Il mio amico Hitler

di Yukio Mishima
traduzione Guanda Editore

uno spettacolo di Andrea Adriatico

con
Antonio Anzilotti De Nitto
Francesco Baldi
Giovanni Cordì
Gianluca Enria

e con la partecipazione amichevole e straordinaria di
Marco Celli, Matteo Curseri, Lorenzo Pacilli

scene e costumi: Andrea Barberini, Giovanni Santecchia
trucco: Enea Bucchi
cura e aiuto: Saverio Peschechera, Miriam Auricchio
immagine e grafica: Daniela Cotti, Filippo Partesotti
tecnica: Lorenzo Fedi, Anna Chiara Capialbi, Giovanni Iaria

una produzione Teatri di Vita
in collaborazione con Cuore di Tokyo Festival
con il sostegno di Comune di Bologna, Regione Emilia-Romagna, Ministero della Cultura

Prima nazionale: Bologna, Teatri di Vita, festival “Cuore di Tokyo”, 25 settembre 2019

Adolf Hitler, il delfino Ernst Röhm, il politico Gregor Strasser e l’industriale Gustav Krupp: un poker di potenti nella Germania del 1934, all’alba della feroce dittatura nazista. Le loro parole scavano nella complessità di quel momento e dei diversi punti di vista: una tragedia verbale che sfocerà nella Notte dei lunghi coltelli.
Chi è “il mio amico” Hitler? Perché emana fascino e seduzione? E quali sono le suggestioni che legano gli ultimi scampoli della Repubblica di Weimar con i nostri tempi?

Dopo aver sondato la scrittura in versi di Mishima nell’opera tutta femminile “Madame de Sade”, Andrea Adriatico affronta il dramma gemello tutto maschile, che l’autore giapponese aveva costruito, innescando un rimando alla lontana tra la Rivoluzione francese e l’ascesa al potere di Hitler.

Sguardi Social

Non c’è civiltà nell’equilibrio. Come tutte le categorie all’apparenza accomodanti e simmetriche, il centro rispecchia la vera legge del capitale, il cui principio subdolo e violento è l’astrazione da tutto ciò che è peculiare, da tutto ciò che contiene un anthropos pulsante di vere istanze incarnate nella vita della gente. A dircelo è lo spettacolo sublime di Andrea Adriatico, Il mio amico Hitler. Un allestimento teatrale senza sbavature, impeccabile, come le parole di Mishima, il quale aveva capito, come Pasolini d’altronde, che la vera battaglia ingaggiata nel nuovo secolo non sarebbe stata fatta tra tradizione e modernità, o tra dittatori criminali e democrazie liberali, ma tra anthropos e alta finanza, tra emozione pulsante e capitale, quel capitale che per sua natura ha il potere di muovere le masse e al tempo stesso stempera ed accomoda ogni istanza per trasformarla in merce di scambio, in giusta causa per la la sua incondizionata volontà di potenza.
Hitler, il nostro amico, appare qui nella sua matrice riproponibile, quasi a porsi paradigma di tutto ciò che la politica occidentale ha generato dopo. Un mostro dalla crudeltà quasi ineluttabile, che per godere del plauso scavalca ogni etica, ogni millantato principio di lealtà.
C’è sullo sfondo, l’industriale dell’acciaio, pronto a quotare in borsa x prospettiva il valore spasmodico della supremazia. E c’è anche, mentre si è immersi in dialoghi densi e emozionanti, una strana luce che cala nelle nostre obsolete categorie, che ci costringe ad uscire da noi per ripensare la storia. Hitler, Mussolini…. Andreotti… si passano mentalmente in rassegna i grandi nomi del potere, mentre le scene, di una bellezza straordinaria, ci incantano come l’acqua della piscina che sembra volerci purificare tutti, e invece poi ci lascia ai bordi, un po’ più desolati e esterrefatti. Per quanto sia viva la nostra fantasia di tuffarci a triplo salto nell’acqua della cittadinanza capiamo presto il ruolo di quelle pistole a bordo vasca e ci sono da monito le parole di Mein kampf.
Grazie ad Andrea Adriatico e alla sua fantastica squadra di attori.
Grazie per questo bellissimo e raro teatro.

Applausi per Il mio amico Hitler. Bello il lavoro sul testo di Mishima che attraverso le conversazioni fra i protagonisti dipana le logiche perverse del potere del passato che risuonano nel presente. In una scenografia che ricorda David Hockney e nella punteggiatura affidata ai Placebo si legge in filigrana la dinamica maschile e virile che domina ancora la politica contemporanea

Visioni critiche

Non solo le opere di Yukio Mishima, ma, più in generale, l’intero teatro giapponese, anche quello moderno – sia che tragga le origini direttamente dal No o dal più semplificato Kabuki – non è per tutti. L’essenzialità delle scene e l’ampio spazio dato alla parola – che si esprime in un linguaggio sottile e serrato, in dialoghi che apparentemente non hanno molto, se non nulla di poetico e di lirico – per lo spettatore, non è sempre facile afferrare l’essenzialità dei contenuti. Poi, se a complicare il tutto interviene anche il titolo, il rischio di assistere a uno spettacolo banale, travisato e, in questo caso, magari insopportabilmente “corretto politicamente” è altissimo. Il caso, ovviamente, è quello de “Il mio amico Hitler”, portato sulle scene in questi giorni da Andrea Adriatico e che ha raccolto già un ampio consenso di critica e di pubblico con la “prima” e con le prime repliche “Teatri di Vita” di Bologna.

L’opera, pensata dal grande scrittore giapponese come un complemento di “Madame de Sade”, non si presta, per il tema trattato, al riempimento della scena con vestiti ricchi ed eleganti del Settecento, per cui è lo stesso Mishima a sperare – raccomandandosi ai registi – che , conscio, però, come questo sia . Ecco, allora, in cosa principalmente ha dovuto misurarsi Adriatico: nel casting, nella ricerca di quattro interpreti in grado non solo di mandare a memoria e recitare i lunghi monologhi e i serrati dialoghi tra il “cancelliere” neo eletto, Rohm, Strasser e Krupp, ma anche di renderli – con le movenze del corpo – credibili e naturali agli occhi di chi guarda, come che assista a un documentario sulla “Notte dei lunghi coltelli”, e, allo stesso tempo profondamente psicologici, tali da restituire pienamente le emozioni, i sentimenti e le malizie di cui ciascuna figura è archetipo.

Per di più, aiutandoli a calcare la scena col solo aiuto di un velo di cerone colorato sul viso: bianco e nero, come i pezzi opposti della stessa scacchiera, sui volti di Hitler e Krupp; verde, a colorare una metà speculare delle facce di Rohm e Strasser. E Adriatico, ma non è una novità, è stato superbo nella scelta di un quartetto – Gianluca Eria (Hitler), Francesco Baldi (Rohm), Giovanni Cordi (Strasser) e Antonio De Nitto (Krupp) – capace di restare fedele al testo, proposto in versione praticamente integrale, senza tagli del benché minimo rilievo, e di muoversi agilmente in una scenografia che, in alcune parti, invece, è molto dissimile da quella immaginata da Mishima – a partire dal secondo e terzo atto ambientati ai bordi di una piscina -, ma perfettamente attagliata al tema.

Un effetto significativo, nell’economia complessiva dello spettacolo, lo produce anche la scelta delle musiche Alternative-rock, dalle sonorità Punk e Glam, dei “Placebo”, gruppo che, se piacque a David Bowie già al suo esordio nei primi anni ‘90, tanto da sceglierlo come band di supporto nel tour “Outside tour”, non sarebbe certo dispiaciuto al drammaturgo di Tokio. Due, infine, i nodi della trama che avvinghiano principalmente lo spettatore: da una parte, il sottile, complicato filo tra amicizia e ambizione al potere, che è anche un confine, però, un limite tale da portare fino alla disperazione; dall’altra, la riflessione sulla violenza e la potenza delle spinte degli uomini e della cariche rivoluzionarie della storia, che sconfinano nel cinismo e finanche nell’orrore. Ed è specialmente questo secondo tema di riflessione che rende ancor più attuale e raccomandabili al pubblico la visione di questo spettacolo magnificamente allestito e diretto da Adriatico: poiché l’Hitler di Mishima non è necessariamente quello storico, ma il e non meno fosco appare oggi il XXI, con le spregiudicate e ipocrite manifestazioni di “buoni sentimenti” che tornano a offrire al mondo, come recita il Krupp, “un mazzo di fiori finti, di acciaio”.

