jackie e le altre

un altro pezzo dedicato a elfriede jelinek

jackie di elfriede jelinek
traduzione luigi reitani

uno spettacolo di andrea adriatico

con anna amadori, olga durano, eva robin’s, selvaggia tegon giacoppo

costumi angela mele
suono, scene andrea barberini
grafica albertina lipari de fonseca
cura daniela cotti, monica nicoli, saverio peschechera, alberto sarti, sarah patanè
grazie a stefano casi, giulio maria corbelli, elena di gioia, andrea cigni
una produzione teatri di vita in collaborazione con fondazione orizzonti d’arte, festival focus jelinek e il sostegno di comune di bologna – settore cultura, regione emilia romagna – servizio cultura, ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo.
a pina
prima: Festival Orizzonti, Piazza del Duomo, Chiusi, 6 agosto 2014

La maestà si vede e non si vede.
Occorre un buon portamento del capo, da imbrigliare e fissare in una foto, come ostaggi di se stessi.
Come amanti di se stessi.

 

Jacqueline Kennedy rievoca la sua storia, il rapporto con John Kennedy, il tragico omicidio del Presidente seduto al suo fianco, le scappatelle del marito con Marilyn Monroe, i segreti del suo inconfondibile look, i vestiti e le acconciature… tutto questo nel fiume di parole scritto da Elfriede Jelinek, l’autrice austriaca premio Nobel per la letteratura nel 2004, a cui Andrea Adriatico ha dedicato un trittico.
In quest’opera la scrittrice riesce a tratteggiare la storia di un paese in profonda mutazione, gli Usa, e nello stesso tempo a ricostruire il personaggio di Jackie con grande dovizia di particolari. Una dimensione più popolare e aneddotica convive con un’analisi stratificata, che riporta a un periodo storico cruciale per le sorti del pianeta.
Nello spettacolo, le parole di Jackie sono riportate da quattro “cloni” della prima “diva” politica del dopoguerra, in una moltiplicazione corale dell’individualità espressa dalla “presidentessa”. Una sorta di oratorio post-pop, in cui i simboli iconici di Jacqueline Kennedy – i capelli, i vestiti, le pose – rimbalzano da una all’altra, diventando emblema assoluto di una moderna rappresentazione del potere, che esprime sé stesso attraverso segni folgoranti che seducono le masse.

Visioni critiche

Nomination ai Premi Ubu 2015 da parte di Giovanni Boccia Artieri alle 4 interpreti nella categoria “Migliore attrice”, con la seguente motivazione: “Anna Amadori, Eva Robin’s, Olga Durano e Selvaggia Tegon, per la coralità dell’essere Jacqueline Kennedy in Jackie e le altre (Teatri di vita, regia di Andrea Adriatico), dando corpo alle parole di Elfriede Jelinek nel racconto tra giovinezza e moda, tra fascino pop e sentimenti traditi. Fino al limite del trasformare gli spettatori in involucri dell’identità frammentata, ad invitarli a farsi altro, travestendoli sul palco”.

