Il frigo

di Copi

uno spettacolo di Andrea Adriatico

con Eva Robin’s

cura e aiuto Daniela Cotti, Saverio Peschechera
scene Andrea Cinelli con la consulenza di Maurizio Bovi
costumi Andrea Cinelli col repertorio vintage di A.N.G.E.L.O.
tecnica Francesco Bonati, Giovanni Magaglio
fotografia Raffaella Cavalieri
produzione Teatri di Vita
con il sostegno di Comune di Bologna, Regione Emilia-Romagna, MiBACT

Debutto: Bologna, Teatri di Vita, 1 luglio 2005

Il frigo è uno dei testi teatrali più vorticosi di Copi, dove si ritrovano concentrati tutti i suoi temi e le sue manie, a cominciare dai sessi indefiniti e dalle violenze a ripetizione, sullo sfondo dell’incommensurabile solitudine di una donna chiusa in casa, che inganna le sue fobie e le sue angosce immaginando personaggi a ripetizione che la vengano a trovare.
A incarnare l’eroina di questa strana opera è Eva Robin’s. Ironica, affascinante, cinica: così Eva si presenta in scena, con un monologo che sembra scritto appositamente per lei, in un vorticoso crescendo di parole e situazioni da fumetto tragicomico come in un trip lisergico.
Nel Frigo c’è tutta la teatralità cinica e pungente del grande franco-argentino Copi, morto di Aids nel 1987, celebre per i fumetti della Donna Seduta e per la sua capacità di ridere con sprezzante ironia delle disgrazie e delle ingiustizie della commedia umana. Alla sua opera Teatri di Vita ha dedicato dal 2006 un progetto pluriennale che ha avuto già diversi esiti: spettacoli, convegni e il libro Il teatro inopportuno di Copi a cura di Stefano Casi (ed. Titivillus), primo volume di studi su Copi mai pubblicato in tutta Europa.
Nel Frigo, su uno sfondo pop iperrealistico, si avvicendano le sequenze più strampalate che si possano immaginare, in una girandola caleidoscopica che ruota attorno all’improbabile apparizione di un frigo nel salotto di una ex indossatrice sul viale del tramonto. Che si confonde con altri personaggi generati da quest’incubo: una psicanalista svitata, una madre crudele, una serva irriverente, un editore megalomane, un… topo!
Cosa aspettate? Nel Frigo spuntato nel salotto di Eva Robin’s c’è posto anche per voi. Tra un cane incontinente e un topo innamorato…