Torna in scena in questi giorni uno spettacolo che si è visto poco in giro, ma che merita una riflessione. Intanto perché è molto difficile trovare nei nostri teatri allestimenti tratti dalle opere del giapponese Yukio Mishima, che si suicidò pubblicamente seguendo il rituale samurai “seppuku” (trafiggendosi cioè il ventre e facendosi decapitare). E poi perché il testo scelto dal regista Andrea Adriatico contiene dei rimandi all’attualità che dovrebbero illuminarci. “Il mio amico Hitler”, spettacolo prodotto da Teatri di Vita di Bologna e tratto dal libro tradotto da Guanda, è stato scritto da Mishima nel 1968. L’autore stesso interpretò la parte di Hitler (recitava spesso le sue opere) e immagino un cast tutto al maschile, indicazione a cui rimane fedele anche Adriatico, che tra l’altro nel 1999 mise in scena anche “Madame de Sade”, sempre di Mishima, una sorta di dramma gemello de “Il mio amico Hitler” con personaggi esclusivamente femminili.

Cosa racconta questo spettacolo? L’ascesa del Führer fra intrighi, massacri, interessi economici e giochi di potere, un racconto che parte dal 1934, pochi giorni prima della “Notte dei lunghi coltelli”, in cui morirono per mano delle SS almeno un centinaio delle SA, le “camicie brune”. Adolf Hitler (Gianluca Enria), il delfino Ernst Röhm (Francesco Baldi), il politico Gregor Strasser (Giovanni Cordì) e l’industriale Gustav Krupp (Antonio Anzilotti De Nitto) hanno strategie e visioni diverse della politica. Mentre Strasser spinge verso nuove alleanze, Hitler vuole agire da solo, accecato dalla sete di potere. L’apertura dello spettacolo è affidata al discorso che il Führer rivolge al popolo tedesco, immerso nel buio di una scenografia geometrica e cinematografica. Ma il colpo di scena arriva con il secondo atto, quando lo spettatore si ritrova sul palco una piscina. Gli attori recitano a mollo e proprio lì, in quelle acque, Strasser prova a convincere Röhm che bisogna rimuovere Hitler prima che lo faccia lui. Ma Röhm lo respinge nel nome dell’amico Hitler, che come noto lo tradirà. Nell’ultimo atto, forse il più bello, vediamo Hitler avvolto in un asciugamano bianco, disteso sul lettino a bordo piscina, con Krupp in versione freudiana al suo fianco. A mollo, però, stavolta ci sono tre giovani: è il nuovo che avanza? Difficile non pensare ai gruppi neofascisti che di recente si sono radunati a Milano. Ecco perché questo testo ci riguarda ancora.

Certamente questa quasi prima nazionale a Teatri di Vita, stante una sola messa in scena antecedente del’94, de:Il mio amico Hitler da Mishima, testo teatrale del 1969, decisamente più fortunato all’estero che da noi, è lo spettacolo che maggiormente si distanzia dagli altri per una serie di rischi calcolati che si assume, per la sapienza stilistica e iconografica che lo contraddistinguono, per la artificiosità delle parole, tante, che vengono dette in scena, se pensiamo che si tratta di una misura da tragedia in tre atti e di una durata complessiva poco inferiore alle tre ore.
Non sarebbe esatto dire che volino, ma l’effetto complessivo, contro i temuti cali di tensione, è sorprendentemente compatto e ipnotico, tale da tenerci li, su una storia che è tragicamente storia vera, ma anche rielaborazione contemporaneamente intrisa di classicismo e idealismo delle nostre ragion d ‘essere come occidentali, del fondamento etico della politica, cosi quotidianamente disatteso oggi come allora. Gli atti sono scanditi dalla musica rock vagamente decadente dei Placebo che ci parla di amicizia tradita e dalla inquietante lettura a video di alcuni passi dalla bibbia per eccellenza del nazi pensiero, quel Mein Kempf da subito e sinora tra i libri più letti o almeno acquistati al mondo.
Lo spettacolo si avvale non soltanto dell’apporto virtuosistico di un gruppo di lavoro costituto ad hoc sul progetto, degno coronamento del festival Cuore di Tokio e ideale anticipazione di un convegno prossimo venturo indetto da Alma Mater ai 50 anni dalla morte spettacolarizzata dello stesso controverso Mishima, avvenuta il 25 novembre 1970 tramite suicidio rituale, ma anche di un autentico colpo di teatro-design, per cosi dire, che accentua naturalismo e simbolismo insieme e costringe gli attori tutti concentratissimi e in parte, a recitare anche in acqua come in una sorta di grottesco show da tregenda, talvolta lambito da luci graficamente fredde, talvolta crepuscolari come in un quadro di Hopper e, come in un vera piscina termale.
Nella notte dei lunghi coltelli, che è anche la prefigurazione di un obnubilamento delle coscienze del 900, gli affari di stato, le dialettiche tra poteri forti, le deliberate restrizioni di diritti universali e libertà individuali e di costume con le conseguenti pianificate carneficine si intrecciano ad ambiti privati quantomai politici e intinti di morbosità. Andrea Adriatico lascia intendere che l’unità di luogo e tempo artificiosamente ricreata rappresenti una sorta di universo concentrazionario da cui non siamo mai usciti essendo posti sotto la dittatura onnipervasiva del mercato e dell’interesse economico, tanto che il solo industriale dell’acciaio Krupp, figura appartata, ma chiave di volta del precipitare degli eventi, rimane non solo vestito di tutto punto, ma anche significativamente estraneo all’acqua.
Perché ci sarà sempre qualcuno come lui a far indirettamente eliminare le ali estreme dell’agone politico da destra e da manca, agendo una violenza anche maggiore delle stesse. Il fuhrer non è Amleto anche se insonne nei suoi arrovellamenti, perché come in una favola noir, il finale è già scritto e come a teatro, importante è stabilire il kairos, il momento opportuno, la tempistica e il dove di un epilogo deciso dal principio.
E il dove è lo stabilimento termale di Bad Wiessee, che ci ricollega ad un classicismo da congiurati della latinità, sottolineato in qualche misura dal telo-toga che riveste Hitler ormai incoronato Presidente e consegnato per sempre alla Storia maiuscola, sdraiato su un lettino triclinio da falsa autocoscienza. Storia politica forse da interpretare ormai, sembra suggerirci il nostro regista-autore,piu con strumenti di indagine psicanalitica che con discipline secondo tradizione, tanto marcata è l’ossessione verso un centro, che forse non esiste come assoluto ed assomiglia pertanto ad un vertiginoso erotico vuoto in grado di risucchiare qualsiasi illusione di democrazia possibile.
Adriatico non è nuovo a messinscene da Mishima, autore all’estero forse discusso e discutibile, ma certo meglio conosciuto nei diversi risvolti della sua ricchissima produzione anche teatrale, essendosi cimentato ormai diversi lustri fa con l’enigmatica Madame de Sade, già cavallo di battaglia sulle scene di Ingmar Bergman e riconosciuto come capolavoro del teatro giapponese contemporaneo. Tuttavia, in questo caso, la pregnanza del lavoro sta in un sentimento appunto di riflessione amareggiata, una sorta di trarre le conclusioni sulla seconda metà del secolo scorso, sull’idea dissipata di rivoluzione che lo apparenta strettamente con recenti altre piece da Sartre o dedicate alla storia prossima, rimossa, degli anni ’70 come Chiedi chi era Francesco: le porte chiuse del filosofo francese diventano poi quelle di un’auto da cui ascoltare la radio e confessarsi sulla vita da sopravvissuti che consuma ogni illusione.
Raggiunto al telefono, Adriatico mi conferma come una suggestione importante per lui di questi tempi sia stata proprio il fatto che uno testo teatrale ambientato agli albori del nazismo sia stato scritto nel 1969, in una modalità non già da passatista nazionalista, ma da veggente rispetto ad un mondo destinato ad omologarsi e privarsi delle sue identità sentimentalmente più forti. In generale in questo momento il nostro artifex è interessato a leggere il presente con strumenti storici per capire soprattutto il grande interrogativo rappresentato dagli anni settanta, un decennio quasi colpito da una damnatio memoriae selettiva. L’auspicio è che molti giovani vedano questo particolare spettacolo e abbiano voglia di discuterlo :in soli tre giorni di rappresentazione, i riscontri in questo senso sono stati notevoli ed è quasi sicura una ripresa, mentre non sembra semplice la programmazione di una tournèè viste le difficoltà tecnico logistiche che comporterebbe un riallestimento altrove.