Non è stato uno spettacolo “ostico” né troppo concettuale. Nonostante un testo complesso, tutt’altro che banale, graffiante, a tratti duro anche nel linguaggio, è risultato uno spettacolo comprensibilissimo e gradevole. Parlo di “Jackie e le altre”, presentato ieri sera in prima nazionale ad Orizzonti. Il regista Andrea Adriatico e le 4 attrici protagoniste hanno reso benissimo il testo di Elfriede Jelinek e ci hanno regalato una Jacqueline Kennedy cinica, sferzante, che ha fatto a pezzi e demolito il primo marito Jfk e buona parte della sua famiglia, la povera Marilyn Monroe considerata poco o nulla, nemmeno una rivale “perché non può essere rivale chi non è nulla”. Una Jackie che ormai è tra i morti, insieme ai suo familiari ricchi e potenti, ma che non risparmia nulla a quella stirpe di corruttori e puttanieri incalliti e impenitenti. Solo Bob viene trattato un po’ meglio, ed è certamente d’effetto la riproposizione, in video del famoso discorso sul Pil che Robert Kennedy pronunciò nel marzo del ’68 e solo tre mesi dopo fu ucciso, come Jfk. Insomma un bello spettacolo, politicamente scorretto e coraggioso. Bello e coraggioso anche il gesto “fuori copione” di Eva Robin’s di mostrare al posto della bandiera americana una bandiera palestinese. Che non c’entrava niente con il testo e con il contesto, ma ha riportato tutti alla tragedia attuale di Gaza. Complimenti. Stasera si replica.
La complessità intesa come sinonimo di profondità è una grande virtù se maneggiata con la dovuta maestria. Da questo punto di vista, la lingua italiana non teme confronti per ricchezza sintattica, semantica e di fonemi. La capacità di partorire interi mondi per immagini concettuali o semplici inflessioni dialettali – cangianti anche tra territori immediatamente limitrofi – rende bene ciò cui ci riferiamo.
Una grande potenzialità risalente a nobili origini greche, dalla retorica sofistica alla logica formale, passando attraverso la dinastia filosofica – nel bene e nel male – più importante e influente della storia del pensiero. La ricerca socratica di un contenuto capace di evitare il nichilismo etico e civico, l’individuazione di questo contenuto in un sapere stabile e duraturo di carattere ideale garantito dal divino in Platone e l’aristotelica formazione di un sistema di regole logiche capaci di assicurarlo hanno determinato conseguenze strutturali dal punto di vista teoretico e pratico. Su tutte, una impostazione individuale e collettiva che pensa il culmine della società nella dedizione alla tecnica. Manifestazione più esemplare del valore della scienza, la Verità della sua applicazione sarebbe allora garanzia stessa di una necessaria presenza di auctoritas in ambito culturale, politico e morale. Riuscire a raggiungere un obiettivo concreto, sperimentabile e replicabile a partire da ipotesi (pre)determinate non costituisce forse la prova di basi teoriche certe e corrispondenti alla Verità? Come anche dell’importanza di una conseguente casta di sacerdoti, da intendere in senso lato, depositaria di tale commistione tra saggezza e sapienza?
Paradossalmente fu Galilei il primo che riuscì a incarnare la piena consapevolezza di questo spirito. Senza nasconderne la parzialità, l’umana e non divina – dunque fallibile – conoscenza scientifica non è forse la migliore strategia cui il genere umano può volgersi per aspirare al miglioramento di questo che è l’unico mondo che siamo sicuri di abitare?
Una deriva arida e palesemente falsa non solo perché miseria e sofferenza sembrano endemicamente in quotidiana crescita. Soprattutto perché sembrerebbero esserlo in relazione a quei progressi tecnologici cui corrispondono orrori di bisogni alimentari e morte diffusi esponenzialmente senza precedenti accanto a opportunità che troppo, troppo lentamente allargano il proprio target di godimento. Dall’africana ebola a quel conflitto israelo­palestinese (cui Eva Robin’s farà esplicita allusione durante lo spettacolo), giusto per citare due esempi dell’oggi.
Proprio per contrarietà e per reazione, nel contemporaneo – e stabilmente da fine ottocento – è iniziata un’opera di demolizione di questa prospettiva di pura ideologia. Una cultura del sospetto che ha coinvolto ogni forma artistica, in primis la letteratura che, proprio nel tentativo di segnare un solco di responsabilità, ha finito per far clamorosamente intrecciare tra loro diverse forme espressive.
Warhol, Heidegger e Schoenberg (presenti a questo Orizzonti Festival), Nietzsche, Joyce e Sartre, Bergson, Kandinsky e Barba, Foucault, Breton e Carmelo Bene ne sono solo alcuni esempi.
In questo club di contestatori dell’ordine disciplinare costituito, di cantori delle contraddizioni contemporanee, di denuncia delle invasive pratiche che condizionano ormai palesemente la formazione stessa della coscienza, rientra a pieno titolo l’autrice austriaca protagonista di questa messa in scena del Teatro di Vita.
Jelinek è famosa al grande pubblico perché da un suo omonimo romanzo è stato tratto il film La pianista pluripremiato al Festival del Cinema di Cannes. I suoi testi, come anche la celebre dichiarazione con cui non si presentò al ritiro del Nobel nel 2004, sono scontri frontali con le vecchie forme di narrazione del mondo. Non a caso la motivazione dell’onorificenza recita «for her musical flow of voices and counter­voices in novels and plays that with extraordinary linguistic zeal reveal the absurdity of society’s clichés and their subjugating power» (Per il musicale flusso di voci e controvoci dei suoi romanzi e drammi che con una straordinaria accuratezza linguistica rivelano le assurdità dei cliché della società e il loro potere di soggiogare).
A esse, l’autrice oppone rinnovate forme stilitiche, scomposte solo in apparenza. In realtà, in urto con la sistemica genuflessione nei confronti di miti educativi cui religiosamente si viene invitati a conformarsi. Rispetto ai quei conseguenti ideali coercitivi (di genitorialità, adolescenza, amore, cittadinanza, ecc), nuove letterature hanno raccolto l’invito maieutico a favore della autentica realizzazione del sé, della costruzione di un mondo accogliente, inclusivo e non asservito alla presenza di autorità incontestabili.
In Jackie e le altre, delirio populista dedicato a Elfriede Jelinek, l’idiosincrasia e la sperequazione tra quanto ne rappresenterebbe l’impianto drammaturgico ambìto (sopra descritto) e quanto effettivamente visto rende complicato un approccio sereno nei suo confronti. Un allestimento dichiaratamente pop dalla locandina al chiaro riferimento alle produzioni seriali di Andy Warhol, i cui primi minuti non mancano di suscitare una certa curiosità. Merito di una scenografia composta principalmente dalle stesse interpreti in primo piano, da un pannello per la proiezione video e da numerose bamboline di Jackie sedute sullo sfondo – che, però, scopriremo essere di mero riempimento – e un accompagnamento, infine, ridondante nella sua riproposizione stereotipi audiovisivi.
Le quattro protagoniste con i loro altrettanti cubi illuminati, pseudo Jackie Kennedy Onassis in evocative pose plastiche, sono apparse ben lontane dalla restituzione visiva e concettuale di «una eroina e metafora del femminile contemporaneo».
