
jackie e le altre
un altro pezzo dedicato a elfriede jelinek
jackie di elfriede jelinek
traduzione luigi reitani
uno spettacolo di andrea adriatico
con anna amadori, olga durano, eva robin’s, selvaggia tegon giacoppo
costumi angela mele
suono, scene andrea barberini
grafica albertina lipari de fonseca
cura daniela cotti, monica nicoli, saverio peschechera, alberto sarti, sarah patanè
grazie a stefano casi, giulio maria corbelli, elena di gioia, andrea cigni
una produzione teatri di vita in collaborazione con fondazione orizzonti d’arte, festival focus jelinek e il sostegno di comune di bologna – settore cultura, regione emilia romagna – servizio cultura, ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo.
a pina
prima: Festival Orizzonti, Piazza del Duomo, Chiusi, 6 agosto 2014
La maestà si vede e non si vede.
Occorre un buon portamento del capo, da imbrigliare e fissare in una foto, come ostaggi di se stessi.
Come amanti di se stessi.
Jacqueline Kennedy rievoca la sua storia, il rapporto con John Kennedy, il tragico omicidio del Presidente seduto al suo fianco, le scappatelle del marito con Marilyn Monroe, i segreti del suo inconfondibile look, i vestiti e le acconciature… tutto questo nel fiume di parole scritto da Elfriede Jelinek, l’autrice austriaca premio Nobel per la letteratura nel 2004, a cui Andrea Adriatico ha dedicato un trittico.
In quest’opera la scrittrice riesce a tratteggiare la storia di un paese in profonda mutazione, gli Usa, e nello stesso tempo a ricostruire il personaggio di Jackie con grande dovizia di particolari. Una dimensione più popolare e aneddotica convive con un’analisi stratificata, che riporta a un periodo storico cruciale per le sorti del pianeta.
Nello spettacolo, le parole di Jackie sono riportate da quattro “cloni” della prima “diva” politica del dopoguerra, in una moltiplicazione corale dell’individualità espressa dalla “presidentessa”. Una sorta di oratorio post-pop, in cui i simboli iconici di Jacqueline Kennedy – i capelli, i vestiti, le pose – rimbalzano da una all’altra, diventando emblema assoluto di una moderna rappresentazione del potere, che esprime sé stesso attraverso segni folgoranti che seducono le masse.
Visioni critiche
Nomination ai Premi Ubu 2015 da parte di Giovanni Boccia Artieri alle 4 interpreti nella categoria “Migliore attrice”, con la seguente motivazione: “Anna Amadori, Eva Robin’s, Olga Durano e Selvaggia Tegon, per la coralità dell’essere Jacqueline Kennedy in Jackie e le altre (Teatri di vita, regia di Andrea Adriatico), dando corpo alle parole di Elfriede Jelinek nel racconto tra giovinezza e moda, tra fascino pop e sentimenti traditi. Fino al limite del trasformare gli spettatori in involucri dell’identità frammentata, ad invitarli a farsi altro, travestendoli sul palco”.
Una grande potenzialità risalente a nobili origini greche, dalla retorica sofistica alla logica formale, passando attraverso la dinastia filosofica – nel bene e nel male – più importante e influente della storia del pensiero. La ricerca socratica di un contenuto capace di evitare il nichilismo etico e civico, l’individuazione di questo contenuto in un sapere stabile e duraturo di carattere ideale garantito dal divino in Platone e l’aristotelica formazione di un sistema di regole logiche capaci di assicurarlo hanno determinato conseguenze strutturali dal punto di vista teoretico e pratico. Su tutte, una impostazione individuale e collettiva che pensa il culmine della società nella dedizione alla tecnica. Manifestazione più esemplare del valore della scienza, la Verità della sua applicazione sarebbe allora garanzia stessa di una necessaria presenza di auctoritas in ambito culturale, politico e morale. Riuscire a raggiungere un obiettivo concreto, sperimentabile e replicabile a partire da ipotesi (pre)determinate non costituisce forse la prova di basi teoriche certe e corrispondenti alla Verità? Come anche dell’importanza di una conseguente casta di sacerdoti, da intendere in senso lato, depositaria di tale commistione tra saggezza e sapienza?
