Il ritorno al deserto
di Bernard-Marie Koltès
uno spettacolo di Andrea Adriatico
Traduzione Luca Scarlini
con
Francesca Mazza, Mathilde Serpenoise
Maurizio Cardillo, Adrien, suo fratello
Ali Baidoun, Aziz, domestico a giornata
Nunzio Calogero, Saïfi, padrone del caffè
Gianluca Enria, Plantières, questore
Andrea Fugaro, Mathieu, figlio di Adrien
Maria Grazia Ghetti, Maame Queeleu, domestica che vive in casa
Sara Kaufman, Fatima, figlia di Mathilde
Angela Malfitano, Marie, prima moglie (morta) di Adrien – Marthe, sua sorella, seconda moglie di Adrien
Marco Matarazzo, Edouard, figlio di Mathilde
Fabrizio Molducci, Borny, avvocato
Paul Ngeh, Il grande paracadutista nero
Stefano Toffanin, Sablon, prefetto del dipartimento
Aiuto regia Daniela Cotti
Costumi Andrea Cinelli
Scene Maurizio Bovi
Fotografia Raffaella Cavalieri
Movimenti di macchina Eros Paradisi
Suono Alessandro Saviozzi
Spazio Davide Di Pede
Luci Matteo Nanni
Assistente scenografo Eros Paradisi
Produzione esecutiva Monica Nicoli
Promozione e cura Emilio Ricciardi
Ufficio stampa Giampiero Leoni
Si ringrazia Laterizi Danesi
Produzione Teatri di Vita
Oggi torno al mio deserto personale, accompagnato da un autore che mi entra nel sangue e da lì, su su fino al cuore. Il mio legame con la sua scrittura è sconvolgente, fin da quando lessi in un sol fiato la notte poco prima della foresta.
Era la mia lingua. Era dentro.
Di lì in poi non l’ho più abbandonato, è tornato nei miei spettacoli, nei miei film, come una cosa che entra e esce dalle proprie abitudini. La sua lingua, mi ripeto, è un’abitudine, come fosse la lingua dei miei amori e dei miei affetti. Ci sono voluti però vent’anni di teatro e qualche pensiero sul cinema, uniti forse alla maturità dei quarant’anni per scegliere di metterlo in scena intero, senza “rileggerlo”, affidandosi semplicemente, amorevolmente al suo parlare.
E dunque eccomi qua.
Non presento mai gli spettacoli. Ho uno strano rapporto con lo scrivere di me. Ma questa volta ci vuole. il ritorno al deserto è un’emozione folle, selvaggia, strana. Mi ha restituito l’amore per il teatro in anni di difficoltà emotiva stringente, tallonante: mi offre in un sol colpo la possibilità di scoprire la forza di Shakespeare, la leggerezza di Goldoni, la spietatezza di Sade, la morbosità di Pasolini e tutto il contemporaneo della mia vita.
Tre lingue diverse si agitano in questo deserto. La lingua della religione, quella della cultura e quella dell’emarginazione, e si costruiscono il loro alfabeto attraverso tre grandi universi teatrali: il dialogo brillante, il monologo e il soliloquio.
E’ un deserto che ha uno strano rapporto col tempo e con le fughe. Tutti scappano da qualcosa, tutti temono l’ignoto, tutti sono occupati a cercare vie d’uscita senza trovarle.
O forse sì, le trovano, nell’unico amore possibile, quello tra fratelli incestuosi.
Per gli altri l’amore è semplicemente l’inesistenza. Questi personaggi disperatamente senza amore sono miei, sono nella pelle.
Scoprire che Koltès, come si addice ad uno sceneggiatore di fiction da casalinghe disperate, scrive i 100 anni della storia della famiglia Serpenoise, un piccolo racconto in prosa, che situa nel suo centro l’azione de il ritorno a deserto, mi fa amare tutto questo ancor di più. E’ finalmente l’ora di raccontare una saga, la storia di una famiglia e delle sue tare, che attraversa cent’anni (di solitudine) per finire sotto una palma, al sole, a chiudere gli occhi mentre scivolano addosso un gruppo di paracadutisti che flottano nell’aria.