Intente a un lungo disquisire su giro vita e tailleur di colore rosa, ingessate da una regia resa ancor più complicata da complessivi evidenti limiti interpretativi, la Jelinek dei Teatri di Vita non «congela la storia e procura una visione “mitica” dell’esistenza», ma incespica su un qualcosa di più vicino all’esaustività di una pagina di wikipedia che alla ricerca di «identità, non personificazioni».
Jackie e le altre lo vediamo al festival Orizzonti di Chiusi. Mille volte uscendo da quel casello autostradale ci siamo diretti a sinistra, verso Chianciano, Montepulciano, Pienza; mai a destra. Invece Chiusi è una cittadina accogliente, che ci invita a tornare. Nel suo festival incontriamo il primo d’una serie di spettacoli che nel corso della stagione ventura saranno dedicati a Elfriede Jelinek, la scrittrice austriaca, Nobel del 2004. Il focus Jelinek assomiglia al focus Fosse del Ric di Rieti promosso dalla regione Lazio, e vi vedremo Chiara Guidi, Francesca Mazza, Fabrizio Arcuri, Fiorenza Menni, Fanny e Alexander tra gli altri. Peccato non vi sia lo spettacolo di recente messo in scena da Monica Conti, proprio con Jackie, che è il vero titolo del testo di Jelinek, e che non abbiamo avuto modo di vedere. Con gli attori del suo Teatri di Vita (Anna Amadori, Olga Durano, Eva Robin’s e Selvaggia Tegon Giacoppo), Andrea Adriatico quel titolo lo ha leggermente modificato. La prima ragione è d’aver trasformato un monologo in una litania: come oranti in una chiesa, o il contrario d’esse, le quattro attrici entrano in scena vestite rigorosamente di nero. Ma hanno anche una sciarpa rosa, tre giri di collana, guanti bianchi lunghi e scarpe con il tacco alto. Prima si allineano davanti agli spettatori, poi si girano, poi si scambiano di posto. Sono sedute su cubi di plexiglas avorio, o ci salgono su. Ne scendono, e ciascuna di loro vi accompagna uno spettatore tenendolo per mano. Donano a quei loro «doppi» un nero copricapo, identico a quello che adorna le loro teste. All’improvviso le simmetrie si disfano, ma rapidamente si ricompongono. In una specie di silente intervallo sentiamo una malinconica canzone di Nina Simone. Dietro questi corpi di nessuno spessore, che sarebbero trasparenti non fossero fasciati di nero, su uno schermo corrono le immagini che tutti conosciamo, di Jack, di Bob, di Ted, delle guardie del corpo, dell’auto presidenziale, dei bambini. Il monologo di Jelinek, mutato in prece (un’attrice riprende là dove un’altra ha lasciato), è di fatto un discorso sullo star-system, sull’epoca in cui esistevano le star ed esse venivano abbattute, uccise — proprio come nel nuovo secolo si uccidono i bambini — un compito affidato alle bombe o alle madri. Che cos’è, o che cos’era una star, ce lo spiega una tra le più immortali tra esse, Jacqueline Kennedy Onassis. Una star non è un corpo («essere magra conferisce potere»). È in prevalenza un abito («io sono il mio abito e il mio abito è me (…) è ciò che è, ma non è soggetto al divenire del tempo, perché non è carne. Io non marcisco»). Ma, è sempre lei a dirlo, «sono una specie di vampiro. Sono morta, ma non morrò mai». Siamo, come si vede da questi brevi cenni, concettualmente in un’epoca remota, la stessa di cui Jelinek parla. Siamo a Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, 1979. La forza, diceva il filosofo francese, la dà il sottrarre, la potenza la dà il venir meno, l’assenza — vale a dire, il contrario dell’accumulo cui la società dei consumi ci condanna. A conti fatti Jackie è un testo che spicca più nei particolari, nelle pieghe, che nell’assunto cruciale: ossia nel suo «stile glamour», nella sua ideologia anni Novanta. Alla quale tuttavia si adegua, in modo brillante ma passivo, Adriatico: non è passiva, nei confronti del testo, quella recitazione uniforme, dolce, vellutata — che si nega a ogni sorpresa?
(…) Chi invece ha tirato dritto sulla strada dell’incomunicabilità è stato Jackie e le altre – un altro pezzo dedicato a elfriede jelinek di Teatri di Vita, ancora una prima nazionale in coproduzione con il Festival Orizzonti come Enter Lady Macbeth e I giganti della montagna. L’abito di moglie per la Jackie Kennedy Onassis di Jelinek è un punto vita che cuce la libertà di essere se stessa. Quando voleva scappare non poteva e allora, almeno, si scopriva le gambe con vestiti corti. Andrea Adriatico, nel mettere in scena il testo del Premio Nobel 2004 per la letteratura, un processo alle intenzioni in contumacia, immagina una litania ingessata che si riverbera monotona, fissa, senza alcuna variazione da Anna Amadori a Olga Durano a Eva Robin’s a Selvaggia Tegon Giacoppo.
Giù dal palco, su 4 cubi illuminati le 4 bambole del potere a immagine e somiglianza del ritratto denigrante fatto da Marilyn Monroe su Vogue (tubino e parrucca neri, guanti grigi, rossetto che riprende il foulard fucsia e giri di perle intorno al collo) dicono che Jackie ha cercato di tenere insieme il cranio frantumato di Kennedy come la sua famiglia o che il rosa si ricorda anche se sporco di cervello. La fragilità è una posa inespressiva, la rabbia è un ghigno opaco, in un vuoto interpretativo che si riempie di frasi a effetto come “ci può essere un accento anche nel sottrarsi”. Se però l’intenzione era far risaltare il tormentato bianco e nero delle immagini d’epoca proiettate sul palco e la nostalgia di un tempo “mitico” anche per chi non l’ha vissuto, allora Jackie e le altre è perfettamente riuscito.
(…) Jackie e le altre – un altro pezzo dedicato a Elfriede Jelinek” di Teatri di Vita. Quest’ultimo spettacolo, con la regia di Andrea Adriatico, si inserisce in un progetto più ampio sulla scrittrice austriaca, premio Nobel per la letteratura nel 2004. “Jackie e le altre” è infatti la seconda tappa di una trilogia che ha visto il suo debutto con “Delirio di una trans populista”, andato in scena a Bologna lo scorso 25 giugno, e che si concluderà con “Un pezzo per Sport”.
La produzione delle tre performance, a cura di Teatri di Vita, è sostenuta anche dal festival Focus Jelinek, che si terrà in dieci città dell’Emilia Romagna da ottobre 2014 fino a marzo 2015.
In questo lungo arco di tempo sarà possibile conoscere e approfondire, sotto diverse forme e interpretazioni (spettacoli, incontri, letture, pubblicazioni e proiezioni), l’opera omnia dell’autrice, dal teatro ai romanzi ai testi non ancora tradotti in italiano. Il festival sarà realizzato grazie al contributo di più artisti e si articolerà negli spazi culturali delle diverse città coinvolte.
Il progetto, ci spiega il direttore artistico Elena Di Gioia, nasce perché «nonostante il Nobel e i tanti premi ricevuti in area tedesca, la Jelinek non è ancora conosciuta in Italia, se non per il film “La pianista”, tratto da un suo romanzo, con la regia di Michael Haneke». Il festival si propone dunque di dare adeguata visibilità ad un’autrice «dalla scrittura abrasiva, capace di smontare la rappresentazione della realtà lavorando soprattutto sul potere, mostrando come questo si compone e si alimenta».