Paradossalmente fu Galilei il primo che riuscì a incarnare la piena consapevolezza di questo spirito. Senza nasconderne la parzialità, l’umana e non divina – dunque fallibile – conoscenza scientifica non è forse la migliore strategia cui il genere umano può volgersi per aspirare al miglioramento di questo che è l’unico mondo che siamo sicuri di abitare?
Una deriva arida e palesemente falsa non solo perché miseria e sofferenza sembrano endemicamente in quotidiana crescita. Soprattutto perché sembrerebbero esserlo in relazione a quei progressi tecnologici cui corrispondono orrori di bisogni alimentari e morte diffusi esponenzialmente senza precedenti accanto a opportunità che troppo, troppo lentamente allargano il proprio target di godimento. Dall’africana ebola a quel conflitto israelopalestinese (cui Eva Robin’s farà esplicita allusione durante lo spettacolo), giusto per citare due esempi dell’oggi.
Proprio per contrarietà e per reazione, nel contemporaneo – e stabilmente da fine ottocento – è iniziata un’opera di demolizione di questa prospettiva di pura ideologia. Una cultura del sospetto che ha coinvolto ogni forma artistica, in primis la letteratura che, proprio nel tentativo di segnare un solco di responsabilità, ha finito per far clamorosamente intrecciare tra loro diverse forme espressive.
Warhol, Heidegger e Schoenberg (presenti a questo Orizzonti Festival), Nietzsche, Joyce e Sartre, Bergson, Kandinsky e Barba, Foucault, Breton e Carmelo Bene ne sono solo alcuni esempi.
In questo club di contestatori dell’ordine disciplinare costituito, di cantori delle contraddizioni contemporanee, di denuncia delle invasive pratiche che condizionano ormai palesemente la formazione stessa della coscienza, rientra a pieno titolo l’autrice austriaca protagonista di questa messa in scena del Teatro di Vita.
Jelinek è famosa al grande pubblico perché da un suo omonimo romanzo è stato tratto il film La pianista pluripremiato al Festival del Cinema di Cannes. I suoi testi, come anche la celebre dichiarazione con cui non si presentò al ritiro del Nobel nel 2004, sono scontri frontali con le vecchie forme di narrazione del mondo. Non a caso la motivazione dell’onorificenza recita «for her musical flow of voices and countervoices in novels and plays that with extraordinary linguistic zeal reveal the absurdity of society’s clichés and their subjugating power» (Per il musicale flusso di voci e controvoci dei suoi romanzi e drammi che con una straordinaria accuratezza linguistica rivelano le assurdità dei cliché della società e il loro potere di soggiogare).
A esse, l’autrice oppone rinnovate forme stilitiche, scomposte solo in apparenza. In realtà, in urto con la sistemica genuflessione nei confronti di miti educativi cui religiosamente si viene invitati a conformarsi. Rispetto ai quei conseguenti ideali coercitivi (di genitorialità, adolescenza, amore, cittadinanza, ecc), nuove letterature hanno raccolto l’invito maieutico a favore della autentica realizzazione del sé, della costruzione di un mondo accogliente, inclusivo e non asservito alla presenza di autorità incontestabili.
In Jackie e le altre, delirio populista dedicato a Elfriede Jelinek, l’idiosincrasia e la sperequazione tra quanto ne rappresenterebbe l’impianto drammaturgico ambìto (sopra descritto) e quanto effettivamente visto rende complicato un approccio sereno nei suo confronti. Un allestimento dichiaratamente pop dalla locandina al chiaro riferimento alle produzioni seriali di Andy Warhol, i cui primi minuti non mancano di suscitare una certa curiosità. Merito di una scenografia composta principalmente dalle stesse interpreti in primo piano, da un pannello per la proiezione video e da numerose bamboline di Jackie sedute sullo sfondo – che, però, scopriremo essere di mero riempimento – e un accompagnamento, infine, ridondante nella sua riproposizione stereotipi audiovisivi.
Le quattro protagoniste con i loro altrettanti cubi illuminati, pseudo Jackie Kennedy Onassis in evocative pose plastiche, sono apparse ben lontane dalla restituzione visiva e concettuale di «una eroina e metafora del femminile contemporaneo».
Intente a un lungo disquisire su giro vita e tailleur di colore rosa, ingessate da una regia resa ancor più complicata da complessivi evidenti limiti interpretativi, la Jelinek dei Teatri di Vita non «congela la storia e procura una visione “mitica” dell’esistenza», ma incespica su un qualcosa di più vicino all’esaustività di una pagina di wikipedia che alla ricerca di «identità, non personificazioni».
