età con il loro personaggio da cui escono per entrare in un altro oppure ne ripetono le battute e, quasi sempre in maniera simultanea, l’azione si sdoppia, seguendo la trama dei 16 quadri che compongono la pièce. I kapò, in piedi all’esterno del recinto, impongono di eseguire prove fisiche ai limiti dello sfinimento che provocano metaforiche ferite coperte da provvidenziali cerotti, ma a colpire di più è la pressione psicologica esercitata che induce i personaggi ad abbandonarsi a meschine rivalità e sfogare rancori repressi. Sorprendente e paradossale è l’intemerata a dir poco antifemminista sul ruolo della donna e la conseguente supremazia del maschio del quale è una mera appendice da sottomettere. Tra i pochissimi oggetti che popolano la scena giustamente spoglia c’è una voluminosa culla di legno (forse un simbolo di rinascita corporale oppure di rinnovamento spirituale) da cui viene estratto e brandito un crocifisso. Al termine i performer si spogliano ancora degli abiti mentre la voce di Bob Marley intona War. Così come eravamo entrati, ci viene ordinato di uscire in tutta fretta e ci ritroviamo, pensierosi e ancora turbati, immersi nelle brume del grande parco dove sorge il teatro.
La regia di Andrea Adriatico orchestra con maestria questo complesso, crudele puzzle, riuscendo a non far sentire la mancanza di una logica consequenzialità dell’azione e felice è l’intuizione di innestare brevi brani dell’autore tratti dal suo libro Prologo (Cassius Clay, la metafora del cane e del gatto relativa ai confitti, la testa morta dell’indiano) che ancora una volta sottolineano il suo impegno contro le guerre. Di forte presa anche le incursioni musicali, dalla Sarabanda di Bach, il rapper Coez, l’Atlantide di De Gregori. Notevole e generosissima è la prova di tutti gli attori e attrici, impegnati sia con la voce che con tutto il corpo: si esprimono in italiano, francese e arabo, lingua assai cara a Koltès, sensibile alle suggestioni culturali dei quei Paesi, infatti la sua famiglia aveva vissuto in Algeria. Ricordiamo in primis i veterani Olga Durano (attrice cult di Adriatico) e Marco Cavicchioli, poi Anas Arqawi (di origine palestinese: la sua lingua e la canzone War ci rimandano giustamente alla dolente cronaca), Michele Balducci, Innocenzo Capriuoli, Rita Castaldo, Ludovico Cinalli, Nicolò Collivignarelli, Alessio Genchi, Giorgio Ronco e Myriam Sokoloff. La macchina scenica ideata da Andrea Barberini e Giovanni Santecchia è davvero di grande impatto, claustrofobica e simbolo di una impossibile libertà. Prodotto e visto a Teatri di Vita di Bologna, con l’illuminata direzione artistica di Stefano Casi, un polo culturale da sempre coerente nelle scelte di una linea che, lontana dal mainstream, ha sempre privilegiato il teatro di ricerca. Rivedremo Le amarezze in un festival estivo e poi all’inizio della prossima stagione sarà in tournée a Torino, Rovigo e Lecce.
Strano che avesse scelto di leggere proprio quello del realismo socialista.
Quello di cui c’è una foto in cui siede con Stalin e sembra più imponente del dittatore. Nei fatti aveva assunto su di sé la fisicità del potere e chissà se lo pensavano tutti e due: Padre venerato, padre santissimo, continua così e prima o poi ti ammazzo…
Rimugino questo nel semi buio, alcuni attori dentro il recinto.
Per grazia di Dio non ho scelto il posto. Così non devo raccontarmi di essere dove ho scelto di stare. E che senso di pace un po’ spaesante, aver eseguito un comando. Non ho accanto neppure la persona che ho portato. Né il suo respiro troppo vicino.
La musica che parte è quella di certe balere, d’estate.
Così sensuale da rendere sopportabile l’idea di essere strozzati dalle sue mani.
E allora avanti e indietro, gli attori eseguono, in un crescendo che assomiglia alla vita. Quando sei nel culmine e ti lasci cadere, sfinita. La trama del motivo non la ricordo. Per questo niente trama, mi sento incredibilmente a casa.
Anche se non conosco questo testo di Koltès. Mi colpisce però che un attore dica che ti perdona figlia se ascoltassi. Fa niente, l’attrice non ascolta. Non ascolta e lui non si infuria. Si arrende. Allon dance. Che queste sono le varianti di un’ostilità di base. Quell’ostilità incarnata che rende vane tutte le questioni dell’anima e dell’immortalità dell’anima. Rende vano tutto quel filosofeggiare per cui ogni nostra azione la si potrebbe vedere ricadere sugli altri altri secondo il suo valore consapevole di bene o di male, passare da una generazione all’altra.
Vano, tutto vano quando un gatto incontra un cane. O un nome russo incontra un altro nome russo.
Molte altre cose ci sono state risparmiate. E non uno di noi, neppure uno, è stato portato via nella notte. O picchiato. In fondo poteva succedere.
Qualcuno potrebbe parlare di romanticismo dell’angoscia. Ma forse si tratta piuttosto di una dimensione politica spalancata, una scena teatrale libera da tutte le convenzioni che ci siamo abituati a considerare indispensabili. Dove lo sguardo del regista in realtà è posizionato in alto, e noi spettatori siamo sul palco, succubi come tutta la società del caos e dell’inerzia, su cui poi farà calare i droni.