Anche il testo su Jacqueline Kennedy Onassis può essere considerato una riflessione sul potere, analizzato nelle sue diverse sfaccettature. Il potere politico, il potere dell’uomo sulla donna, il potere della ricchezza, il potere della forma, che la signora Kennedy si illude di poter creare e dominare, quando invece ne è forse la prima vittima.
In questo lungo monologo interiore alcuni episodi della vita pubblica e privata dei Kennedy vengono utilizzati come “trampolini” per lanciarsi in un’amara riflessione filosofica, di cui è possibile rintracciare pochi punti cardine, riproposti però in modo quasi ossessivo: il ruolo passivo ma condizionante dell’opinione pubblica, gli stereotipi femminili inesorabilmente determinati dalla società, la morte e il suo mescolarsi con la vita, la dicotomia tra “forma” e “luce”, tra artificio e natura.
Particolarmente insistite le metafore sull’abbigliamento: è la stessa Jackie a raccontare come sia riuscita a fare di sé una perfetta icona di stile, a rendere ineccepibilmente sottile il proprio punto vita, a collezionare abiti eleganti e adatti alle più diverse occasioni mondane ed eventi politici, fino a diventare lei stessa “abito”. La magrezza femminile come fonte di potere, ma anche come prigione, il contrasto tra la luce naturale emanata da Marilyn Monroe e la costruita stilizzazione incarnata dalla first lady, il particolare raccapricciante del cranio di John Kennedy raccolto dalla moglie sul raffinato tailleur rosa: concetti e immagini di sicura efficacia che però, riproposti continuamente, finiscono per perdere parte della loro forza.
Un testo, dunque, che ha il merito di indagare, dalla particolare prospettiva di una figura così complessa e affascinante, i molteplici e più o meno sottili condizionamenti subiti – ieri come oggi – dalle donne, ma che non riesce a coinvolgere e convincere pienamente.
Gli stessi limiti si possono riscontrare nella messa in scena, che appare ridondante e didascalica, non del tutto in grado di sviluppare elementi che pure potrebbero risultare stimolanti. Il regista sceglie di scomporre il personaggio di Jackie in quattro figure femminili identiche, tutte impeccabilmente abbigliate con abito nero, sciarpa fucsia, décolleté, parrucca a caschetto e cappellino.
Le quattro attrici – Anna Amadori, Olga Durano, Eva Robin’s e Selvaggia Tegon Giacoppo – sono tra loro diverse per età, voce, corporatura: questo potrebbe indicare una sorta di universalità nella storia infelice e nelle spietate riflessioni di Jackie Kennedy. Idea suggerita anche dall’occasionale contatto con il pubblico e dal suo parziale coinvolgimento: le quattro first lady arrivano dalla platea, per poi posizionarsi su quattro cubi bianchi posti sotto il palco, dopo i saluti finali passano di nuovo tra gli spettatori e nella prima parte dello spettacolo conducono quattro donne del pubblico al centro della scena per una breve performance basata su un gioco di immedesimazione.
Ma questi tentativi di comunicazione appaiono come lasciati a metà, non portati avanti fino in fondo: finiscono per restare soffocati nella voluta monotonia di una recitazione consapevolmente distaccata, asettica, basata su una dizione scolpita ma priva di punte espressive, su movimenti lenti e innaturali, su pose plastiche, quasi statuarie, che sembrano non riuscire a trovare una propria intrinseca armonia.
La dichiarata adesione di Jackie a una perfetta e sclerotizzata formalizzazione trova così una rappresentazione fin troppo letterale ed esibita, accompagnata da un impianto scenico scarno e da un video che sottolinea ogni momento della narrazione con immagini, scritte o fotografie esplicative.
Il regista, nelle sue note sul progetto Jelinek, non nasconde le difficoltà che il tentativo di mettere in scena le opere della scrittrice austriaca inevitabilmente comporta: «I personaggi di Elfriede Jelinek non sono altro che corpi che danno parole. Cercare di “rappresentare” questi testi credo produca un fallimento».
Ad Andrea Adriatico va quindi riconosciuto il merito di essersi cimentato con un’impresa tutt’altro che facile e dai risvolti potenzialmente interessanti; un plauso va anche alle quattro protagoniste, che hanno saputo svolgere il loro arduo compito con puntuale professionalità.
Jackie e le altre è la seconda parte di una trilogia che Andrea Adriatico e Teatri di Vita stanno dedicando alla scrittrice e drammaturga austriaca Elfriede Jelinek, Premio Nobel per la letteratura nel 2004. In questo spettacolo Jackie Kennedy Onassis, «eroina e metafora del femminile contemporaneo», viene moltiplicata all’infinito: il palco è occupato per metà da sedie, su ciascuna sta una piccola bambola che ricorda la first lady; un video in loop compone e scompone l’immagine di una Jackie un po’ pulp; le attrici sono travestite come la celebre americana (parrucca, scarpe col tacco e tubino neri, sciarpa sulla spalla e rossetto fucsia, collana di perle e guanti bianchi). L’asciutto disegno registico dà voce a un testo che mescola racconto dei fatti e pensieri sulla vita: «Va bene avere il tempo per una poesia, ma è meglio se è il tuo abito ad essere una poesia», «Per catturare gli altri bisogna essere prigionieri di se stessi». Sulle quattro attrici fari bianchissimi. Una piccola danza spettrale, composta di movimenti rigidi e meccanici. Reiterati, spersonalizzanti cambi di postazione. L’insieme ricorda un film di Robert Wiene. È proiettato un pezzo del funerale di John F. Kennedy, alternato ad altri filmati e fotografie in bianco e nero che quasi sempre (rap)presentano ciò di cui si sta parlando. Sul finale, spuntano tre bandiere americane e una palestinese. Viene in mente Ennio Flaiano: «Quando da un quadro si arriva a capire che il pittore è repubblicano, socialista, comunista o liberale vuol dire che il pittore non dipinge: ossia, che invece dei suoi sentimenti preferisce mettere in moto i suoi risentimenti […] L’opera d’arte riflette sempre il suo tempo, per quel tanto che in esso c’è di slancio positivo e di vero. Ne afferra il senso. E a insaputa dell’autore».
Tra gennaio e febbraio sarà possibile rivedere uno di seguito all’altro i tre spettacoli che Andrea Adriatico ha realizzato sopra, dentro e attorno i testi di Elfriede Jelinek. Gli spettacoli, che hanno debuttato in ordine sparso tra l’estate e l’autunno del 2014, si materializzeranno così in modo esplicito, tra Bologna e Ravenna, come altrettante tavole di un trittico coerente nell’ambito del Festival Focus Jelinek, e quindi questa sarà l’occasione giusta per cercare di annodare i fili segreti tra un’opera e l’altra o per scoprire distanze e vicoli ciechi. Adriatico lavora spesso su autori ricorrenti, come Koltès, Pasolini o Copi, ma la creazione programmatica di un vero e proprio ciclo è rara (il più immediato precedente sono i 4 spettacoli beckettiani del 2009 riuniti nella tetralogia Non io nei giorni felici) e quindi ghiotta per un affondo di ampio respiro nel reciproco universo artistico dei due autori. In attesa di assistere a conferme o smentite, ecco qualche ipotesi interpretativa, sulla base della memoria delle rappresentazioni di qualche mese fa. (l’articolo prosegue sul blog casicritici)
UNA LETTURA STRAORDINARIA DELLA STORIA DI JACKIE KENNEDY