Giù dal palco, su 4 cubi illuminati le 4 bambole del potere a immagine e somiglianza del ritratto denigrante fatto da Marilyn Monroe su Vogue (tubino e parrucca neri, guanti grigi, rossetto che riprende il foulard fucsia e giri di perle intorno al collo) dicono che Jackie ha cercato di tenere insieme il cranio frantumato di Kennedy come la sua famiglia o che il rosa si ricorda anche se sporco di cervello. La fragilità è una posa inespressiva, la rabbia è un ghigno opaco, in un vuoto interpretativo che si riempie di frasi a effetto come “ci può essere un accento anche nel sottrarsi”. Se però l’intenzione era far risaltare il tormentato bianco e nero delle immagini d’epoca proiettate sul palco e la nostalgia di un tempo “mitico” anche per chi non l’ha vissuto, allora Jackie e le altre è perfettamente riuscito.
La produzione delle tre performance, a cura di Teatri di Vita, è sostenuta anche dal festival Focus Jelinek, che si terrà in dieci città dell’Emilia Romagna da ottobre 2014 fino a marzo 2015.
In questo lungo arco di tempo sarà possibile conoscere e approfondire, sotto diverse forme e interpretazioni (spettacoli, incontri, letture, pubblicazioni e proiezioni), l’opera omnia dell’autrice, dal teatro ai romanzi ai testi non ancora tradotti in italiano. Il festival sarà realizzato grazie al contributo di più artisti e si articolerà negli spazi culturali delle diverse città coinvolte.
Il progetto, ci spiega il direttore artistico Elena Di Gioia, nasce perché «nonostante il Nobel e i tanti premi ricevuti in area tedesca, la Jelinek non è ancora conosciuta in Italia, se non per il film “La pianista”, tratto da un suo romanzo, con la regia di Michael Haneke». Il festival si propone dunque di dare adeguata visibilità ad un’autrice «dalla scrittura abrasiva, capace di smontare la rappresentazione della realtà lavorando soprattutto sul potere, mostrando come questo si compone e si alimenta».
Anche il testo su Jacqueline Kennedy Onassis può essere considerato una riflessione sul potere, analizzato nelle sue diverse sfaccettature. Il potere politico, il potere dell’uomo sulla donna, il potere della ricchezza, il potere della forma, che la signora Kennedy si illude di poter creare e dominare, quando invece ne è forse la prima vittima.
In questo lungo monologo interiore alcuni episodi della vita pubblica e privata dei Kennedy vengono utilizzati come “trampolini” per lanciarsi in un’amara riflessione filosofica, di cui è possibile rintracciare pochi punti cardine, riproposti però in modo quasi ossessivo: il ruolo passivo ma condizionante dell’opinione pubblica, gli stereotipi femminili inesorabilmente determinati dalla società, la morte e il suo mescolarsi con la vita, la dicotomia tra “forma” e “luce”, tra artificio e natura.
Particolarmente insistite le metafore sull’abbigliamento: è la stessa Jackie a raccontare come sia riuscita a fare di sé una perfetta icona di stile, a rendere ineccepibilmente sottile il proprio punto vita, a collezionare abiti eleganti e adatti alle più diverse occasioni mondane ed eventi politici, fino a diventare lei stessa “abito”. La magrezza femminile come fonte di potere, ma anche come prigione, il contrasto tra la luce naturale emanata da Marilyn Monroe e la costruita stilizzazione incarnata dalla first lady, il particolare raccapricciante del cranio di John Kennedy raccolto dalla moglie sul raffinato tailleur rosa: concetti e immagini di sicura efficacia che però, riproposti continuamente, finiscono per perdere parte della loro forza.
Un testo, dunque, che ha il merito di indagare, dalla particolare prospettiva di una figura così complessa e affascinante, i molteplici e più o meno sottili condizionamenti subiti – ieri come oggi – dalle donne, ma che non riesce a coinvolgere e convincere pienamente.
Gli stessi limiti si possono riscontrare nella messa in scena, che appare ridondante e didascalica, non del tutto in grado di sviluppare elementi che pure potrebbero risultare stimolanti. Il regista sceglie di scomporre il personaggio di Jackie in quattro figure femminili identiche, tutte impeccabilmente abbigliate con abito nero, sciarpa fucsia, décolleté, parrucca a caschetto e cappellino.