Un Hitler insolito, centrista ma spietato, arcaico ma patinato, un uomo che ha voltato le spalle alla rivoluzione e al popolo diventando un affarista che reprime i suoi istinti in nome del potere. Andrea Adriatico apre la stagione di Teatri di Vita con una produzione molto interessante: uno spettacolo in tre parti, in cui il Mein Kampf fa da sfondo ad una rappresentazione allegorica di un fenomeno storico, ma in fondo di dinamiche umane profondamente annidate nell’inconscio.
Il nazismo oltre la divisa con un’ispirazione al testo ‘Il mio amico Hitler’ di Yukio Mishima. Dura appena un atto la messa in scena della retorica, dei discorsi, del potere ufficiale, che allo spettatore arriva frammentato e ripetitivo come uno dei tormentoni della pop art di Warhol. Gli schermi, la massa, la propaganda: una prima parte molto verbosa, con uno scenario molto minimal, che si consuma nella presentazione delle anime e dei personaggi che si cristallizzano attorno al potere. È una partenza lenta, probabilmente per creare il crescendo che arriva nel secondo e nel terzo atto.
L’occhio del pubblico ritrova il palcoscenico cambiato, stravolto, dominato dalle acque di una piscina che trasforma il punto di osservazione, l’atmosfera. Sembra di essersi spostati nella contemporaneità di una serie tv di intrighi e di un loft newyorchese. Corpi che lottano ma che si abbracciano: Hitler sta preparando la Notte dei Lunghi Coltelli ed è contrastato da un’oscillazione di odio e amore per Rohm, croce e delizia della sua ascesa al potere.
Una nuova lotta-abbraccio vede uno scontro incontro tra Strasser e Rohm. L’anima di sinistra e di destra del nazionalsocialismo tedesco provano a non reprimere l’istinto, la forza primigenia della rivoluzione a cui hanno dato corpo e mente. Lo spirito cameratesco e la fedeltà del capo delle SA lo acceca, gli impedisce di capire quello che invece l’anima socialista e internazionalista di Strasser coglie con lucidità. Hitler per diventare Fuhrer si libera dei nemici e con l’aiuto del capitalismo di cartello di Krupp si accredita alla nazione come l’uomo della pace e della moderazione, il Messia che fa risorgere l’economia dopo la pugnalata alle spalle.
Il capitale che porta in equilibrio lo status quo è rappresentato allegoricamente dall’imprenditore che diventa quasi psicanalista, che detta le condizioni di repressione degli istinti della rivoluzione, che rende schiavo il regime nei confronti delle logiche del mercato della guerra. Hitler, nonostante l’ascesa, si infiacchisce e si umilia contenendo le sue pulsioni, che guarda con occhio periferico, confinate al silenzio.
L’uomo che con la propria forza doveva cavalcare le onde della storia nella lettura di Adriatico si appassisce come un democristiano qualunque che ha piegato la sua violenza e la sua tensione agli interessi della grande industria che ha contribuito a portarlo al potere. Perde il suo vigore e si riduce ad un esecutore che cede alla tentazione del compromesso, simboleggiata dalla mela addentata, e fa l’elogio delle politiche moderate. È la storia dei nazifascismi del Novecento che dopo un esordio proletario e popolare sono diventati i paladini dell’interesse dei grandi monopoli industriali e agrari.
Le scelte degli abiti e dei costumi acquistano una valenza profondamente simbolica. Strasser è l’unico a non tingersi di nero: il suo bianco evoca quasi l’agnello sacrificale, sublima il sacrificio del popolo agli interessi del capitale. Nella sfida con Rohm soccombe fisicamente, in qualche modo anche evocando una umiliazione di genere, nella migliore contrapposizione tra maschile e femminile della retorica nazista.
Sala piena e commenti positivi: molto apprezzata l’idea di scavare in maniera storica e psicanalitica sul retrobottega del potere. Molto forte l’impatto visivo nella scelta di traslare le dinamiche da caserma nel patinato lusso quasi termale della piscina. Ben calibrato il contrappunto delle citazioni per sottolineare la ferocia razzista ma anche la spregiudicatezza umana. L’Hitler della lettura di Adriatico non lascia spazio a romanticismi cameratisti e diventa un caso di studio sulle dinamiche di potere e sottomissione, interiori e collettive.

All’età di quarantacinque anni, il 25 novembre del 1970, Kimitake Hiraoka, al secolo Yukio Mishima, con i più fidati membri del Tate no Kai, l’associazione paramilitare da lui fondata, occupa il quartier generale delle forze dell’autodifesa giapponesi. In diretta televisiva, con le telecamere puntate sul balcone dell’edificio tiene il suo ultimo discorso. Lo scrittore non riusciva più a tollerare l’incedere degli Stati Uniti nella politica interna giapponese e la soggezione alle Nazioni Unite, che piegarono la sacralità della figura dell’imperatore rendendolo al pari di ogni uomo, così come rivoluzionarono le usanze trasformandole in tradizioni. I valori più nobili della vita, non la libertà, non la democrazia, ma la perdita dello spirito del Giappone imperiale si erano estinti con il trattato di San Francisco che aveva sancito la subalternità della patria alla potenza americana. Yukio Mishima compì il suicidio rituale dei samurai, il seppuku, dopo aver inneggiato all’Imperatore, trafiggendosi il ventre e facendosi decapitare.
Un idealista, un nazionalista che intendeva recuperare l’etica Giapponese trasformando il suo messaggio in un manifesto di rivolta, sancendo con il suicidio, la scomparsa dell’ultimo erede della tradizione nipponica. «Il problema “Hitler” si ricollega da un lato all’essenza stessa della civiltà del XX secolo, e dall’altro agli oscuri abissi della natura umana» scrive l’autore due anni prima del gesto eclatante, giustificando la pubblicazione del volume “il mio amico Hitler” che aveva attratto le critiche sia di quei progressisti che lo avevano considerato vicino al Fascismo, per le sue idee nazionaliste nipponiche in chiave nostalgica, sia dei conservatori, per via della sua presunta bisessualità e dell’astratta apoliticità, o antipoliticità, come egli stesso l’aveva definita.
Oggi li dramma torna in teatro e debutta per la regia di Andrea Adriatico a Teatri di vita, Bologna, nell’ambito del festival “Cuore di Tokyo”, Adriatico che non è nuovo alle regie dell’autore giapponese, vent’anni fa aveva allestito anche Madame de Sade.