Il deserto di Koltès è anche un noir francese, anni ’60, coi colori spessi e tinte bizzarre e d’atmosfera. E’ il Miles Davis di ascensore per il patibolo, e allo stesso tempo la guerra d’Algeria. Ma in realtà il ritorno al deserto è l’opera testamento, l’opera che sa di mattoni e di morte imminente. La tragedia dell’aids, come a Derek Jarman col suo magnifico blue, impone anche a Koltès di lasciare un’eredità. Un’eredità che pesa, come una pietra. Che senso ha partorire figli… “le donne dovrebbero partorire sassi, un sasso non da fastidio a nessuno, lo metti lì, in un angolo del giardino, e lo dimentichi” dice Mathilde dal profondo del suo deserto.
Per questo ho unito per la prima volta in questo lavoro il mio teatro al mio cinema. Dovevo unirmi io prima di tutto. Avevo bisogno di esplorare la profondità di campo e il primo piano, il soliloquio e il monologo, il sé e l’altrove legati indissolubilmente al dialogo, alla nostra parte sociale, al nostro dover stare nel deserto.
Non ho mai amato le commistioni.
“L’immagine è la prigione dell’anima” racconta proprio Jarman nel suo blue monocromo. Ecco perché penso che il teatro sia nella carne, nella voce, e nella disperata vitalità. Ma Koltès fugge oltre il teatro, prova a saltare altrove, mentre la terra gira alla sua velocità di sempre. Io posso solo provare ad inseguirlo, in quegli angoli inconfessabili dove il teatro, a volte non arriva…
(Andrea Adriatico, 1 marzo 2007)
Il ritorno al deserto, scritto nel 1988 e mai rappresentato in Italia, è lo straordinario ritratto di una famiglia dell’alta borghesia francese in piena decadenza, lacerata da scontri umani e da lotte per l’eredità. Il tutto sullo sfondo dell’imponente ritorno in patria dei “piedi neri”, cioè i coloni francesi scappati dall’Algeria in seguito alla guerra di indipendenza del paese nordafricano agli inizi degli anni 60.
Lotte familiari, cornici storiche, scontri interetnici, diventano per Koltès occasione di scrittura di un’opera unica, che attinge dalla realtà e la trasforma in una narrazione classica, quasi mitologica, dove realtà e visione si mescolano in un vertiginoso affresco che anticipa i nostri giorni.
Ne Il ritorno al deserto Koltès retrodata il presente della scena al passato storico della Francia sconvolta dai contraccolpi sociali della decolonizzazione in Algeria: questa è la cornice dello scontro che si consuma all’interno di una famiglia borghese, intesa come luogo dell’inferno sociale, e rappresentata come una saga (a questo proposito Koltès scrive un racconto ‘genealogico’ dal titolo Cento anni della storia della famiglia Serpenoise).
L’ospite inatteso è Mathilde Serpenoise, che ritorna nella casa d’origine reclamando al fratello Adrien, capitano d’industria, i suoi diritti ereditari: uno lo specchio dell’altra, i due fratelli si rinfacciano colpe e responsabilità in un crescendo di interessi meschini, pulsioni di morte e auto-annientamento, pur essendo drammaticamente legati da una segreta passione amorosa.
Castrati e sconfitti dalla lotta intestina sono i rispettivi figli Fatima, Éduard e Mathieu, anch’essi avviluppati da desideri, segreti e nevrosi. Fuori le mura della casa, invece, a essere colpiti sono gli immigrati maghrebini, come dimostra l’attentato contro il caffè Saïfi organizzato dai poteri pubblici del Capitalismo (l’industriale Adrien), della Legge (l’avvocato Borny) e dello Stato (il prefetto Plantières).