Questo probabilmente c’era in Koltès.
Che i gesti contro la dignità umana, contro il principio di libertà e contro il diritto di espressione si evidenziano, più che in rapporto all’indignazione che suscitano, in rapporto all’acquiescenza.
La salvezza è stata averci obbligato ad abbandonare la nave prima che si inabissasse. Da soli quando siamo entrati e da soli quando siamo usciti. Il nostro applauso ti avrebbe solo suscitato disprezzo.
E avrebbe rovinato uno spettacolo bellissimo. Grazie.
Milena
Non sarà uno spettacolo teatrale nella sua accezione più stringente e consueta.
Ci tengono a precisare che “sarà un’esperienza”.
Dal punto di vista impattante sicuramente Le Amarezze di Koltès, per la regia di Andrea Adriatico (prod. Teatri di Vita), regala quel quid, quel brivido di andare incontro all’ignoto che la platea classica difficilmente dona ancora, ormai assuefatti alla morbidezza, a quella comfort zone vellutata e ovattante.
Qui c’è un ritorno agli anni ’70 (ci sono venute in mente alcune prove dei Living Theatre), alla performance (senza però osare) che coinvolge gli spettatori che vengono immessi in un dispositivo diverso, nuovo, strano.
Secondini-kapò ci urlano di entrare a piccoli gruppi, ci contano, ci dicono dove dirigerci, gridano il posto preciso dove dobbiamo sedere.
Nessuna possibilità di controbattere, di interagire, di rispondere.
Quaranta anime alla volta (1h 30′) stanno attorno ad un recinto che pare quello di Guantanamo, una decina di metri per quattro, un playground d’asfalto da basket americano dove all’interno otto attori, in tuta da detenuti, aspettano regole, decisioni e movimenti ordinati da altri quattro gendarmi che, con modi bruschi, sgarbati, violenti, stanno lateralmente a questa stia per polli con un microfono calante dall’alto, come quelli che scendono sul ring alla presentazione degli sfidanti.
Il palcoscenico è la gabbia (ci ha ricordato il Cortile del Maschio all’interno del Carcere di Volterra), l’ostilità è l’elettricità che affiora, pervade, percorre febbrile questo campo di battaglia, questo Campo di Marte dove non c’è sangue ma è palpabile e palese l’astio viscerale, la guerriglia tra i contendenti (forse concorrenti di un Grande Fratello fratricida o di uno Squid Game trasmesso online), il mors tua vita mea costante, quell’odi et amo tra il dentro e il fuori, quella rabbia e allo stesso tempo quella ricerca di comprensione e accoglienza tra chi subisce, le vittime all’interno di questo Garage Olimpo argentino, e i boia all’esterno della recinzione.
Adriatico sperimenta e ricerca nuovi linguaggi da trent’anni insieme ai suoi TdV e la loro esperienza è stata in qualche modo raccolta e raccontata nel volume Bologna 900 e duemila. Teatri di Vita nella città (ed. Pendragon) a cura di Stefano Casi.
Da fuori, come arbitri sul quadrato, giungono i dettami e gli attori vengono chiamati all’azione (senza improvvisazione): ballano se gli dicono di ballare, gracchiano che glielo impongono, piangono se glielo chiedono energicamente ed eseguono come burattini senza fili ossequiosi. Si spogliano, si prendono per il collo, si spingono in un’atmosfera inquietante e allarmante proprio perché strisciante, opaca, nebulosa.
Un attore, che incidentalmente viene dalla Palestina, parla in arabo e la mente non può non andare verso le immagini che rimbalzano da Gaza o dal Libano.
Al centro un cadavere sta.
Unico oggetto-feticcio all’interno dell’arena di questi gladiatori già sconfitti (Morituri te salutant) una grande culla che non genera nessun vagito, nessuna speranza, nessuna nuova alba di futuro, un lettino da dondolare ma arido, secco, spento, senza luce.
Siamo dentro e fuori il teatro, come sentir leggere le didascalie registiche, come se fosse una prova aperta ripropongono più volte in loop la stessa scena spostandosi da una parte all’altra del rettangolo delimitato dove i performer corrono come sul diamante di un campo da baseball, come le palle su un campo di bocce, come le stones sul ghiaccio del curling.
Sono quadri, capitoli, stralci, appunti e potremmo azzardare e forzare un parallelo con il Woyzeck di Buchner tra la disfatta e il fallimento endemico e quell’ira che affligge tutti questi personaggi-topos che si affollano dentro lo steccato, catapultati in quest’agorà asettica, non riuscendo ad essere visibili come individui ma rimanendo massa, nell’ombra, bolo insalvabile.
Il giovane uomo picchia la fidanzata, il padre picchia i figli, il padre picchia la madre, i figli picchiano il padre in questo tutti contro tutti, in questa Via Crucis, in questo calvario, in questo lager che non farà sconti, che non li perdonerà (se mai hanno commesso qualche colpa per essere stati privati della libertà), che non li redimerà né li libererà dal loro stato represso, recluso, prostrato.
Il risultato è un qualcosa di crudele e sensuale, freddo ed erotico, certamente un canto sfibrato, prosciugato e svuotato antibellico certificato e sottolineato dai droni (e qui entra in gioco la guerra d’aggressione russa nei confronti dell’Ucraina) che svolazzano con il loro sibilo di gigantesche zanzare. Un volo che impatta sulle barriere schiantandosi e agonizzando a terra.
Come una colomba della Pace impallinata da un cacciatore.