La storia è ambientata nel giugno del 1934 e racconta, facendo dialogare direttamente i protagonisti in lunghi e fittissimi periodi narrativi che sono il vanto degli attori, le vicende antecedenti alla “notte dei lunghi coltelli”: quella tra il 29 e il 30 giugno 1934, che rappresenta il culmine di un conflitto interno al partito nazista nella quale la compagine sinistrorsa delle SA, guidata da Ernst Röhm e difesa da Gregor Strasser, viene trucidata. Era questo l’inizio delle leggi che di fatto hanno autorizzato, senza possibilità di giudizio posteriore, qualunque azione che Hitler ritenesse necessaria “a difesa dello stato”, la concretizzazione dei punti programmatici espressi nel “Mein Kampf”, l’inizio della campagna repressiva (che in realtà aveva avuto inizio in modo ufficioso fin dal 1933).
Sono Strasser e Röhm i due protagonisti del testo di Mishima e della rappresentazione di Adriatico, interpretati rispettivamente da Francesco Baldi e Giovanni Cordì, che impiega un intero atto di 55’ per sfuggire ai tentativi di persuasione dell’altro di non cedere alla strategia tutta hitleriana, volta alla costruzione di un regime totalitario, di creare l’illusione di una politica moderata, annientando destra e sinistra con la forza. Sia la recitazione che la caratterizzazione dei protagonisti, però, vanno in un’unica direzione: quella di connotare quanto più aderentemente possibile da una parte l’estetica stilistica dell’autore, dall’altra la sua “mistica omosessualità”. Se la scrittura è infatti molto estetizzante, ricca di artifici linguistici e retorici, la resa recitativa non fa che enfatizzarne l’ampollosità, facendo sicuramente notare l’incredibile capacità mnemonica degli attori ma non quella dello spettatore che viene fagocitato da interi capitoli monocordi e esasperati.
Se, di fatto, sia lo scrittore che il colonnello generale delle SA erano accomunati dall’aver represso per obblighi sociali, ma anche per una radicata idea di dignità e di onore, il loro orientamento sessuale, dalla visione dello spettacolo non emerge questo tipo di conflitto interiore, che potrebbe essere un dato piuttosto rilevante rispetto a uno dei temi cardine, ovvero la fedeltà verso i rapporti amicali, affettivi. Dopotutto, l’intera vicenda è incentrata sulla volontà di Rohm di non tradire in alcun modo “il suo amico Hitler”, Gianluca Enria, e sullo stesso Hitler che rassicurava il capo delle SA: «Quando diverrò presidente, sarà facile trovare il modo per affidarti l’intero esercito. È necessario avere pazienza fino a quel giorno: vorrei che tu affrontassi insieme con me anche le situazioni più critiche. All’apparenza siamo un cancelliere e il suo brillante ministro, ma poiché condividiamo un indicibile tormento, è come essere tornati al 1923, all’epoca delle fatiche di Ercole». Ma si percepisce neanche troppo velatamente una spettacolarizzazione di atteggiamenti stereotipati, un melò che, invece, Mishima stesso, rifugge categoricamente, affidando l’intero scheletro della trama agli intricati giochi di potere di quello che considera uno stratega senza precedenti. Persino il tavolo delle trattative è portato al parossismo: le macchinazioni militari, le rivelazioni di pericolose ideologie e gli strazianti tentativi di arginamento, vengono tutti compiuti all’interno di una piscina, che il pubblico accoglie con un estemporaneo “ooooooh!”, costruita di tutto punto dentro un piano scenico elevato che ospita la vasca e la nasconde completamente lasciando focalizzare l’attenzione sui giochi d’acqua degli attori che nell’atto di prendersi per il collo dalla foga della propria arringa, trovano indispensabile riavviarsi i capelli. Un coup de théâtre, quello della scatola acquatica, che però rimane fisso in scena dopo il suo svelamento per due atti e costituisce sul finale una cornice costituita da tre uomini immersi, silenti e seriosi nell’atto di divagarsi dalle fatiche militari mentre il genio politico hitleriano si disvela in un’autopsicanalisi condotta alla presenza del diplomatico tedesco Gustav Krupp, in scena Antonio Anzillotti De Nitto.
Chi è “il mio amico” Hitler? Perché emana fascino e seduzione? E quali sono le suggestioni che legano gli ultimi scampoli della Repubblica di Weimar con i nostri tempi? Sono i quesiti che il testo di sala pone al pubblico, e che spaventano fino all’inorridimento: perché Hitler è stato il mandante di un numero di assassini talmente alto al punto di non essere pienamente quantificabile e non potrebbe che emanare fascino e seduzione soltanto in quelle personalità psicotiche dominate da un sistema delirante che li avvicina suggestivamente a degli antisemiti demonologici, violentemente razzisti, fedeli al proprio antisemitismo culturale e che considerano giusto il massacro. E nonostante il pubblico sappia che l’aver messo in scena un dramma che lo riguarda non significa necessariamente considerarlo un eroe o amare la sua figura al punto da volerne invidiare le sue doti di stratega; nonostante sappia che il messaggio è indirizzato a tutti coloro che pensano che il vero dramma sottenda a tutte quelle posizioni politiche neutre e non ben identificate, vogliamo credere anche che questa messa in scena non individui nei nostri tempi un qualche tratto comune con gli ultimi scampoli della Repubblica di Weimar.
Proprio perché l’instaurazione di quella Repubblica fu il tentativo di stabilire una democrazia liberale che si concluse con l’effettiva distruzione di tutti i meccanismi forniti da un ordinario sistema democratico, ponendo le basi per quel governo totalitario di estrema destra dalle forti connotazioni nazionalistiche, militaristiche e antisemite, che sfociò nello sterminio di tutte le categorie di persone ritenute “sub-umani indesiderabili” per motivi politici o razziali.