Dopo i tre “pezzi” dedicati a Koltès nei primi anni 90 (L’ultima notte, Fuga e Là, dove ci si vede da lontano), e dopo numerosi omaggi disseminati nella sua opera teatrale e cinematografica, Andrea Adriatico torna a cimentarsi con la drammaturgia dell’autore francese, scegliendo il testo de Il ritorno al deserto, un’opera densa di implicazioni psicologiche, sociali e storiche. Confermando il suo interesse per l’uso drammaturgico dello spazio scenico, per il linguaggio cinematografico e per la funzione attiva dello spettatore, Adriatico compone uno spettacolo corale che si snoda tra i diversi livelli della vicenda con l’uso dei diversi mezzi artistici, e componendo la sua prima opera espressamente costruita sull’intreccio fra teatro e cinema. In compagnia di uno straordinario e numeroso gruppo di attori per un’opera corale nella quale emergono sinistramente e dolorosamente i personaggi interpretati da Francesca Mazza e Maurizio Cardillo.
Visioni critiche
Il ritorno al deserto è stato giudicato come uno dei dieci migliori spettacoli italiani della stagione 2006/07 da Franco Cordelli (“Corriere della sera”, 5 giugno 2007); e come “spettacolo dell’anno” per il 2007 da Massimo Marino (“Corriere di Bologna”, 30 dicembre 2007), che segnala anche Maurizio Cardillo come “migliore attore”.
Il ritorno al deserto ha ricevuto voti in diverse categorie (miglior spettacolo, miglior regia, migliori attori protagonisti e non protagonisti, miglior testo straniero, migliore scenografia) per i Premi Ubu dai critici Sergio Colomba, Franco Cordelli, Lorenzo Donati, Gerardo Guccini, Osvaldo Guerrieri, Katia Ippaso, Gianni Manzella, Massimo Marino e Franco Quadri, arrivando al ballottaggio finale nella categoria “miglior testo straniero”.
Rappresentato per la prima volta in Italia, il testo di Koltès trova nella drammaturgia dello spazio il punto freddo di fusione di materiali caldi, rovinosi. Siamo ai tempi della guerra in Algeria. Matilde Serpenoise torna con i suoi due figli in Francia, nella casa blindata in cui ora vive il fratello Adrien, ex minatore asceso a ruolo di industriale. Dal deserto, Matilde porta un vento di passioni forti, la solitudine dell’esilio voluto proprio dal fratello. Il suo ritorno è tempesta, miccia di verità terrorizzanti. Con la sua sola presenza, la donna capovolge l’ordine simbolico di un sistema fondato sulla tortura. In poco tempo Mathieu, il figlio di Adrien, costretto a vivere da animale in gabbia (come nel bellissimo racconto di Dürrenmatt, “Il figlio”), a contatto con gli enigmatici cugini si ribella e scappa in Algeria, dove morirà per troppa poca esperienza della vita. Lo stesso Adrien ritroverà nel fantasma incestuoso d’amore il proprio piano di fuga. Mentre in un caffè di immigrati maghrebini una coalizione di poteri forti protetti dallo Stato fa scoppiare una bomba. La guerra è dappertutto, ed è soprattutto là dove una società di capitalisti e patriarchi ha espulso il diverso. Ciascuno cerca il proprio posto nel mondo: chi ha costruito la pace sul terrore vuole andare in Algeria, chi è in guerra vuole tornare a casa, ma le radici non esistono.
La saga della famiglia Serpenoise si scioglie su un piano di geometrie umoristiche, e fatali, che solo un regista incendiario come Adriatico, in transfert con la scrittura di Koltès, poteva trovare, con l’aiuto dei suoi intensi attori (tra tutti i protagonisti Francesca Mazza e Maurizio Cardillo). Janis Joplin canta Summertime. Mentre una macchina da presa spia i primi piani degli interpreti, che vengono proiettati durante i monologhi su uno schermo, velando coì di segni sporchi, intimi, la scena: il mezzo cinematografico si allea con il teatro per scrivere da vicino un’anatomia delle passioni.