Le quattro attrici – Anna Amadori, Olga Durano, Eva Robin’s e Selvaggia Tegon Giacoppo – sono tra loro diverse per età, voce, corporatura: questo potrebbe indicare una sorta di universalità nella storia infelice e nelle spietate riflessioni di Jackie Kennedy. Idea suggerita anche dall’occasionale contatto con il pubblico e dal suo parziale coinvolgimento: le quattro first lady arrivano dalla platea, per poi posizionarsi su quattro cubi bianchi posti sotto il palco, dopo i saluti finali passano di nuovo tra gli spettatori e nella prima parte dello spettacolo conducono quattro donne del pubblico al centro della scena per una breve performance basata su un gioco di immedesimazione.
Ma questi tentativi di comunicazione appaiono come lasciati a metà, non portati avanti fino in fondo: finiscono per restare soffocati nella voluta monotonia di una recitazione consapevolmente distaccata, asettica, basata su una dizione scolpita ma priva di punte espressive, su movimenti lenti e innaturali, su pose plastiche, quasi statuarie, che sembrano non riuscire a trovare una propria intrinseca armonia.
La dichiarata adesione di Jackie a una perfetta e sclerotizzata formalizzazione trova così una rappresentazione fin troppo letterale ed esibita, accompagnata da un impianto scenico scarno e da un video che sottolinea ogni momento della narrazione con immagini, scritte o fotografie esplicative.
Il regista, nelle sue note sul progetto Jelinek, non nasconde le difficoltà che il tentativo di mettere in scena le opere della scrittrice austriaca inevitabilmente comporta: «I personaggi di Elfriede Jelinek non sono altro che corpi che danno parole. Cercare di “rappresentare” questi testi credo produca un fallimento».
Ad Andrea Adriatico va quindi riconosciuto il merito di essersi cimentato con un’impresa tutt’altro che facile e dai risvolti potenzialmente interessanti; un plauso va anche alle quattro protagoniste, che hanno saputo svolgere il loro arduo compito con puntuale professionalità.
Tra cubismo e pop art, tra elevazione a potenza dell’immagine e sua dissolvenza lenta e accurata fino alla disintegrazione. I poli tra cui oscilla la lettura che Andrea Adriatico fa della storia di Jackie Kennedy sono suggestivi e di una potenza demiurgica finissima. La visione sull’opera di Elfriede Jelinek diventa paradigma delle mille vite che un testo può cucirsi addosso, grazie alla mano di colui che lo riplasma.
C’è sicuramente un gioco teatrale e artistico profondo nella scelta di base: la rifrazione della narrazione. Anziché un monologo che restituisca al pubblico la storia di una donna che ha stregato i rotocalchi per la sua eleganza e i suoi love affair, sono quattro attrici a riprodurre le sfumature del personaggio, con un effetto prima picassiano e poi warholiano, con l’alone della donna-bambola sempre in agguato, e non solo nel piccolo dettaglio delle bamboline in scena. Le perle, la posa nel giorno dell’omicidio, il cappellino: tutto si carica di una densità eloquente.
Lo stesso personaggio inquadrato da quattro prospettive, con quattro timbri diversi, come una ripetizione seriale che però ha una sua peculiarità che sorpassa la mera riproduzione modulare. Il rischio voluto dell’effetto pop del brand, stile colazione da Tiffany, è scavalcato dall’intensità del testo. Una sapientissima introspezione con un uso del linguaggio che, sebbene scandito con omogenea confessionalità, raggiunge apici di lirismo e intimità davvero profondi.
Due sono gli archetipi fondamentali su cui gioca l’immaginario di Jackie: la forma e la luce. Jackie trova respiro all’interno della prigione della forma e dell’etichetta che le dona il ruolo di first lady creando un proprio gioco di femminilità, di misura, di equilibri e contrappesi, e accarezzando di tanto in tanto la nevrosi a cui spinge la ribalta costante, specie se si considera la posizione scomoda di donna-moglie di un presidente con una fedina matrimoniale tutt’altro che brillante.