Yukio Mishima interpretò il ruolo di Hitler quando, l’anno dopo aver scritto Il mio amico Hitler (1968), il testo andò in scena. Nel 1970 lo scrittore, figura controversa della letteratura asiatica, si suicidò pubblicamente, il giorno dopo aver terminato la sua tetralogia Il mare della fertilità. Di opere teatrali ne aveva scritte una sessantina, e spesso le recitava lui stesso con ruolo da protagonista.
In Italia quest’opera mancava da tempo: la portò in scena nel 1994 al Teatro Nuovo di Napoli Attilio “Tito” Piscitelli, con il contributo di Antonio Latella e Danilo Nigrelli, pochi anni prima di essere brutalmente ucciso in Brasile per una rapina.
È dunque meritoria la decisione del regista Andrea Adriatico di riproporlo, in occasione del Festival dedicato alla cultura giapponese Cuore di Tokio, ospitato a Bologna da Teatri di Vita da agosto a settembre 2019.
Adriatico aveva avuto in passato a che fare con suggestioni teatrali sia su Mishima che sulla figura di Hitler. Quasi al principio dell’esperienza di Teatri di Vita, infatti, ad inizio anni 90, aveva rappresentato una “trilogia della clonazione”, il cui primo spettacolo fu appunto Ferita. Sguardo su una gente dedicato ad Adolf Hitler.
Poco dopo, quando l’iniziativa culturale si stabilì definitivamente nella nuova e più ampia sede nella periferia di Bologna, rappresentò invece Madame de Sade di Mishima. Da una delle scene di questo lavoro, peraltro, il regista realizzò poi il suo primo cortometraggio Anarchie.
Effettivamente Madame de Sade e Il mio amico Hitler erano opere legate, nell’idea del drammaturgo giapponese, il quale per il primo volle pensare solo a personaggi femminili e per il secondo a una storia al maschile.
Le vicende dello spettacolo sono quelle dell’anno 1934, dell’ascesa definitiva al potere di Adolf Hitler, e vengono raccontate in terza persona in un intreccio che vede il Führer (titolo che lui stesso si assegnò per legge in quell’anno, a seguito della morte del presidente del Reich Paul von Hindenburg) agire e portare a termine gli omicidi del suo braccio destro e capo delle Squadre d’Assalto Ernst Röhm, del politico del suo stesso partito Gregor Strasser e arrivare all’accordo con la grande industria tedesca, rappresentata nel testo dall’industriale Gustav Krupp: «un poker di potenti nella Germania del 1934, all’alba della feroce dittatura nazista» come in sintesi vengono descritti nel foglio di sala.
Chi sono queste figure? A metà degli anni ’20 iniziarono i contrasti all’interno del partito nazista sulla strategia politica da adottare per la prosecuzione delle attività. Da un lato Strasser che, per arrivare al Governo, considerava l’idea di una coalizione con altre forze politiche, avvicinandosi ad idee socialiste; dall’altro Hitler convinto di dover agire in solitaria, sia all’interno del partito, di cui voleva l’egemonia, sia all’interno dello scacchiere politico tedesco, ipotizzando una presa di potere senza alleanze, guadagnando il consenso delle classi imprenditoriali, dalle quali avrebbe potuto con facilità ottenere finanziamenti.
Con abile mossa, Hitler offrì a Strasser l’organizzazione e la gestione del partito nel nord del Paese, allontanandolo da Monaco e nominandolo inoltre, nel 1926, capo della propaganda. Ernst Röhm, capo delle Squadre d’Assalto, nel 1925, anche per via di uno scandalo sulla sua omosessualità, rassegnò le dimissioni ed espatriò in Bolivia. Hitler a quel punto costituì un’unità militare, le SS, capitanata da inizio 1929 dalla figura di Heinrich Himmler. Ma a seguito degli effetti disastrosi della crisi del ’29 e dell’aumento dei disoccupati, le tensioni in Germania e nel partito crebbero, con un grande disordine anche fra le milizie, tanto che Hitler assunse personalmente il comando delle SA e, nel 1931, richiamò in patria Röhm, al quale fu tuttavia immediatamente comunicata la decisione di rendere totalmente indipendenti le SS dalle SA; per distinguersi, le prime avrebbero vestito la nuova uniforme nera, in luogo di quella bruna delle SA.
Tre anni dopo Hitler avrebbe completato l’ascesa al potere, epurando fisicamente i suoi nemici interni nella famosa Notte dei lunghi coltelli, (Nacht der langen Messer, ricordata in Germania come Röhm-Putsch, secondo l’espressione coniata dal regime nazista).
Il testo di Mishima si ambienta proprio poco prima della notte della vendetta e inizia con Hitler (un maturo Gianluca Enria) che tiene un discorso al popolo tedesco, durante il quale Krupp e Röhm sono “dietro le quinte” per assistervi. Si parlano e discutono del “bouquet di ferro” che Krupp (Antonio Anzilotti De Nitto) usava metaforicamente per «mettere in moto grandi progressi nella storia umana», come il progetto di trasformare Hitler in un leader. Röhm e Strasser (Francesco Baldi e Giovanni Cordì) sono in dissidio, tanto che Krupp li definisce «cane e gatto».
La scena (disegnata come i costumi di rimando storico da Andrea Barberini, Michela De Nittis, Giovanni Santecchia) inizia al buio, illuminata da alcuni piccoli schermi su cui viene proiettato il comizio e che danno l’idea della grande città in lontananza: invece scopriremo essere tablet tenuti in mano dagli attori, che dialogano nella cancelleria durante il comizio stesso. Bella anche la scatola scenica in legno ispirata ad architetture giapponesi.
Hitler ritorna per avere dai presenti le impressioni sulla reazione della gente al discorso, appartandosi poi con Röhm con toni fintamente amichevoli, ma di fatto segnando la definitiva distanza fra i due.
Qui la scena è ferma, e i due interpreti sono nella stanza in un lungo dialogo a luce fissa. Statica la recitazione, con una gestualità un po’ ridondante. Nessuna variazione di luci.
Nel finale dell’atto Hitler anticipa a Krupp che ha preso le sue decisioni, ma questi gli risponde: «Adolf, non sei ancora all’altezza».
A segnare l’inizio e la fine degli atti, delle frasi estrapolate da Mein Kampf campeggiano sull’immagine disegnata per lo spettacolo, che viene proiettata sul telo antistante una scena visibilmente rialzata.
Capiremo a breve la ragione di ciò.
Il secondo atto si apre, infatti, con un poderoso eye-catcher scenografico: Röhm è nella Cancelleria, intento a fare il bagno in una piscina (vera, in scena, larga diversi metri quadri) per una colazione con il dittatore: gli ricorda i loro anni di lotta per assumere il potere politico; ma il tentativo di avvicinamento riesce solo a parole e ben presto Hitler lo lascerà solo.
A quel punto, nella finzione scenica, a bordo piscina arriva Strasser, che spiega a Röhm (che lo tirerà nella vasca con tutti i suoi vestiti) che occorre stare in guardia e che vanno messe da parte le loro differenze per rimuovere Hitler e continuare la “rivoluzione” tedesca, prima che il dittatore li uccida entrambi.
A un testo già di suo un po’ insistito fin quasi alla didascalia in questa parte, purtroppo non fa seguito una recitazione priva degli stessi vizi, e nemmeno scevra da alcuni fastidiosi inciampi di memoria, che di fatto impediscono anche ai due in scena di dare profondità ai personaggi – nella realtà ultra quarantenni all’epoca, dunque anche distanti per età dei giovani interpreti, che proprio dallo spessore recitativo dovrebbero guadagnare la credibilità che difetta nell’anagrafe.
La regia non gioca qui tutte le possibilità di disvelamento dei doppi fondi scenici e testuali, permettendo la ripetizione di alcuni movimenti che non sviluppano alcuna trasposizione simbolica, giocando i conflitti fondamentalmente sul piano fisico e vocale.
È qui che Röhm si fa beffe di Strasser, rifiuta la sua offerta e proclama la sua lealtà all’ “amico Hitler”, battuta che dà sardonicamente il titolo alla drammaturgia.
Come profetizzato da Strasser, infatti, le SS per ordine di Hitler nella notte fra il 30 giugno e il 1º luglio del 1934, decapitarono i vertici delle SA riuniti nella cittadina di Bad Wiessee con altri oppositori del regime.
Secondo i dati forniti il 13 luglio dallo stesso Cancelliere del Reich, furono assassinate 71 persone, ma si stima che il totale delle vittime fu ben superiore: tra le 150 e 200.
L’atto III ha luogo dopo la Notte dei lunghi coltelli. Hitler e Krupp si incontrano e certificano il nuovo equilibrio di potere, con Krupp che si dice pronto a lasciargli «tutto il potere senza alcuna preoccupazione». Il dittatore, coperto solo di un asciugamano come un imperatore romano, è steso su un lussuoso lettino di pelle, lungo, mentre l’industriale dal volto grigio, gli siede di fianco, quasi in posizione da analista.
A mollo in piscina non più i due ex sodali di partito, ma tre baldi giovani, la nuova burocrazia: restano muti con la loro sola presenza i tre bei fusti a mollo (Francesco Martino, Lorenzo Pacilli, Damiano Pasi).
In alcuni gesti, ben misurati, nel migliore fra i tre atti, sia per interpretazione che per intenzione registica, si rivelano i nuovi equilibri di potere di una nazione che ha saldato i suoi conti interni ed è pronta a dichiarare guerra al mondo. Tornano i tablet in scena a riprendere il volto del Führer, in modalità asincrona, stile Enrico Ghezzi in Fuori orario, per capirci.
Mishima, autore anche controverso per le sue simpatie politiche, sembra qui sottilmente alludere a come non si arrivi ad una dittatura senza il saldarsi, dietro le figure politiche, di interessi strategici economici forti, i veri motori dell’azione criminale, capaci di armare il braccio di questo o quel fantoccio di turno e di fare carne da macello di tutto il resto. L’intenzione espressionista di rimando al codice pittorico dell’epoca, e richiamata anche dal singolare trucco di Enea Bucchi, riporta alla doppiezza dei personaggi, al loro perenne recitare sé e il contrario di sé in ogni momento.
Il mio amico Hitler ha ancora bisogno di un ampio rodaggio per affinare innanzitutto le intenzioni del recitato, e probabilmente anche per consentire i necessari interventi registici, al fine di favorire una lettura ulteriormente dinamica, specie nelle parti in cui il testo si allunga senza particolari vibrazioni: un bisogno dunque di decisioni, anche nette, e di amalgama fra le componenti più stabili dell’impianto scenico.
In fondo è la stessa cosa che spiega Mishima di quanto occorse ottanta anni fa: quando si arriva ai momenti cruciali, serve qualche scelta ferma e un po’ di spietatezza.
Che in queste prime repliche manca.

Nella sala buia di Teatri di Vita, nel Parco dei Pini a Bologna, riecheggia solenne, e acclamata dal popolo tedesco, la voce tagliente del Führer affacciato al balcone della cancelleria, è il 1934. Nella sala antistante, tre personaggi attendono un’udienza col futuro dittatore: sono Ernst Röhm, capo delle truppe d’assalto, un contingente di tre milioni di uomini che mette in pericolo l’accentramento di Hitler, ma questo il sognatore Röhm non lo sa, abituato a «giocare alla guerra», fedele al suo capo e alle armi e legato ad Adolf da un’amicizia fraterna, non capirà mai, nemmeno in punto di morte, il grande disegno dell’«artista», così era solito appellarlo, Hitler; nella sala, convocato dal Führer, attende anche Gregor Strasser, politico di lungo corso e caduto in disgrazia per le simpatie socialiste, è l’unico, insieme al perfido e opportunista Krupp, il magnate dell’acciaio e quarto attore della pièce di Mishima, ad aver compreso le reali intenzioni di Hitler, ma a nulla varranno i suoi tentativi di avvertire il cocciuto Röhm, e con esso perirà nella tremenda ‘Notte dei lunghi coltelli’. Hitler, in preda all’insonnia, nella notte tra il 30 giugno e il 1° luglio, aiutato da un Krupp, confessore-psicanalista, ripercorrerà le ragioni e gli eventi che lo hanno costretto a eliminare Destra e Sinistra, auspicando che «la politica segua la via di centro».

Lo spettacolo, diretto da Andrea Adriatico (direttore artistico con Stefano Casi di Teatri di Vita), sembra rispettare fedelmente il testo di Mishima sia nella scansione in tre atti, sia nei dialoghi, nei quali non si riscontrano tagli sostanziali; di contro, ciò non accade per le didascalie delle indicazioni di scena dell’autore giapponese, rimaneggiate dalla fantasia del regista in un cambiamento strutturale che non può che stupire lo spettatore. Per evitare svelamenti, mi limiterò a registrare un forte odore di cloro, al rientro in sala dopo l’intervallo, tra primo e secondo atto.

