L’auto delle fughe

di Andrea Adriatico

con Francesca Ballico, Daniela Cotti, Gino Paccagnella

Sponsorizzazioni tecniche: Parrucchieri I Monari, Concessionaria FIAT BLUAUTO
produzione Teatri di Vita
in collaborazione con La Fonderie, Le Mans; Istituto Italiano di Cultura, Parigi; Région des Pays de la Loire
con il contributo di Comune di Bologna, Regione Emilia Romagna, Ministero per i Beni e le Attività Culturali
Primo studio: Le Mans (Francia), dicembre 2001
Prima assoluta: Bologna, 10 ottobre 2002
Secondo episodio della serie
autoombra

Una “fuga” a bordo di una Fiat Ulysse per uno spettatore solo. Il nome dell’auto è un invito esplicito a quello che sarà un viaggio dentro una città e i suoi segreti.
Sullo sfondo le parole della Guerra santa di René Daumal e lo sconvolgimento per una “guerra” interiore che è sempre più necessaria.
Un teatro sensoriale in un esperimento estremo che sonda il rapporto tra attore e spettatore all’interno di un teatro “in movimento” di “forte spirito virtuale”.

Visioni critiche

Uno spettatore a sera viene invitato a compiere un viaggio, trasportato come passeggero da una grande monovolume con due sposi sui sedili anteriori, in un teatro insieme mobile e ravvicinato. “L’auto delle fughe”, infatti, trascina il prescelto in un itinerario nella periferia di svincoli, autosaloni, passaggi a livello, autolavaggi, alberghi, tangenziali, strade deserte fra la campagna e l’industria. Sotto la pioggia scorre una città di margine, mentre i due sposi, gli intensissimi Gino Paccagnella e Francesca Ballico, raccontano di guerre e di paci, quelle minuscole di ogni giorno, quelle incise nella carne, quelle enormi. Si fermano, simulano il pericolo, si scontrano, scappano, si cercano, ti fanno accorgere di essere inseguiti, come in un film. Ti fanno vivere una tensione vicina, di pelle, mentre scorre come un sogno inquietante lo scenario della città addormentata.
“L’auto delle fughe” è un racconto letto in una monovolume grigia e spaziosa che vaga fra le strade ai neon gialli di sale vaporoso e fra i parcheggi catatonici circondati di alberi morti e fra i passaggi a livello della periferia e fra strade, raccordi di strade e inversioni stradali. È un racconto di cui io non sono stato l’autore, né l’esecutore o tantomeno l’interprete. È un racconto che mi è scorso davanti agli occhi, surreale e fittizio – reale per antifona.
Uno sposo rude burbero, padrone – al volante. Una sposa esile fragile, i capelli sottili le spalle sottili – gli occhi piccoli tremolanti. Un silenzio pesante, disagevole, disarmante. La presenza di chi scrive assente, il suo respiro di troppo. Le parole dello sposo inneggiano una guerra santa che non è cominciata, ma già è vera, troppo vera: opprimente. Un treno spettrale baluardo del caso che si fa vita, che fugge, fa volare la sposa nella notte – sposa silenziosa, sposa terrena che piscia nel silenzio dello sferragliare. (…)
E le parole che si credono vittoriose prima di aver lottato. E la guerra santa che si fa vocabolo nello spazio d’una sigaretta fumata sul canale, fra i fanali veloci titubanti e curiosi. La sposa distesa, come cenere distesa, si offre alla parola, ai fantasmi che rubano le parole, alla strada del ritorno fra gli alberi, ad una stanza che dice del vincitore ebbra di silenzio – alla moneta corrente della sposa che parla sul serio e quando pronuncia la parola guerra non è un semplice suono che fa con la bocca. Lo sposo scende, se ne va. La sposa tace, la si guarda un volto, la spalla nuda, il suo corpo disteso sulla sua parola.(…)