Il filo narrativo scorre lineare, sono i sottotesti che spiazzano. Alle spalle della lite dalle sfumature incestuose, gli anni Sessanta francesi con la fine del colonialismo, il ritorno dei piedi neri dall’Algeria, i conflitti sociali, perfino un certo complottismo fascista con tanto di esplosione in un locale di maghrebini. Difficile concentrare tutto questo su un palcoscenico. Le quasi tre ore di spettacolo aiutano Adriatico a non fare troppe scelte, sacrificando però tensione drammaturgica e intensità, rinvigorite in parte dal notevole utilizzo della tecnologia video.
Quando il testo passa dalla semplice narrazione al flusso di coscienza, il lato “interno” dei personaggi viene reso in primissimi piani, proiettati su un telo che sale e scende come innumerevoli aperture di scena. Ritmo spezzato ma affascinante. Certi dialoghi strettissimi, labbra su labbra, con l’immagine sgranata che quasi ti aspetti effetti di morphing, rimangono sotto pelle ben oltre l’uscita dalla sala. E allora viene in mente che Adriatico è già al secondo lungometraggio (l’ultimo, “All’amore assente”, è stato recentemente presentato in prima mondiale al London Film Festival) e un motivo ci sarà. Sempre al video sono affidati il prologo e la conclusione di questo drammone, uno po’ feuilleton nero un po’ gioiello drammaturgico dalle diverse anime, che Koltès scrisse come una saga. Cento anni di solitudine francese, con personaggi iperattivi per sfuggire il nulla (Bastian ne “La storia infinita”…), stranieri a tutto, forse indifferenti a tutto. E si pensa a Camus, il quartiere Passy, “Tirate sul pianista” di Truffaut, gli abitini (e le gambe) anni 60, Gillo Pontecorvo, Miles Davis (splendida la scelta delle musiche). Non convince invece il calcare la mano sui mezzitoni più macchiettistici dell’ingranaggio: il pubblico sorride ma la maschera copre come cipria una profondità che non riesce del tutto ad emergere. Ed è un peccato. Perché a tratti, come nel bellissimo monologo del paracadutista, si rimane veramente scossi e la perfetta lingua di Koltès tocca i cuori.
Cast quasi sempre all’altezza (brava Francesca Mazza), carillon mosso in maniera corale su un allestimento non facile, che tende a frustrare il gesto per rispetto alla parola. Per rispetto a Koltès, messo in scena con passione rara. E anche lui, morto troppo giovane e troppo male, se ne sarebbe innamorato. Ormai piccolo cult, è uno spettacolo che non delude e non va perso. Fosse solo per capire di cosa sta parlando la Milano teatrale.
All’inizio dell’azione il palco semplicemente non c’è più, nascosto dietro un incombente schermo bianco. I primi dieci minuti sono un lento susseguirsi di nomi, avvenimenti e visi sgranati che si rincorrono sulla tela: teatro, storia e narrazione bidimensionale. Poi il sipario-cinematografo si alza, rivelando una casa di bambole di ibseniana memoria, il luogo geometrico in cui impazziscono le emozioni e i sentimenti s’incagliano, trasformandosi in rancori. La scatola di mattoni realizzata sulla scena è un gioiello di artificio, una prigione di mattoni che si impone come ragione e misura del mondo, come pietra di paragone e metro di giudizio per l’indefinito che ci sta attorno. Un indefinito che è insieme storia – la Francia della guerra con l’Algeria -, economia – l’ascesa della borghesia in una piccola città – e società -l’inizio della multirazzialità e delle tensioni che comporta. Da qui in poi, il telone, il supremo schermo bianco diventa elemento spaziale e insieme artificio scenico, il luogo della percezione che il regista non solo suggerisce ma impone al pubblico, somministra al pubblico, inocula al pubblico. Quello che per Rossini fu l’acuto, per Adriatico diventa la videocamera: il richiamo all’ordine, all’attenzione, alla scena. Un monologo acquista inevitabilmente un peso emotivo assoluto, se recitato da una enorme proiezione sgranata a un braccio dalla mia testa. Ed è questo il grande pregio e il grande coraggio di una regia matura, che oltre a combinare sapientemente elementi scenografici, disegno luci e un ragguardevole corpo attoriale, non ha paura di urlare, di chiedere partecipazione a chi guarda, di pretendere di essere vista.