I tubini che non accentuano i fianchi, il capello iperstrutturato, i guanti, il colore diventano un cerimoniale irrinunciabile, le marche di una eleganza composta contrapposta alla strabordante voluttuosità delle forme sdoganate dall’acerrima nemica, Marylin. Una differenza abilmente mostrata in punta di fioretto, come se, paradossalmente, la donna che accecava i riflettori e metteva in ombra, la donna del Presidente, pagasse proprio questa sua condizione pericolosa di luminosità, che ha in sé una essenza di caducità che poco emerge ad un primo impatto con la società dello spettacolo.
Come da tradizione nelle regie di Adriatico lo spazio è vivo, senza diaframmi tra ribalta e spettatori, che entrano a far parte del gioco della moltiplicazione, così come già avvenuto per il primo atto della trilogia Jelinek (Delirio di una trans populista). La forma scenica è decisamente interdialogica rispetto alla semiotica in movimento della contemporaneità: ecco allora i selfie, l’ormai antica concezione di profondità di campo rilanciata con la suggestione delle silhouettes, delle integrazioni di linguaggi multimediali, degli accenti visivi sul testo.
Una visione sicuramente consigliata per la preziosità della messinscena, per la scoperta dei meandri di scrittura della Jelinek, per la ricerca accurata sul tema della femminilità, attuale più che mai, specie in un territorio come quello emiliano ormai da anni in prima fila nel dibattito nazionale per il riconoscimento di una nuova tendenza antropologica ed educativa rispetto alla costruzione degli immaginari di genere.
Dopo aver passato un’ora e mezza in compagnia di Jackie e le altre, ci si ritrova assaliti da una sensazione di mancanza, di vuoto appunto, come se proprio la morte fosse stata seduta accanto a noi in platea. Lo spettacolo di Teatri di Vita – presentato a Short Theatre nell’ambito del Focus Jelinek a cura di Elena Di Gioia – sembra essere costruito proprio sulla mancanza che si genera dall’eccesso: eccesso di parole (tratto caratteristico della scrittura dell’autrice premio Nobel 2004), clonazione dell’unico – effettivo – personaggio, dilatazione del tempo narrativo.
Sulla scena solo quattro cubi luminosi, una distesa di bambole in completo nero e uno schermo a richiamare la Storia che si annoda alle storie della First Lady, simbolo pop dell’eleganza e del lutto. Fanno il loro ingresso quattro donne (Anna Amadori, Olga Durano, Eva Robin’s e Selvaggia Tegon), diverse per età e intensità dello sguardo, ma identiche nell’abbigliamento e nell’acconciatura, due tratti iconografici pregnanti della moglie del Presidente ucciso a Dallas nel 1963.
Inizia così una sorta di litania corale di un’esistenza votata al dolore sempre celato per difesa: emergono tutte le cicatrici coperte dai tailleur neri e dalle stole fucsia, tutte quelle ferite che non sanguinano, ma bruciano e che, come suggeriscono i video d’epoca che sovrastano la scena, pulsano della vita interrotta di John, del cognato Robert e dei figli segnati dalla “maledizione dei Kennedy”. Un’incursione nel pubblico (per reclutare “altre Jackie”) e le coreografie rallentate si sovrappongono alle parole, replicando i gesti sempre misurati e disperati di chi si ritrovò ad avere il cranio del proprio marito sparso sui vestiti. E allora la morte sembra poter diventare una occasione: un freddo riscatto sulla rivale in amore – Marilyn Monroe – una figlia della luce, comunque troppo debole per sopravvivere a una creatura abituata anche all’ombra, come Jackie.
La storia restituita dalle parole di Elfriede Jelinek e dalla carne delle quattro attrici in scena dirette da Andrea Adriatico, risulta spossante quanto suggestiva, come fosse un vecchio baule di legno massiccio, che non si riesce a spostare: proprio come fu la vita di questa icona pop, uno scrigno dorato ma vuoto, che fa bella mostra di sé in una gioielleria d’alto rango.
Chissà chi era davvero Jackie Kennedy, chissà quanti istinti si agitassero in quell’abbigliamento che divenne tendenza: ciò che rimane è sempre la percezione di mancanza e quegli occhi penetranti, condannati a non potersi sciogliere in pianto.
Quattro donne, moltiplicazione drammaturgica della protagonista, procedono dalla destra del pubblico verso la scala che conduce al palco con una processione lenta e regale. Vi è una nota grottesca nella solennità, nelle vesti smanicate, nere e corte, nella nudità delle braccia e nella compostezza marmorea dei volti, mentre le luci rendono i loro tratti volutamente sovrabbondanti.