Mi sento due volte un privilegiato nell’essere stato “tras-portato” sull’Auto delle fughe: la prima per l’occasione unica di essere singolo spettatore di una storia, di un viaggio che è esterno ed interno: un interminabile piano sequenza privo di un qualsiasi filtro del mezzo rappresentativo se non i finestrini, i sedili, i tergicristalli, le portiere dell’Ulysse: l’auto diventa subito una micro scenografia, che da subito si espande verso i paesaggi che incontra, manipolandoli e inglobandoli nella storia, in maniera che la realtà “vera” esterna ed accidentale diventa oggetto rappresentato senza regia alcuna, se non quella intima tua che selezioni cosa guardare. Insomma un viaggio “iper realistico”, in cui la storia narrata ti coinvolge ineludibilmente perché ti obbliga a subirne emozioni e frustrazioni, obbligandoti a scendere in “guerra” con te stesso, con la tua solitudine, confrontandola con quella degli attori che ti “lasciano solo” due volte: la prima perché ti ritrovi nel tuo viaggio intimo, la seconda perché loro ti “escludono” senza pietà dal loro, sei pur sempre solo un mero spettatore.
Il secondo privilegio è essere stato coinvolto in una rappresentazione della realtà che per anni mi ha interessato personalmente: la descrizione della città contemporanea, dei nuovi luoghi d’incontro, cosiddetti atopici, come autogrill, parcheggi, strade mercato, caselli autostradali i luoghi di un urbanità altra mai progettata ma molto frequentata dalle pratiche sociali contemporanee: questo spettacolo, questo modo di fare teatro, ha aggiunto “progettualità” ficcandomici dentro.
La storia mi ha scaraventato proprio dentro quei paesaggi spesso studiati; la storia stessa li rappresenta astraendoli: è come se fosse possibile entrare nella bi-dimensionalità di un quadro che diventa tridimensionale, dove non è possibile non imbrattarsi dei colori delle tempere o dove d’improvviso il personaggio dipinto parla e tu lo senti, lo tocchi, ne senti l’odore, ne senti i respiri, riesci a vedere anche il retro mai dipinto dal pittore, che forse lui solo ha immaginato.
Tentare di fissare alcuni momenti, immagini, emozioni diventa quasi necessario, forse per riportarlo alla finzione teatrale che ho vissuto, per un estremo istintivo tentativo di autodifesa.
Una sorta di personale story board che vorrebbe restituire una regia del vostro spettacolo che non avete visto, che spero interessi e se cosi non è chissenefrega, devo farla, anche per ringraziarvi del passaggio in auto che ieri sera mi avete dato.
1. Lui e lei che si guardano, io che guardo loro; un cellulare che suona ma non sai dov’è, chiedi ai due se il cellulare è per te, loro non ti rispondono e continuano a guardarsi iniziando a parlare. Sei ancora tranquillo quando l’auto inizia a muoversi, ma lo sei meno mentre inizi ad ascoltare quello che dicono: parlano di guerra, di violenza, di incapacità d’amare, di tradimenti; tu ascolti e, dato che non ti risponderanno, inizi a risponderti da solo: è così che il viaggio esterno ti fa partire verso il viaggio interno, che hai percorso mille altre volte ma che mai ti era capitato di non essere colui che “guidava”. E allora ti fai portare, ma non è facile fidarsi.
Le luci, le strade, le case di una città di notte, che tra l’altro conosci poco, diventano subito spaesanti e un po’ d’ansia inizia a farsi “strada”.
L’Ulysse arriva al cimitero di Plecnik, lo conosci, ma non quel retro così buio, non c’eri mai andato di notte, da solo, con due sconosciuti che stanno parlando di “cose sporche”. Non noti subito un cestino della spazzatura ma quando vedi lei, vestita di bianco, pura, bellissima, che smontata dall’auto cercandoci qualcosa dentro allora il tuo immaginario inizia ad associare quella immagine ad altre immagini di losche finzioni; infatti lei di scatto si gira e, correndo verso l’auto, innervosisce lui che al volante mette in moto: rientrando in auto lei è agitata, lui mette in prima e la macchina scorre via veloce. Abbiamo sicuramente trovato qualcosa in quel cestino, forse proprio solo spazzatura.
