eva robin’s è
la voce umana
uno spettacolo di adriatico
dedicato a jean cocteau
con il lavoro di alessandra gruppioni, alessia olivieri, alfredo putignano, cinzia fabbri, daniela cotti, emanuela pierucci, enrica brizzi, fabio michelini, marc richman, monica nicoli, roberta occhi, rocco bernasconi
prodotto da :riflessi e Santarcangelo dei Teatri d’Europa
in collaborazione con Associazione Culturale Italo-Francese
Prima rappresentazione: Santarcangelo, XXIII Festival Internazionale di Santarcangelo dei Teatri, 7 luglio 1993
Visioni critiche
Con puntualità svizzera, il pullman lascia il parcheggio dietro la piazza. Destinazione: sconosciuta. Missione: La voce umana. Dopo una mezz’ora arriviamo nel luogo X dove Andrea Adriatico ha allestito questa sera la pièce, programmata ogni giorno in luoghi diversi e top secret. Quattro passi e siamo sul greto del fiume Marecchia, uno specchio d’acqua cristallino, illuminato da fluide lampade a gas e da attori-lucciole che sbucano nel nero dei cespugli. Una di loro, quasi un’ancella, attraversa l’acqua e si siede accanto a Eva Robin’s.
Eva Robin’s è illuminata da una sorta di servo di scena tutto coperto di scuro che le sta accosciato di fronte guardandola immobile e facendole chiaro con una lampadina fissata sulla fronte alla maniera dei minatori. Il suo telefono ha un filo teso in direzione dell’altra sponda del torrente e l’attrice è trascinata in quella direzione. Al centro del torrente, in mezzo metro d’acqua (che lo spettatore infreddolito dall’aria della notte sui colli non può non immaginare gelida), la Robin’s sguazza, si siede un paio di volte, a un certo punto vi cade dentro. Gocciolante, scarmigliata, incantevole, con la voce appena arrochita, la Robin’s si agita per tutto il greto. Ma l’attrazione del filo è troppo forte. Man mano che il monologo procede, e il dolore si fa più evidente, l’azione si sposta verso l’origine di quel filo, un cassonetto della nettezza urbana, dove è sistemato un altro attore incappucciato con lampadina da minatore.
Il filo del telefono, lenza crudele dell’abbandono, sfianca la preda che si dibatte. Il filo della corrente scorre gelido come la vita, mordendo le carni. Il dolore, la lacerazione del distacco è qui anzitutto passione fisiologica. Uno scoppio, improvviso, schianta la donna: Eva cade fra terra e acqua. Giace immobile. L’uomo del bidone mormora qualcosa sul poco che ci vuole a spezzare una vita, e si rinchiude nella propria arca. Sull’acqua avanza, al ritmo di una disco-music, un’altra donna, sciabolando luce dalla fronte e va a imbucarsi anch’essa nel bidone. Eva resta un mucchietto inerte, indistinguibile. E domani? Domani, si sa, è un altro giorno, un altro luogo. Lo stesso dolore.
Quel tu invisibile e mai nominato è l’amante perduto, che il telefono fa esistere ancora, lì, in quel luogo selvaggio che dovrebbe essere una stanza, tra abat-jour e lampade che sono creature in nero con torce sulla fronte, come i chirurghi o i minatori. Non contano quasi nulla, conta il telefono, conta il filo che l’uomo nel cassonetto allunga o tira a suo piacere, condizionando i comportamenti di Eva. E’ questo lo spettacolo: è il dominio delle forze oscure, è l’energia misteriosa che si dimostra insensibile ai nostri sentimenti.