Ciò che colpisce in positivo del lavoro di Adriatico, è sicuramente la scenografia, costituita da un apparato modulare in legno, quindi leggera e facilmente modificabile. Non mancano le contaminazioni cinematografiche, proprie di un regista a tutto tondo, di cinema come di teatro, che si notano in alcune scelte funzionali alla messa in scena: penso ad esempio, in apertura, ai discorsi di Hitler proposti, registrati su supporti digitali (tablet e smartphone), sostenuti da alcune comparse ferme in piedi sul proscenio in ombra, oppure all’utilizzo del ‘campo e controcampo’ cinematografico tra la prima e la seconda scena, e ancora all’utilizzo di microfoni ad archetto per accentuare, soprattutto nel finale, e rendere più vicina e sinistra la voce del Führer nei suoi dialoghi con Krupp.

Apprezzato anche il trucco, elemento non secondario dello spettacolo, ma spesso trascurato, che qui definisce alcuni tratti salienti dei personaggi: nel finale, il maquillage di Hitler si fa più definito, forse a rappresentare la definitiva maschera del dittatore che di lì a poco avrebbe indossato, poi il trucco di Krupp, grigio, prima chiaro e poi sempre più scuro, che richiama l’acciaio di cui la famiglia è proprietaria da generazioni, e infine il trucco verdognolo e speculare dei due malcapitati nemici, a rappresentare le due estreme appartenenze politiche, dello stesso colore perché destinate alla stessa tragica fine. La tessitura musicale, costituita da musiche contemporanee (una su tutte, nel finale, Special Needs dei Placebo), risulta troppo amplificata per essere apprezzata dall’orecchio umano, ma per nostra fortuna riprodotta limitatamente ai momenti di intervallo e accompagnata da un sipario non convenzionale, sfondo di proiezione per alcuni passaggi dell’opera-manifesto di Adolf Hitler, il Mein Kampf.

Per quanto concerne le prove attorali, alla generale bravura di Gianluca Enria (Hitler), Francesco Baldi (Röhm) e Antonio Anzilotti De Nitto (Krupp) si oppone invece quella di Giovanni Cordì, acerbo per la parte del navigato Strasser, di scarsa dizione e poca attenzione nella pronuncia delle battute. Meritati gli applausi finali.

Nel buio della sala si accendono, sul palco, quattro monitor che mostrano le immagini e la voce di Hitler che arringa la folla: uno dei molti documentari che capita di vedere a notte fonda sulle tivù meno generaliste – come Rai Storia. Un immediato tuffo nel passato sollecitato anche dai ricordi degli altri protagonisti di quel preciso periodo degli anni Trenta del Novecento, che ci giungono attraverso mezze frasi mentre le voci sono sopraffatte dall’imperio veemente del Führer. Ha il sapore del presagio di eventi futuri questa protervia che pare possa spazzare via tutto e tutti.

È una ricerca, quella di Mishima, un’indagine della psiche simile a quella portata avanti da Erich Fromm in Anatomia della distruttività umana. L’aggressività maligna così ben delineata dallo psicologo e filosofo tedesco (e non sarà un caso che, nel terzo atto, Hitler sarà steso su un lettino da psicoanalisi) spazzerà via con un colpo di spugna (o, meglio, di pistola) amici e nemici, ‘camerati’ e ‘fratelli’ – sacrificabili tutti per la scalata al potere assoluto.

L’ideale rivoluzionario del nazionalsocialismo delle SA – guidate da Ernst Röhm – si scontrerà, nel momento della loro massima espansione (ben 3 milioni di iscritti), con quello dei generali dell’esercito regolare (non meno bellicosi ma più proni ai voleri degli industriali) e, in modo particolare, con il nuovo corpo scelto delle SS (di Heinrich Himmler). L’allontanarsi e il rincorrersi, sul palco, di Hitler e Röhm è – a livello visivo – la corretta rappresentazione del confronto – un misto di denunce di atti riprovevoli e ricordi di momenti goliardici felici – che tenta, invano, di arrivare a rendere compatibili la rivoluzione permanente (ideale proprio del secondo) e la necessità (per il primo) di assecondare, così da mantenere e consolidare il proprio potere, le richieste di generali e capitalisti.

In campo, anche la contrapposizione tra destra e sinistra (ancora il nazionalista Röhm e il suo antagonista storico, Gregor Strasser), che si sentono entrambe tagliate fuori dai giochi mentre la seconda, più lungimirante ma destinata anch’essa alla sconfitta, tenta una improbabile – e irricevibile – alleanza per eliminare Hitler ed evitare una sconfitta che le travolgerà sino alle estreme conseguenze.

Le bellissime canzoni dei Placebo, dall’album Without You I’m Nothing, intervallano lo spettacolo per permetterci di leggere (mentre cala il sipario alla fine di ogni atto) le sempre più pesanti e invasive esaltazioni della razza ariana e le sue pretese di supremazia – tratte dal peraltro non particolarmente filosofico o profondo testo dell’Hitler carcerato, il Mein Kampf (La mia battaglia) di triste memoria. Le strutture scenografiche si prestano bene a sottolineare geometricamente i rapporti di forza nei momenti di incontro/confronto così come a rimandare al sotterfugio, allo spionaggio, al clima di subdola coercizione perpetrata dal potere economico per spostare gli interessi del Führer fino a farli combaciare coi propri (i cannoni della Krupp sono solo l’esempio).

Da notare, a livello attoriale, il lungo confronto tra Hitler e Röhm, che porterà alla resa di quest’ultimo – ammaliato/soggiogato dall’amico/nemico – mentre risulta un po’ meno convincente quello tra lo stesso Röhm e Strasser.

Il finale, eccellente, ci riporta e rimanda ai veri vincitori di quella Notte dei Lunghi Coltelli che, in poche ore, decapitò sia la destra sia la sinistra del Partito Nazionalsocialista, con un Hitler che, sino a quel momento, aveva dettato l’agenda degli avvenimenti e che si trova a doversi piegare di fronte al capitalismo e ai loro procacciatori di affari – in primis l’esercito e la marina intenti al loro riarmamento. La stabilizzazione, in questo testo di Mishima, è attuata sacrificando amici e ideali – condivisibili o meno che siano – nel nome di un potere assoluto e stabile – che non è tanto quello del Führer quanto quello del capitale.

Gli intervalli, necessari anche per i cambi di scena (da notare la piscina che rimanda all’iconografia del Terzo Reich, sempre tesa all’esaltazione del corpo), permettono di apprezzare e commentare l’evoluzione dello spettacolo analizzandone, a caldo, i vari momenti. Uno spettacolo profondo, con incognite e domande tuttora aperte.

Puoi provare amicizia verso l’altro con la convinzione che nulla possa accaderti, quando il tuo modo d’agire nei confronti dell’amico dimostri, al contrario, l’incoerenza se non l’esatto opposto di tale sentimento? Il tema dell’amicizia è trattato nel saggio : “Sulle ali degli amici. Una filosofia dell’incontro” di Pietro Del Soldà in cui l’autore spiega come “l’amicizia è condivisione, sentimento profondo, conoscenza di sé e apertura alla differenza. Non c’è amicizia dove domina un’identità forte”. Nel Il mio amico Hitler di Yukio Mishima¹ , che ha riaperto la stagione dei Teatri di Vita di Bologna, per la regia di Andrea Adriatico, l’argomento è la chiave di lettura per comprendere l’avvento del nazismo in Germania. Ma se Pietro Del Soldà (è anche il conduttore di Tutta la città ne parla in onda ogni mattina a Radio Rai 3) si rifà al pensiero platonico e aristotelico nell’affrontare “la crisi dell’amicizia”, raccontando l’esperienza di Socrate di condannato a morte, negando a se stesso ogni tentativo di salvezza o fuga, in cui il dolore e l’incapacità degli amici nell’accettare la sua scelta estrema (“ La sfida della philia: l’amicizia vera si gioca tutta qui, nell’accettazione e comprensione piena e sincera della morte dell’amico”), in Yuko Mishima la morte aleggia incombente su chi la procura a chi credeva, in nome di un’ amicizia consolidata, di non subirla e facendo dire a Gregor Strasser ² a Ernst Röhm³: “ La tua amicizia e la tua fedeltà rimarranno nella storia con la stessa forma seducente in cui ora si presentano».