2. Ora è un piazzale, isolato, sterrato, pieno di pozzanghere, l’oscurità è pressoché totale ma scorgi la presenza di un’altra auto. Hai capito che lui e lei sono lì per fare uno scambio, ti sembra che lei non voglia, ma lui ha molta rabbia dentro verso il fuori, verso “gli altri”. Le due macchine si fronteggiano e si lampeggiano in codice; allora lui esce e dall’altra macchina esce una donna, i due si fermano illuminati dai fanali delle due macchine, parlano, si scambiano una valigetta con un pacco, parlano ancora; la donna ora, con il pacchetto, si dirige verso la sua macchina, la donna in macchina con me inizia a parlare piano, tesa, quasi dicendo solo un singhiozzato NO; lui estrae una pistola e spara alla donna con il pacchetto che cade dentro una pozzanghera, morta. Nel silenzio dell’interno dell’Ulysse la donna davanti a te inizia ad urlare e vedi che lui corre per rientrare in auto; non senti niente, vedi solo la scena come in un film in cui il sonoro è davvero efficace, talmente ben fatto che ti sembra reale, infatti lo è, quasi te ne dimenticavi! Il sonoro di lui infatti lo senti solo quando riapre la portiera salendo in macchina; mette in moto ansimando e sgomma sullo sterrato verso il corpo bagnato disteso, inanimato. L’Ulysse se ne va via e tu vedi la donna morta dal finestrino, gli passi quasi sopra e vorresti allungarti e mettere le mani sul volante di lui per evitarla; ti volti a guardare indietro dal parabrezza e ti allontani a grande velocità mentre il corpo disteso rimane illuminato e inanimato nel piazzale sterrato pieno di pozzanghere.
Sei teso, ti senti in “fuga”, ma sei innocente ed involontariamente già complice.
Senti l’odore del sudore di lui, e l’ansia di lei che piange. Senti tutto, vedi tutto e non ci sei. L’Ulysse si ferma in un autolavaggio automatico, dove loro scendono, prendono dei secchi d’acqua e la rovesciano sul parabrezza; iniziano a lavare la macchina in una sorta di purificazione che però tu non subisci perché rimani dentro, sporco dentro, sempre più solo.
3. L’Ulysse si ferma in mezzo alla strada, non una strada piccola, ma grande, si ferma in mezzo alla strada con le quattro frecce d’emergenza accese. Lui scende e viene dietro di te aprendo il baule posteriore, prende un pacchetto di sigarette e fuma, cazzo, fuma in mezzo alla strada con le macchine che ti passano a destra e a sinistra; tutto si ferma e tutto si muove; lei si accende una sigaretta, lui risale finalmente, l’auto riprende a muoversi e lei, piangendo, sporge la mano fuori dal finestrino con la sigaretta tra le dita, vedi il palmo della sua mano sulla superficie del finestrino, lascia cadere lentamente il mozzicone che scivola scorrendo su tutta la lunghezza dell’auto in corsa, e te lo vedi passare davanti seguendolo con lo sguardo dietro di te, e vorresti andartene anche tu.
4. Le strade e la tensione tra i due riprendono; lei ha una pistola in mano e, sporgendosi dal finestrino, la rivolge a dei “passanti” sparando: tu smorzi un istintivo grido di negazione per quel gesto così inutilmente violento, ma ti trattieni e te lo tieni per te. Sei totalmente complice, e il tutto è complicato.
5. Litigano, litighi con te stesso, preferiresti farlo con loro, ma non puoi. Le immagini sembrano più crude viste da “dentro” l’Ulysse, come filtrate solo dai finestrini così puliti e trasparenti, vedi ogni particolare: mentre scopano senza amore fuori dall’auto lui spinge lei, sbattendola sulla portiera, tu ce l’hai davanti a te, ti divide solo il vetro che si appanna vicino alla sua bocca ansimante, vedi la saliva scivolarci sopra, vorresti rompere quel vetro così “sottile” per aiutarli ad amarsi o, forse, per fare entrare un po’ d’aria in quell’abitacolo ostacolo così stantio, rompere quel vetro che filtra la scena, che filtra te stesso e tutto il resto, quei due “amanti” e gli altri.
Il ritorno è meno bello della partenza, forse come sempre.
E’ difficile uscirne, e lasciare quell’Ulysse, perché alla fine vieni abbandonato in macchina, un altro abbandono: non sei tu ad uscire dal teatro, ma gli attori che entrano nella “realtà” e tu sei ancora nella scenografia che, ovviamente, coincide con la realtà rappresentata!
Allora, a fatica, esci dall’Ulysse e fuori per te non è cambiato nulla o forse tutto, ed il piano sequenza continua, ma sarà davvero finito?
Uno spettatore privilegiato vi ringrazia,

BOBO (Roberto Corsano).