Tra cubismo e pop art, tra elevazione a potenza dell’immagine e sua dissolvenza lenta e accurata fino alla disintegrazione. I poli tra cui oscilla la lettura che Andrea Adriatico fa della storia di Jackie Kennedy sono suggestivi e di una potenza demiurgica finissima. La visione sull’opera di Elfriede Jelinek diventa paradigma delle mille vite che un testo può cucirsi addosso, grazie alla mano di colui che lo riplasma.

C’è sicuramente un gioco teatrale e artistico profondo nella scelta di base: la rifrazione della narrazione. Anziché un monologo che restituisca al pubblico la storia di una donna che ha stregato i rotocalchi per la sua eleganza e i suoi love affair, sono quattro attrici a riprodurre le sfumature del personaggio, con un effetto prima picassiano e poi warholiano, con l’alone della donna-bambola sempre in agguato, e non solo nel piccolo dettaglio delle bamboline in scena. Le perle, la posa nel giorno dell’omicidio, il cappellino: tutto si carica di una densità eloquente.

Lo stesso personaggio inquadrato da quattro prospettive, con quattro timbri diversi, come una ripetizione seriale che però ha una sua peculiarità che sorpassa la mera riproduzione modulare. Il rischio voluto dell’effetto pop del brand, stile colazione da Tiffany, è scavalcato dall’intensità del testo. Una sapientissima introspezione con un uso del linguaggio che, sebbene scandito con omogenea confessionalità, raggiunge apici di lirismo e intimità davvero profondi.

Due sono gli archetipi fondamentali su cui gioca l’immaginario di Jackie: la forma e la luce. Jackie trova respiro all’interno della prigione della forma e dell’etichetta che le dona il ruolo di first lady creando un proprio gioco di femminilità, di misura, di equilibri e contrappesi, e accarezzando di tanto in tanto la nevrosi a cui spinge la ribalta costante, specie se si considera la posizione scomoda di donna-moglie di un presidente con una fedina matrimoniale tutt’altro che brillante.

I tubini che non accentuano i fianchi, il capello iperstrutturato, i guanti, il colore diventano un cerimoniale irrinunciabile, le marche di una eleganza composta contrapposta alla strabordante voluttuosità delle forme sdoganate dall’acerrima nemica, Marylin. Una differenza abilmente mostrata in punta di fioretto, come se, paradossalmente, la donna che accecava i riflettori e metteva in ombra, la donna del Presidente, pagasse proprio questa sua condizione pericolosa di luminosità, che ha in sé una essenza di caducità che poco emerge ad un primo impatto con la società dello spettacolo.