Al tentativo fallito di convincere Röhm nel desistere nel suo intento nel voler assassinare il Führer, si sente rispondere che “io ricevo ordini da Hitler come amico. Un virile consenso”. Il legame d’amicizia tra i due fa dire ancora a Strasser rivolto a Ernst Röhm: “Aiutami. Aiutando me salverai anche la tua vita. Così non accadrà ed entrambi verranno assassinati”. Una delle battute più evocative del testo di Mishima₃ che riassume perfettamente la valenza tragica insita nel Il mio amico Hitler che ripercorre quanto accaduto nel giugno del 1934: a Berlino il presidente Hindenburg è in fin di vita e Adolf Hitler, già cancelliere, mira ad assumere i pieni poteri con il sostegno degli industriali e dell’esercito ma con la concessione di sciogliere le SA di cui Ernst Röhm ne era il comandante supremo, il cui prestigio gli permetteva di essere l’unico a cui Hitler dava del tu, in nome di un’amicizia pensata come salvacondotto a vita. La conquista del potere non recede di fronte a nulla anche a costo di sacrificare chi un tempo era stato un fedele alleato.

La supremazia assoluta al fine di ottenere un potere politico costituito sull’annientamento di chiunque si ribelli e cerchi di contrastarne l’avanzata. Il regista sceglie di ambientare la vicenda in un luogo-spazio che rimanda ad una sorta di loft arredato con un minimalismo astratto per diventare nel terzo atto una piscina: scelta scenografica originale e simbolica. L’azione si divide su due piani distinti e scissi: il dialogo finale di Hitler con Gustav Krupp⁴ (interpretato da Antonio Azillotti De Nitto) è una seduta di psicoanalisi che fa contraltare a quanto accade dall’altra parte della scena dove l’ impeccabile atletismo di un nuotatore si ritrova in acqua insieme a chi impugna una pistola con intenzioni minacciose ( Ludovico Riccioli, Lorenzo Pacilli, Damiano Pasi) . La mano armata di chi è pronto a togliere la vita a chi ha osato tradire un patto d’amicizia e la fedeltà assoluta e incondizionata al Führer.

Lo credeva anche Röhm quando spiega a Krupp: “Adolf è un brav’uomo. Da quando indossa stiffelius e marsina è diventato disgustosamente elegante, ma ha ancora i pregi di un tempo. Possiede un senso spiccato dell’amicizia”, suscitando la domanda: “Se possiede un senso così spiccato dell’amicizia, come mai non l’ha ancora nominato ministro?”.

L’amicizia al servizio del proprio ego che ambisce alla conquista di potere a qualunque costo: “La fede nell’uomo, ho detto. L’amicizia, la fratellanza politica, il cameratismo di antichi compagni d’armi, tutte le qualità più nobili, virili e sacre. Senza questi valori, la realtà stessa si sgretolerebbe. E di conseguenza anche la politica. Adolf e io siamo uniti su queste fondamenta che rendono possibile la sussistenza stessa della realtà” – fa dire ancora a Röhm nel tentativo di convincere l’interlocutore. Il regista Adriatico segue la lettura fedele del testo mantenendo la lunghezza originaria, che nel secondo atto, risulta un po’ faticoso seguire: il dialogo tra Strasser (interpretato da Francesco Baldi) e Röhm (Giovanni Cordì) sembra riavvolgersi all’infinito dove l’uno cerca di far cambiare i propositi sovversivi dell’altro.

La scena iniziale dello spettacolo rivela quanto sia importante il teatro di regia e Adriatico dimostra di saperlo governare con abile maestria, anche per l’utilizzo efficace dello spazio scenico. Immersi nella semioscurità si intravedono degli uomini in divisa, eccetto uno vestito di bianco (come fosse un corpo estraneo da respingere, rispetto ai colori funerei delle divise), illuminati da schermi dove Hitler fomenta il popolo in farneticanti comizi. Gli attori sulla scena si muovono come pedine di una scacchiera (nella locandina dello spettacolo sin vedono pedine bianche e nere degli scacchi, rovesciate e trafitte da pugnali. Immagine che caratterizza bene l’idea registica di Andrea Adriatico di assegnare indicazioni precise agli attori.

La recitazione imprime una forte accelerazione nella tensione dinamica dove il regista distingue i ruoli caratterizzandoli, a partire da Gianluca Enria che incarna un Hitler sprezzante, cinico rinchiuso nel suo delirante senso di onnipotenza: “L’incarico di primo ministro gli Dèi hanno affidato al mio governo un’autentica missione patriottica”. La scrittura drammaturgia viene esaltata, amplificata, enfatizzata sul piano dialettico. Appare come dissociata rispetto al proprio sé interiore, dove il vissuto interiore della sofferenza umana più intima non ha mai il sopravvento. La “banalità del male” si palesa attraverso un controcanto tra il suono della parola attoriale e la voce di Hitler che echeggia lugubre. Anche la scelta musicale segue un’idea ben precisa: dei Placebo si ascolta “Too many friends” (Troppi amici), e “Bitter End (La fine amara) come a voler rimarcare un legame nato da un sentimento d’amicizia destinato a soccombere in una fine ingloriosa e atroce.

Il regista evita di ambientare la vicenda nel contesto storico per collocarlo in una contemporaneità che ci costringe a fare i conti con le stesse pulsioni distruttive connotate da sentimenti di razzismo, antisemitismo, spregio per la vita altrui, mai sopite nell’animo umano. Torna in mente X Agosto, una poesia composta da Giovanni Pascoli nel 1896, e dedicata alla tragica morte del padre in circostanze mai chiarite il cui ultimo verso recita: “E tu, cielo, dall’alto dei mondi sereni, infinito, immortale, oh! d’un pianto di stelle lo inondi quest’atomo opaco del Male!”. Male che alimenta non solo l’aggressività fisica, ma anche quella del linguaggio delle parole di intolleranza, del razzismo e supremazia nei confronti di chi è diverso per colore della pelle, provenienza etnica, condizione sociale.

Il Male che sovrasta ogni forma di pietà e di compassione nell’esprimere sentimenti feroci: «Chiudete dunque il cuore alla pietà. Agite brutalmente! Il più forte ha ragione. Siate duri senza scrupoli! Siate sordi ad ogni moto di compassione! Chiunque abbia riflettuto sulle leggi di questo mondo sa che esse significano il successo dei migliori raggiunto attraverso la forza»: a scriverlo era “l’amico” Hitler nel suo Mein Kampf.

¹ (leader dell’associazione paramilitare Tate no Kai da lui fondata e morto suicida nel 1970 con il rituale dei samurai per protesta contro l’ingerenza degli Stati Uniti nella politica interna del Giappone)

² (funzionario e politico nazista assassinato nel 1934 durante la famigerata Notte dei lunghi coltelli per aver complottato contro Hitler)

³(politico e colonnello delle SA, un corpo paramilitare del Partito Nazista condannato a morte per tradimento)

⁴(diplomatico e imprenditore tedesco che contribuì alla politica del riarmo voluta da Hitler)

A Teatri di Vita va in scena un’opera teatrale di Yukio Mishima targata 1968, l’anno in cui Pier Paolo Pasolini pubblicava (e poi dirigeva) Teorema.