Sul palco, quattro cubi di plastica bianca rimandano idealmente alla fredda eleganza de La Grande Bellezza, quando Jep Gambardella, arbiter elegantiarum, educa la giovane Ramona alle regole rituali della cerimonia di morte. Dal palco, i cloni di Jacqueline Kennedy ammaestrano i presenti in sala al culto materiale del potere tramite il rigore dei gesti, l’estetica delle vesti e la compattezza laccata di capelli, dando così forma a una sorta di apologia glamour della potere al femminile del ‘900. C’è stato un tempo, in cui Jackie è stata icona, moda e poi mito per generazioni di donne, ideale sia estetico per il taglio delle sue vesti, sia pubblico per il silenzio nei confronti dei affari di Stato durante la presidenza del marito.
Si comprendono, allora, la dura ironia e come il tema di fondo del dramma sia, insieme alla solitudine, laresistenza alle opinioni e ai pettegolezzi mondani cui Jackie oppose un’aristocrazia dello spirito, una morale cui appellarsi prima di specchiarsi di fronte alle proprie perdite (per esempio di due dei quattro figli avuti con John Fitzgerald Kennedy) e alla consapevolezza che essere la moglie di un uomo, illustre e ossessivamente fedifrago, comportasse l’amara accettazione di essere la controparte della luminosa Marilyn Monroe. Un’etica del tutto personale dove la possibilità di vincere la morte passa dalle nozze con il potere, dal sacrificio della propria umanità e dall’incarnazione nel mito.
Sono questi gli elementi dell’originale reinterpretazione del mito di Jackie che il regista Andrea Adriatico restituisce con rigore scenico, confezionando uno spettacolo sostenuto da una recitazione discreta, ma non strabiliante, che, pur patendo percepibili differenze di tono e ritmo, vede svettare per bravura e istinto scenico Olga Durano ed Eva Robin’s. Se, tuttavia, l’azione risulta disturbata da dinamiche non sempre omogenee ed è interessante la modalità di coinvolgimento del pubblico (con la scelta casuale e senza distinzione di genere di quattro spettatori, fatti salire sul palco e fotografati con polaroid), il principale merito di Adriatico sembra essere proprio quello di aver mostrato un autentico amore del femminile, nel cui mito lasciare inquieto il pubblico.
Proposta in scena in quattro sembianze di sé stessa quasi identiche, l’immagine di Jackie si moltiplica e si divide come un’icona serigrafata da Warhol, che le quattro valenti interpreti, Anna Amadori, Olga Durano, Eva Robin’s e Selvaggia Tegon Giacoppo, indossano insieme al piccolo abito nero delineato da una sciarpa rosa e al caschetto di capelli neri. Ciascuna lasciandosi contornare dal cubo luminoso che è piedistallo e inquadratura fotografica e televisiva, rinunciano all’espressività facciale per dar voce uno “stream of consciousness” che diventa spietata analisi della fascinazione di massa, cerebrale indagine del senso di un’identità che non è propria ma rimandata dallo sguardo degli altri, immagine pubblica costruita dagli obblighi della cultura dominante e del ruolo rivestito, e vestito impeccabilmente quasi nell’assenza di un corpo, fino all’assenza di se stessa.
Potente silhouette che assorbe luce per farsi oscurità e solitudine, è questa la figura che attraversa le tragedie familiari, i tradimenti, i grandi lutti vissuti in diretta – mentre uno schermo rimanda le sue istantanee, l’omicidio di John e lei tesa nel gesto istintivo e tragico di raccogliere un pezzetto di cranio, l’assassinio di Bob Kennedy e il suo celebre discorso sul Pil e la felicità, l’happy birthday della rivale Marilyn, e ancora i suoi capelli cotonati e il cappello sulla nuca, i vestiti a tubo corti sulle gambe e le giacche aderenti, i guanti, il suo volto bianco, la bocca sensuale e gli occhi distanti fra loro. Anche questi indossati come accessori dalla sua icona, che ancora sembra avvicinarsi – come nel rituale in cui quattro spettatori, tre donne ed un uomo, sono condotti sul palco per trasformarsi in altre Jackie. Per poi tornare ad una distanza siderale anche nei saluti finali, con le ombre delle attrici che fanno cenno con le mani dietro lo schermo, su cui ora appare beffardo il volto della Jelinek.