Come da tradizione nelle regie di Adriatico lo spazio è vivo, senza diaframmi tra ribalta e spettatori, che entrano a far parte del gioco della moltiplicazione, così come già avvenuto per il primo atto della trilogia Jelinek (Delirio di una trans populista). La forma scenica è decisamente interdialogica rispetto alla semiotica in movimento della contemporaneità: ecco allora i selfie, l’ormai antica concezione di profondità di campo rilanciata con la suggestione delle silhouettes, delle integrazioni di linguaggi multimediali, degli accenti visivi sul testo.

Una visione sicuramente consigliata per la preziosità della messinscena, per la scoperta dei meandri di scrittura della Jelinek, per la ricerca accurata sul tema della femminilità, attuale più che mai, specie in un territorio come quello emiliano ormai da anni in prima fila nel dibattito nazionale per il riconoscimento di una nuova tendenza antropologica ed educativa rispetto alla costruzione degli immaginari di genere.

Ridursi a involucri – vuoti di umanità a perdere – è un crimine verso sé stessi o solo una legittima forma di autodifesa? Se è la morte a circondare la vita, allora non si rischia di diventare una specie di matrioska, una bambola cava, viva solo in apparenza?

Dopo aver passato un’ora e mezza in compagnia di Jackie e le altre, ci si ritrova assaliti da una sensazione di mancanza, di vuoto appunto, come se proprio la morte fosse stata seduta accanto a noi in platea. Lo spettacolo di Teatri di Vita – presentato a Short Theatre nell’ambito del Focus Jelinek a cura di Elena Di Gioia – sembra essere costruito proprio sulla mancanza che si genera dall’eccesso: eccesso di parole (tratto caratteristico della scrittura dell’autrice premio Nobel 2004), clonazione dell’unico – effettivo – personaggio, dilatazione del tempo narrativo.

Sulla scena solo quattro cubi luminosi, una distesa di bambole in completo nero e uno schermo a richiamare la Storia che si annoda alle storie della First Lady, simbolo pop dell’eleganza e del lutto. Fanno il loro ingresso quattro donne (Anna Amadori, Olga Durano, Eva Robin’s e Selvaggia Tegon), diverse per età e intensità dello sguardo, ma identiche nell’abbigliamento e nell’acconciatura, due tratti iconografici pregnanti della moglie del Presidente ucciso a Dallas nel 1963.

Inizia così una sorta di litania corale di un’esistenza votata al dolore sempre celato per difesa: emergono tutte le cicatrici coperte dai tailleur neri e dalle stole fucsia, tutte quelle ferite che non sanguinano, ma bruciano e che, come suggeriscono i video d’epoca che sovrastano la scena, pulsano della vita interrotta di John, del cognato Robert e dei figli segnati dalla “maledizione dei Kennedy”. Un’incursione nel pubblico (per reclutare “altre Jackie”) e le coreografie rallentate si sovrappongono alle parole, replicando i gesti sempre misurati e disperati di chi si ritrovò ad avere il cranio del proprio marito sparso sui vestiti. E allora la morte sembra poter diventare una occasione: un freddo riscatto sulla rivale in amore – Marilyn Monroe – una figlia della luce, comunque troppo debole per sopravvivere a una creatura abituata anche all’ombra, come Jackie.

La storia restituita dalle parole di Elfriede Jelinek e dalla carne delle quattro attrici in scena dirette da Andrea Adriatico, risulta spossante quanto suggestiva, come fosse un vecchio baule di legno massiccio, che non si riesce a spostare: proprio come fu la vita di questa icona pop, uno scrigno dorato ma vuoto, che fa bella mostra di sé in una gioielleria d’alto rango.

Chissà chi era davvero Jackie Kennedy, chissà quanti istinti si agitassero in quell’abbigliamento che divenne tendenza: ciò che rimane è sempre la percezione di mancanza e quegli occhi penetranti, condannati a non potersi sciogliere in pianto.

Nell’ampio spazio indipendente Teatri di Vita, davanti a un pubblico purtroppo non numeroso, si presenta l’iconica tragedia di Jacqueline Kennedy della drammaturga, scrittrice e premio nobel Elfriede Jelinek.
Quattro donne, moltiplicazione drammaturgica della protagonista, procedono dalla destra del pubblico verso la scala che conduce al palco con una processione lenta e regale. Vi è una nota grottesca nella solennità, nelle vesti smanicate, nere e corte, nella nudità delle braccia e nella compostezza marmorea dei volti, mentre le luci rendono i loro tratti volutamente sovrabbondanti.
Sul palco, quattro cubi di plastica bianca rimandano idealmente alla fredda eleganza de La Grande Bellezza, quando Jep Gambardella, arbiter elegantiarum, educa la giovane Ramona alle regole rituali della cerimonia di morte. Dal palco, i cloni di Jacqueline Kennedy ammaestrano i presenti in sala al culto materiale del potere tramite il rigore dei gesti, l’estetica delle vesti e la compattezza laccata di capelli, dando così forma a una sorta di apologia glamour della potere al femminile del ‘900. C’è stato un tempo, in cui Jackie è stata icona, moda e poi mito per generazioni di donne, ideale sia estetico per il taglio delle sue vesti, sia pubblico per il silenzio nei confronti dei affari di Stato durante la presidenza del marito.
Si comprendono, allora, la dura ironia e come il tema di fondo del dramma sia, insieme alla solitudine, laresistenza alle opinioni e ai pettegolezzi mondani cui Jackie oppose un’aristocrazia dello spirito, una morale cui appellarsi prima di specchiarsi di fronte alle proprie perdite (per esempio di due dei quattro figli avuti con John Fitzgerald Kennedy) e alla consapevolezza che essere la moglie di un uomo, illustre e ossessivamente fedifrago, comportasse l’amara accettazione di essere la controparte della luminosa Marilyn Monroe. Un’etica del tutto personale dove la possibilità di vincere la morte passa dalle nozze con il potere, dal sacrificio della propria umanità e dall’incarnazione nel mito.