Del testo che, come dice lui stesso, sente “dentro”, Adriatico ha però forse troppa venerazione: le pur numerose azioni che potrebbero sostenere le due ore e mezza di spettacolo annegano in un profluvio di parole; le acrimoniose dissertazioni con cui Sartre dimostrava che tutto vale tutto il resto cioè nulla, qui diventano trappole che neppure le belle trovate sceniche riescono sempre a disinnescare. La vicenda della famiglia Serpenoise, che in qualche modo ricorda quella dei Buendìa nel romanzo Cent’anni di solitudine, ha insomma lo spirito di un esistenzialista francese, che purtroppo non sa struggere come la canicola sudamericana.
Qui gli spettatori sono disposti su poche file di galleria, schiacciati contro uno schermo cinematografico dove appaiono slabbrate immagini in bianco e nero, primi piani confusi, ombre di corpi, mentre una voce fuori campo dà inizio al racconto. Quando lo schermo si solleva, la scena appare in basso, lontana, un riquadro contornato lungo tutto il perimetro da un muro di mattoni forati, da guardare dall’alto come spiandola. Altri muretti di mattoni suddividono all’interno lo spazio, formando dei camminamenti, degli angoli bui dietro cui è possibile nascondersi. E conoscendo l’importanza che ha per Adriatico lo spazio scenico, come primo elemento interpretativo offerto a chi guarda, non vi è dubbio che lì siamo spinti a dirigere l’attenzione. Anche perché il regista inquadra l’azione all’interno della cornice testuale di un breve racconto scritto dallo stesso Koltès che ricostruisce cento anni di storia della famiglia Serpenoise, come a reintrodurre la vicenda dentro una saga familiare, accentuandone il lato romanzesco ma a prezzo di privilegiare una trama inevitabilmente superficiale. Conflittuale per giunta con gli slittamenti onirici del testo, apparizioni di acidi fantasmi, soldati in tuta mimetica paracadutati nel giardino che potrebbero già preludere ai dannati di Sarah Kane.
La vicenda è ambientata nella provincia francese del 1960, il solo luogo del mondo dove si viva bene secondo il protagonista, che però tende a identificare questo luogo ideale con la propria casa. Una casa universo che diventa anche una casa prigione, per una sorta di volontaria autoreclusione. Oltre il muro c’è la giungla, dice al figlio. E proprio la casa è l’oggetto simbolico dello scontro con la sorella, tornata in quel deserto (dei sentimenti, dei desideri, dell’etica) dopo molti anni di meno volontario esilio in Algeria, tirandosi dietro figli illegittimi e accuse di collaborazionismo orchestrate da lui. Lei che della casa rivendica la legittima proprietà, lui un possesso ormai affermato dalla consuetudine.
Ed è scontro anche fisico, cioè di modi di occupare lo spazio, in quel loro andare avanti e indietro su percorsi rettilinei che li porta inevitabilmente a confliggere. Con un comprensibile rovesciamento delle parti, Maurizio Cardillo, istrionico e petulante, impone il diritto a una sovversione delle regole dall’alto resa manifesta dai piedi scalzi e gli occhialini alla Elton John. Mentre Francesca Mazza gli risponde con autoritario buon senso e solida eleganza.