Breve premessa. Prima di addentrarci nello spettacolo firmato da Andrea Adriatico, vorremmo spazzare via alcuni pregiudizi su uno tra i massimi scrittori del Novecento, spesso etichettato sbrigativamente come nazionalista (o di ‘destra’) e, per questo, inviso come lo fu, in Italia, il suo corrispettivo comunista (o di ‘sinistra’).
Mishima e Pasolini – figure superficialmente associate a termini generici (sempre più generici) come nazionalismo e comunismo – sono sempre stati, in realtà, icone imbarazzanti per gli stessi circoli ai quali sono stati ascritti. Entrambi omosessuali in tempi in cui non era accettabile esserlo – il primo in conflitto con se stesso soprattutto per ragioni familiari e per rispetto della tradizione, il secondo per affetto nei confronti della madre e un irrisolto rapporto con la Chiesa cattolica – sono forse gli ultimi romantici che ci ha regalato il Novecento. Artisti più che autori per l’ampiezza e portata dei loro interessi e delle opere prodotte, creatori di universi/mondi, filosofi e critici, cultori di una mistica del corpo e di se stessi che hanno saputo – consapevolmente o meno – portare fino alle estreme conseguenze: con un suicidio plateale come una rappresentazione Nō, il primo; e con un omicidio subito sul palcoscenico del dolore e della degradazione urbana come solamente l’autore de Il Vangelo secondo Matteo poteva eleggere a proprio teatro/mondo, crocifiggendo la propria immagine di intellettuale comunista con i chiodi dei suoi amati ragazzi di vita, il secondo.
Se l’italiano coltivava il corpo con il calcio, il giapponese lo faceva col kendō – entrambi calati nella propria cultura nazionale persino mentre addomesticavano quel corpo che era anch’esso – sebbene emaciato e consunto come in alcune tardive immagini di Pasolini – emblema della loro ‘presenza’ contraddittoria, urticante, ‘scabrosa’  in un mondo al quale si immolavano con la cruda empietà del credente.
Il loro sturm und drang identificava la natura non tanto, nell’uno, con la società contadina da L’albero degli zoccoli e, nell’altro, con un Giappone illuminato dall’Imperatore, quanto in entrambi con la critica feroce verso quelle ‘magnifiche sorti e progressive’ che, se per Pasolini, conducevano all’azzeramento di culture, lingue e patrimoni popolari in favore di un’omologazione consumistico-tecnicistica utile al capitalismo liberista che si andava sempre più definendo; per Mishima erano le sirene di un Occidente che, come a Versailles, non si accontentava di vincere in battaglia – volendo, allora, schiacciare il nemico con i debiti di guerra e, negli anni Cinquanta, imporre l’asservimento al nuovo dio dollaro e ai suoi costumi falsamente libertari.
E ancora, se Mishima – esteta – doveva distruggere la bellezza per liberare l’uomo, uccidere il Buddha per permettere al suo alter ego semplicemente di vivere, incendiare Il padiglione d’oro perché Mizoguchi si accendesse una sigaretta; Pasolini faceva altrettanto, in maniera grottesca, accanendosi sul simbolo par excellence della nostra società consumistica e permissiva, ossia la famiglia borghese – da Teorema a Porcile.
Ed entrambi, infine, trovarono nel teatro (nel romanzo o nel cinema) dialettico la forma drammaturgica grazie alla quale sviscerare la loro visione politica della vita (in tempi in cui si rivendicava che ogni atto – anche privato – fosse politica); ovvero mettendo in scena personaggi che erano rappresentati e interagivano solamente attraverso i conflitti che esistevano in loro o tra di loro.
Teorema e Il mio amico Hitler, partoriti lo stesso anno, da due martiri della modernità capitalistico-consumistica.

E ora veniamo allo spettacolo
Lo spettacolo in scena a Teatri di Vita si compone di un prologo e tre atti. Il prologo, in semioscurità, presenta – mentre il Fuhrer arringa la folla (quattro monitor trasmettono un filmato d’epoca) – i tre personaggi storici, espressioni di tre tesi o visioni del mondo: Gregor Straßer (il socialista vicino alle rivendicazioni dei sindacati dei lavoratori e ad ambienti marxisti), Ernst Röhm (il militarista/nazionalista con un côté romantico) e Gustav Krupp (il capitalista, padrone dell’acciaio, che vede nella guerra una fonte di guadagno e sarà iscritto nella lista dei criminali di guerra del Nazismo). La struttura scenografica rimanda immediatamente al razionalismo e alla successione di pieni e vuoti della Nuova Cancelleria dell’architetto Albert Speer (anche se anacronisticamente, dato che il lavoro teatrale è ambientato nei giorni precedenti la Notte dei lunghi coltelli – 30 giugno/1° luglio 1934 – mentre il palazzo fu completato a inizio ʻ39).
Dal buio emergono, frammentate, le posizioni dei tre interlocutori che, in piena luce, si confronteranno con Adolf Hitler – il sole nero del Reich – per indirizzarne o comprenderne le mosse future. Le geometrie della scenografia si specchiano nei movimenti che, nella loro nettezza, pongono i 3+1 contendenti sulla scacchiera della storia, ognuno nella posizione e nel ruolo che gli è imposto dal carattere e dagli ideali (Röhm e Straßer) o dagli scopi economici (Krupp).
Il secondo atto vede un importante cambio di scena: siamo in una piscina (come in un passato Caligola di Corrado D’Elia) e la maschia virilità del soldato Röhm si fa ammaliare dall’astuzia dell’ʻartista’ Hitler. Il successivo scontro tra le tesi di Röhm e quelle di Straßer (nazionalismo/internazionalismo, ma anche destra/sinistra, idealismo romantico/pragmatismo ideologico, eccetera) è la parte che convince meno – si trascina troppo a lungo con alcune ripetizioni che non aggiungono nulla al confronto, mentre il personaggio di Straßer non riesce a esprimere né la complessità del portato ideologico e strategico né la seduzione che l’attore – scelto forse appositamente giovane – potrebbe esercitare su Röhm.
Il terzo atto, al contrario, è folgorante. Il cerchio si chiude non solamente sull’analisi delle motivazioni politiche e psicologiche (interessante il riferimento al lettino psicoanalitico anche per altri motivi di cui scriveremo) che condussero Hitler a eliminare l’amico Röhm e il nemico Straßer, ma anche sull’analisi anticapitalistica propria del pensiero politico di Yukio Mishima.
È infatti questo il fulcro della rappresentazione con un apparato scenografico che si presta perfettamente a identificarsi con lo skyline di una metropoli capitalistica (tipo New York) e che fa da sfondo ai giochi in piscina (metafisicamente rimandando, forse, ai bagni di De Chirico), i quali possono indicare l’allegria cameratesca e spensierata dei giovani appartenenti alle truppe delle SA, che furono sciolte nella Notte dei lunghi coltelli e i cui capi furono uccisi con fredda efficienza dalle SS (in elegante divisa Hugo Boss – particolare che forse non tutti conoscono). Precisiamo, però, che nel testo (e nello spettacolo) questa visione non mette a tacere o ‘scusa’ le violenze gratuite, i pestaggi e le uccisioni contro cittadini inermi che avevano perpetrato per anni quegli stessi giovani ‘sbarazzini’ delle SA.
Ma torniamo a Hitler, steso sul lettino psicoanalitico di cui sopra, si fa analizzare da un Krupp/Freud al quale dovrà piegarsi (per raccogliergli, metaforicamente, la penna – quella stessa che era servita e servirà a firmare gli assegni indispensabili a coprire i debiti del Partito Nazionalsocialista e la campagna presidenziale di Hitler). Il capitale conosce bene i politici che finanzia e i cui scopi devono coincidere con i propri: conosce le debolezze degli uomini, ma altresì le ambizioni dei leader – ed entrambe sa piegare ai propri fini. Il dialogo che vede Hitler, all’inizio, emergere ‘illuminato’ dalla sua ambizione, pian piano si sposta di segno ingigantendo la figura di Krupp fino a identificare quest’ultimo con Satana – mentre una Eva/Hitler mangerà la mela, non come frutto della conoscenza bensì come oggetto di seduzione del male.
L’ultima frase, a chiusura, esplicita non solamente la scelta di Hitler di sacrificare destra e sinistra per un centro che si identifica con lui stesso – quale detentore del potere – ma soprattutto con il capitalismo, quale unico sistema economico attuabile e auspicabile (quello stesso unico ‘mondo possibile’ da Genova 2001 in avanti).
Sebbene anche Peter Weiss, nel lucido e tagliente L’Istruttoria, avesse puntato il dito contro gli interessi degli industriali tedeschi all’interno dei campi di concentramento e di sterminio (chi forgiava cannoni, vagoni ferroviari o forniva lo Zyklon B?), Yukio Mishima fa risalire la ragione stessa dell’ascesa di Hitler a una precisa classe socio-economica e al sistema sul quale si fonda – un sistema che denunciava, in Italia, Pasolini; un sistema ancora più alacremente all’opera dopo il 1989 e che continua a macinare miliardi grazie a guerre e allo sfruttamento di risorse ambientali e umane.
In sottofondo la musica accattivante dei Placebo e un certo gusto camp – in sintonia con le atmosfere della Repubblica di Weimar, prima dell’ascesa dei Nazionalsocialisti, immortalata da Bob Fosse in Cabaret.
Mishima/Pasolini: due artisti politici (nel senso più alto di critici della loro, ma anche della nostra, contemporaneità) da rileggere con attenzione.