Sono questi gli elementi dell’originale reinterpretazione del mito di Jackie che il regista Andrea Adriatico restituisce con rigore scenico, confezionando uno spettacolo sostenuto da una recitazione discreta, ma non strabiliante, che, pur patendo percepibili differenze di tono e ritmo, vede svettare per bravura e istinto scenico Olga Durano ed Eva Robin’s. Se, tuttavia, l’azione risulta disturbata da dinamiche non sempre omogenee ed è interessante la modalità di coinvolgimento del pubblico (con la scelta casuale e senza distinzione di genere di quattro spettatori, fatti salire sul palco e fotografati con polaroid), il principale merito di Adriatico sembra essere proprio quello di aver mostrato un autentico amore del femminile, nel cui mito lasciare inquieto il pubblico.

UNA, MOLTE E NESSUNA: LA JACKIE KENNEDY DI ANDREA ADRIATICO

Teatri di Vita tornano sulla drammaturgia del Premio Nobel Efriede Jelinek

 

La compagnia bolognese Teatri di Vita conferma una volta di più la sua predilezione per la drammaturgia contemporanea, con una attenzione particolare verso gli autori complessi, controversi, impegnati nella riflessione sul presente. E’ la volta questa di Elfriede Jelinek, interessantissima drammaturga austriaca, Nobel per la Letteratura 2004, alla quale Teatri di Vita ha dedicato ben tre messinscene nell’ultima stagione. Intercorre dunque una conoscenza approfondita tra compagnia e linguaggio dell’autrice, tale da permettere a regista ed interpreti di prodursi in scelte di scena propositive e stilisticamente coraggiose. E’ questa l’impressione prima che si ricava dalla visione di Jackie e le Altre, una familiarità fra testo e scena che si materializza nelle forme di un equilibrio sottile tra un monologo verboso e compatto ed una messinscena stilosa e creativa. Il regista Andrea Adriatico -fedele ad una precisa linea di lavoro- decide di rendere integralmente il corposo testo che la Jelinek scrive per sola voce, ma allo stesso tempo lo riplasma lungo le maglie di una performance corale in cui si alternano con studiata alchimia Anna Amadori, Olga Durano, Eva Robin’s e Selvaggia Tegon. Le quattro attrici sfilano e posano, prestando quattro timbri vocali e quattro figure corporee diversissimi al personaggio di Jackie Kennedy, che Elfriede Jelinek immagina impegnata in una sorta di confessione postuma giocata sulle corde di un galateo dell’immagine lucido e machiavellico. La moltiplicazione fisica ha buon gioco nel rendere l’eroina sotto le forme algide di una entità mitica, in virtù di un procedimento paradossale per cui il superamento dell’individualità produce l’effetto di una figura incorporea ed assente. Come quando, prima dell’ingresso delle attrici, la scena deserta viene riempita dalla voce originale di Jackie Kennedy, tratta da una rara intervista; per contro, la metà dello spettacolo è cadenzata da un momento di coinvolgimento del pubblico in cui la figura di Jackie viene ulteriormente replicata, rigenerata ed allontanata dall’originale, similmente alle versioni pop della Marylin di Wahrol. Marylin appunto, ma andiamo per gradi .
Più che moltiplicarsi la Jackie di Andrea Adriatico sembra sottoporsi ad una operazione di dissezione e scomposizione, e la sua voce -ora fresca, ora grave- pare provenire dal vuoto di un palcoscenico criptico, simile ad un ambiente disegnato da David Lynch, dove ogni tono di luce o di colore rimarca un buio sensoriale oltre che semantico. Il nero della scena viene bucato dal candore ipnotico di quattro cubi, che ospiteranno le attrici come totemici piedistalli; il fondale sulla destra diviene un parallelepipedo aggettante che inquadra uno schermo, dove vengono ospitate le videoproiezioni. Sin dall’inizio viene a costruirsi una atmosfera rituale e quasi solenne, in cui l’arguzia sottile che innerva la scrittura di Elfriede Jelinek non permette mai il riso pieno. Né fanno ridere le parrucche o le pose marionettistiche, e persino i momenti di discesa in platea per una volta non cedono alla distensione ridanciana. Tutto risulta trattenuto e concentrato sull’istante attuale, quasi come in un racconto di suspence ma in mancanza di narrazione qualsivoglia. Ciò che dipana questo effetto raccolto è in realtà la filosofia di fondo della Jackie disegnata dalla Jelinek e che la messinscena riesce a carpire in essenza, quella capacità di risaltare attraverso la sottrazione, quell’amara saggezza dello stare al mondo da icona assoluta del sistema occidentale. E’ su questo punto -non già una volgare gelosia da tinello o una banale rivalità femminile- che si sviluppa il duello concettuale tra Jackie e Marylin: oscurità e luce, minimalismo e opulenza, assenza e presenza, immagine e corpo, abito e carne. Il confronto polarizzato e totale tra le due icone anima la seconda parte dello spettacolo, dove pare di rivivere in senso simmetrico il conflitto schilleriano tra Maria Stuarda ed Elisabetta d’Inghilterra.
Partecipa bene in questa partitura attenta, fatta di tempi e dettagli minuti, una ricercata selezione musicale che fa da colonna sonora all’azione, al lordo di effetti sonori non nuovi al linguaggio di Adriatico che scuotono la scena con studiata efficacia.
Di recente uno stuolo di ammiratori e di biografi è all’opera per far entrare nel mito anche Jacqueline Lee Bouvier, prima signora Kennedy, poi signora Onassis. Un contributo significativo viene da Elfriede Jelinek, autrice nel 2010 di ‘Jackie’. Da questo fiume di parole attinge Andrea Adriatico, autore di ‘Jackie e le altre’, un testo andato in scena al Kismet sabato scorso (produzione Teatri Di Vita). Quattro donne in divisa-Jackie (abito nero, sciarpa rossa, caschetto e gambe in evidenza) sfilano e dicono. Calde quanto manichini, algide, con distacco da quartiere-salotto alto, lente nel gesto, innaturalmente solenni, raccontano quella che vorrebbe essere l’epopea di una donna. In scena, quattro cubi e uno schermo. Intorno ai quattro esaedri si svolge l’azione che per sessanta minuti si conferma rigida, meccanica, geometrica (si sale, ci si siede, si sta anche in piedi, si scende, si cambia di posto…). Alle spalle delle quattro mannequin-interpreti scorrono immagini che illustrano la parabola ‘kennedyana’ di questa donna, dal giorno del matrimonio a quello del funerale di John. Ne viene un quadro irritante e falso che invece di celebrare un personaggio da jet-set come forse sarebbe nelle sue intenzioni, disegna involontariamente (svelandola) la figuretta di un’arrivista premiata dalla sorte ben oltre i propri meriti. Condito da pillole di saggezza e aforismi innocui, ‘Jackie e le altre’ narra con spenta noncuranza il taglio che la Bouvier (discreta attrice) diede al suo personaggio : quello della primadonna. In mezzo trovano spazio non pochi pettegolezzi e rare ammissioni (l’uso di droghe, qualche intrigo). Non una parola su killer e mandanti. Quanto all’affaire-Monroe, è liquidato con sufficienza e sottile arroganza in un contesto di panni lerci, disinvoltamente sventolati in piazza. Infine, il tema del look : Una fissa che porta la protagonista a dire ‘Io sono il mio abito’; e difatti si parlava più dei suoi vestiti che di Jackie. Insomma, sotto il vestito niente, volendo parafrasare il titolo del romanzo di Marco Parma ambientato nel mondo della massima espressione di vanità, quello dell’alta moda. Tiepida l’accoglienza della platea per Anna Amadori, Olga Durano, Eva Robin’s e Selvaggia Tegon Giacoppo.
Jacqueline Kennedy arriva in scena in una compostezza immutabile, quasi icona pop e rappresentazione del potere femminile, segnata dalla tragedia e cucita dentro abiti che ne surrogano la presenza. Si descrive e si confessa, avvicina e ritrae la sua immagine da una distanza siderale. Con “Jackie e le altre” di Elfriede Jelinek Teatri di Vita con la regia di Andrea Adriatico si è aperta giovedì la rassegna “Actor Giovane – Parte II”, organizzata dalla Scuola d’Arte Drammatica al Teatro delle Saline. Il testo dell’autrice austriaca, premio Nobel per la letteratura nel 2004, racconta con linguaggio asciutto e razionale la figura di Jacqueline Kennedy attraverso elementi intimi e familiari, sullo sfondo di un periodo cruciale per gli Stati Uniti e per il resto del mondo.