Sono gli anni della guerra d’Algeria, anche se le musiche allusive che scandiscono le scene spostano avanti nel decennio il clima sentimentale della pièce, dalla Stupid girl dei Rolling Stones alla voce ancora struggente di Janis Joplin che invoca Summertime-time-time. Ma una ancor pi netta cesura è offerta dal periodico calare dello schermo, dal riproporsi delle immagini filmate.
C’è in Adriatico, lo si vede, un disperato desiderio di cinema, non per contaminazione di linguaggi ma per un bisogno di primo piano che il teatro non può dargli, che vuol dire scavare nelle pieghe dei volti e nella distanza da cui si affrontano i personaggi.
Nostalgia del disordine. È questo in fondo il sentimento espresso da Ritorno al deserto, in quegli ultimi anni 80. Più radicale e scandaloso dell’incestuososo legame portato allo scoperto dal finale raccontato.
In questo Ritorno al deserto siamo in Francia, nella Francia della guerra d’Algeria, e il “ritorno” è quello che compie una sorella verso il fratello: il testo è incentrato attorno a questo rapporto morboso, che diverrà incestuoso nel finale. I due fratelli si devono contendere un’eredità composta dalla casa e dalla fabbrica paterne. Il “ritorno” riscopre una serie di rapporti tormentati che sembravano dimenticati e che si declinano in rivelazioni di parti clandestini e di scandali familiari.
Per arrivare alla messinscena di Andrea Adriatico, il regista lavora su una doppia articolazione: da una parte assistiamo a una recitazione corale, supportata da una magnifica prova d’attori, soprattutto dei due protagonisti, Maurizio Cardillo e Francesca Mazza. A questa zona dialogata corrisponde una messinscena naturalistica, quasi una radiografia di interno borghese: la scenografia disegna una metonimica costruzione che ricorda i muri interni, e il pubblico osserva in posizione sopraelevata quasi come se si stesse assistendo a una moderna – o una odierna – esecuzione di una pena capitale, magari negli Stati Uniti.
Dall’altra parte, però, invade la visione un’immagine filmica proiettata proprio davanti al naso dello spettatore, composta quasi solo da primissimi piani, da dettagli sempre e solo in bianco e nero. Questa doppia articolazione, secondo me, ci fa assolutamente entrare in maniera pregnante dentro al testo, perché i testi di Koltès lavorano molto sulla mancanza: le caratterizzazioni dei personaggi sono in maniera evidente messe da parte. L’introspezione che è stata praticata da tantissimo teatro novecentesco, borghese, è rifiutata, e questo traspare in modo chiaro nella messinscena: la recitazione corale sfrutta i dialoghi e sfrutta un concetto di visione pacificata in cui tutti possiamo vedere e radiografare quello che succede. Ma, nel dialogo, non troviamo niente di rilevante: il non detto è forse quello che emerge di più.
L’immagine video, invece, raccoglie i monologhi dei personaggi, ma in questo caso la visione, per contrasto, è una visione assolutamente non trasparente: il movimento di macchina si fa vedere rendendo l’immagine opaca, slabbrata, facendo emergere questo contrasto registico e di senso a mio avviso del tutto pregnante.
Se nel testo balena una stringente attualità di fronte alle recenti fibrillazioni identitarie d’Oltralpe, lo spettacolo reca una profonda impronta artistica del regista, che su quella scena sprofondata, come su una scacchiera, muove le sue tredici pedine. Tanti sono, infatti, gli attori impegnati nelle quasi tre ore di spettacolo: dimensioni ragguardevoli e, anche se si sente la mancanza di un colpo d’ala nella seconda parte, dimensioni che contano, specie in tempi di teatro dietetico come i presenti. I due protagonisti sono impersonati da Maurizio Cardillo e Francesca Mazza, l’uno vivacissimo e sensibile al pubblico pur nella lontananza imposta dall’allestimento, bravissima l’altra anche sui toni esasperati e gli alti volumi vocali del suo eccessivo personaggio. Intorno a loro Maria Grazia Ghetti, Angela Malfitano, Sara Kaufman, gli altri con rendimenti diseguali, ma nessuno rema contro.