Proposta in scena in quattro sembianze di sé stessa quasi identiche, l’immagine di Jackie si moltiplica e si divide come un’icona serigrafata da Warhol, che le quattro valenti interpreti, Anna Amadori, Olga Durano, Eva Robin’s e Selvaggia Tegon Giacoppo, indossano insieme al piccolo abito nero delineato da una sciarpa rosa e al caschetto di capelli neri. Ciascuna lasciandosi contornare dal cubo luminoso che è piedistallo e inquadratura fotografica e televisiva, rinunciano all’espressività facciale per dar voce uno “stream of consciousness” che diventa spietata analisi della fascinazione di massa, cerebrale indagine del senso di un’identità che non è propria ma rimandata dallo sguardo degli altri, immagine pubblica costruita dagli obblighi della cultura dominante e del ruolo rivestito, e vestito impeccabilmente quasi nell’assenza di un corpo, fino all’assenza di se stessa.

Potente silhouette che assorbe luce per farsi oscurità e solitudine, è questa la figura che attraversa le tragedie familiari, i tradimenti, i grandi lutti vissuti in diretta – mentre uno schermo rimanda le sue istantanee, l’omicidio di John e lei tesa nel gesto istintivo e tragico di raccogliere un pezzetto di cranio, l’assassinio di Bob Kennedy e il suo celebre discorso sul Pil e la felicità, l’happy birthday della rivale Marilyn, e ancora i suoi capelli cotonati e il cappello sulla nuca, i vestiti a tubo corti sulle gambe e le giacche aderenti, i guanti, il suo volto bianco, la bocca sensuale e gli occhi distanti fra loro. Anche questi indossati come accessori dalla sua icona, che ancora sembra avvicinarsi – come nel rituale in cui quattro spettatori, tre donne ed un uomo, sono condotti sul palco per trasformarsi in altre Jackie. Per poi tornare ad una distanza siderale anche nei saluti finali, con le ombre delle attrici che fanno cenno con le mani dietro lo schermo, su cui ora appare beffardo il volto della Jelinek.