Ritorno al deserto, penultimo testo di Koltès (Roberto Zucco uscì postumo), avrebbe potuto intitolarsi Ritorno dal deserto: dall’Algeria, appena scoppia la guerra di liberazione, torna in Francia con i suoi due figli, Edouard e Fatima, Mathilde Serpenoise. Ella torna dal fratello Adrien, un industriale che vive asserragliato nella casa che in realtà appartiene alla sorella. Alla morte del padre, Mathilde scelse la casa e al fratello toccò la fabbrica, ma poi fu costretta a fuggire in Africa. I due punti, che si riflettono l’uno nell’altro, sono loro: sono in lotta ma si attraggono in quanto uguali e contrari. Adrien è, come ho detto, chiuso nel suo fortino – e qui lo spettacolo di Adriatico, con la scena di Maurizio Bovi, dà il doppio senso di sé: la casa è un fortino costruito con mattoni forati, però disposti a formare un labirinto che noi spettatori vediamo dall’alto, in sezione, con un effetto di claustrofobia e, insieme, di indefinibile apertura. Mathilde vi irrompe, nel fortino-labirinto, come se con l’aria secca e pulita del deserto dovesse spazzarne i miasmi. Ma il deserto, anch’esso è minaccioso. Il deserto è una calamita, attrae irresistibilmente a sé chi ne abbia fatto esperienza.
In Francia, lo Stato ha importato a tradimento, a danno dei magrebini immigrati, la guerra che infuria in Algeria. Chi da lì sia fuggito, vi vuole tornare. Di nuovo il deserto appare un possibile orizzonte perché le cosiddette radici non sono che una circostanza, un nome: tra nome e cosa non vi è alcun rapporto di necessità.
L’andamento ironico, quasi brillante, della commedia di Koltès, con punte che oscillano tra Beaumarchais e Labiche, Jarry e Giraudoux, di colpo si fa sarcastico. Fatima ha dato alla luce due bambini e sono neri! Forse, tornare al deserto non è più urgente. Il deserto sta arrivando da noi. Come Koltès, e come rivelano gli obliqui e dorati tagli di luce che investono casa, fortino, labirinto e deserto, lo stesso Adriatico sembra pronto a riceverne i benefici. Tra gli attori, tutti che nascondono il panico con lo spirito, ricordo Francesca Mazza, Maurizio Cardillo, Maria Grazia Ghetti, Sara Kaufman, Angela Malfitano, Marco Matarazzo e Andrea Fugaro.
Gli spettatori guardano dall’alto un labirinto di mattoni traforati, immagine materiale della costruzione del testo, in uno spazio nitido coperto da uno schermo con visioni suggestive ma distoniche che sale e scende. Lento come il ruminare di chi assiste, di chi cerca di mettere insieme. Il lungo spettacolo rende infatti i lampi ma anche la fatica di una scrittura incompiuta. A tratti sembra compattarsi intorno al ritmo di una macchina avviata, anche perché le prove di alcuni attori (bravissima Francesca Mazza, inquietante e gnomesco Maurizio Cardillo, sempre inventiva Angela Malfitano) paiono abbreviare il cammino. Ma c’è qualcosa di meccanico nel generoso impatto dello spettacolo, che lentamente affiora quadro dopo quadro. Soprattutto nella seconda parte, praticamente un seguito di monologhi. Forse, alla fine, vince l’irrappresentabile. Adriatico ci aveva già provato con Pasolini, e dal corpo a corpo era uscito senza troppi acciacchi. Qui gli va un po’ peggio, ma il merito di essersi misurato con qualcosa che trascende il teatro vale e parla per sé.