Visioni critiche

Il tono, i temi sono quelli consueti (di Copi, ndr), la bruciante, sgangherata parodia delle abitudini di una signora borghese, oggetto insieme di satira impietosa e di sottile identificazione: nel giorno del suo compleanno il personaggio in questione – incongruamente pronto a diventare uomo per la sua psicanalista – si fa gioiosamente violentare dall’autista, viene ucciso dalla cameriera, risorge con la massima indifferenza, riceve le visite di un improbabile detective e di una madre ricattatrice e trasgressiva, intrattiene equivoci legami col solito, immancabile topo.
La messinscena di Adriatico sottolineava la distorta tipicità di queste situazioni accentuandone i tratti di lieve stilizzazione, ricreando alla ribalta, insieme agli elementi di un appartamento vero, la sua pianta architettonica, là il soggiorno, qua la camera da letto indicati da scritte sul pavimento. Ma la vera idea è stata quella di affidare il ruolo principale a un simbolo dell’ambiguità anagrafica come Eva Robin’s, il più celebre e conturbante transessuale italiano, che sembrava incarnare naturalmente gli infiniti trasformismi così ossessivamente cari all’autore.
La scelta ha funzionato solo in parte, perché la Robin’s, forse non favorita dallo spazio aperto, è parsa reggere con fatica l’incalzante gioco dei travestimenti, dando a volte l’impressione di perdere un po’ di ritmo, ma il senso della sua presenza in scena va cercato ovviamente in altre doti, nella sua fisicità mutevole, nel mistero di un aspetto duttile che le consente di essere ora una creatura altera, bellissima, ora una caricatura di se stessa, nell’enigma profondo – che Copi avrebbe colto – di quell’identità sfuggente per cui lei, nata uomo, quando veste da uomo risulta ancora più femminile.
(…) Adriatico ha incentrato la chiave della sua messinscena su una presenza che del trasformismo si può considerare in un certo senso l’emblema, ovvero sul più celebre transessuale italiano, Eva Robin’s, che diretta da lui aveva già interpretato anni fa un testo impegnativo come La voce umana di Cocteau.
Inutile, anche in questa circostanza, cercare l’embrione non diciamo di un significato, ma di una sia pure elementare consequenzialità logica nel susseguirsi di bizzarre apparizioni che ruotano attorno a un elegante appartamento al cui centro si è materializzato all’improvviso un ingombrante frigorifero: la padrona di casa, che viene puntualmente violentata dal portinaio, uccisa dalla serva e riportata in vita per esigenze di copione, riceve via via le visite di un incongruo detective, di una madre ricattatrice e sessualmente disinibita, di una psicanalista raffigurata da una bambola gonfiabile, nonché le telefonate di un invisibile editore e di un aspirante organizzatore australiano di sfilate di moda, oltre alle avance del solito, imprescindibile topo.
La regia di Adriatico tende a stilizzare l’azione fin dall’impianto scenografico, che riproduce la pianta architettonica di un appartamento con tanto di indicazioni scritte delle varie stanze. La stessa stilizzazione la cerca nell’immagine dei vari personaggi, che paiono degli ironici cliché ritagliati da foto di moda o da manifesti cinematografici, cui la Robin’s, con quel fisico da indossatrice d’altri tempi, conferisce una grazia quasi astratta. Meno facile le riesce passare in pochi istanti da una voce all’altra, da un carattere all’altro, e infatti a volte rischia di perdere un po’ il filo. Ma lei è lì prevalentemente per un altro scopo, per mischiare le carte, per cancellare i confini dell’anagrafe come voleva Copi, per risultare lievemente mascolina quando veste abiti femminili e femminilissima quando porta la cravatta e i baffi finti. E questo compito lo assolve con un’efficacia misteriosamente conturbante.
Andrea Adriatico ha dipinto in un interno metropolitano il ritratto surreale di Eva Robin’s traslandolo nei personaggi del Frigo di Copi. Il regista ha costruito un affresco multicolore e malinconico che ricorda la bad painting di Martin Maloney. Eva Robin’s attraversa il tempo e lo spazio del testo del drammaturgo argentino, lasciando emergere le infinite pieghe del malessere contemporaneo. Seduti sul bordo di una piscina, trasformata per l’occasione in una cellula abitativa segnata da rigore estetico e da un vuoto che svela i dettagli più insignificanti, si segue un rutilante girotondo di travestimenti.
Cammina magnificamente, ondeggiando con passo da indossatrice sugli alti tacchi a spillo. E’ elegante nel suo bell’abito, ha stile, come quel moderno arredamento da designer che la circonda con la sedia rossa e le lampade bianche a colonna. Anche il frigo argentato è troppo bello per essere un semplice frigo, sembra qualcosa di più, una cassaforte, un simbolo. Tutto lì può essere diverso da quello che sembra, compresa la bella protagonista che potrebbe essere una, nessuna e centomila, compreso il frigo piazzato fuori posto in un angolo del salotto e che potrebbe essere tutto fuorché un frigo, anche una bara o una tomba. Ben conservata in questo allegorico Frigo, salta fuori – allegoricamente – Eva Robin’s, fresca fresca, per mescolare in un pasticcio fantastico l’ambiguità di un’attrice col teatro dell’ambiguità di Copi. (…)
Sono microstorie di personaggi dall’incerta identità, dove l’unica cosa certa è il pretesto, il punto di partenza – il frigo, muto ed enigmatico testimone di allucinate visioni – la miccia che innesca tutta la serie di botti, trucchi, sorprese e girandole mimiche e verbali. Si ride di questo gioco ambiguo, paradossale e ironico, in cui la Robin’s gioca con travestimenti, mascheramenti, trasformismi, metamorfosi e denudamenti, e Copi con le proprie ossessioni, manie, fobie, coi propri vizi, umori, temi. Che senso può avere in definitiva questo folle divertissement? Nessuno, credo. E lo conferma lo stesso autore quando dice: “Nelle mie commedie non c’è nessun messaggio. Lo spettatore non esce diverso da come è entrato. Spero che piacerà, ma sarà perfettamente normale se non piacerà”. Se lo dice lui.
Eva Robin’s è l’istrionica protagonista tuttofare tutta travestimenti e cambi di voce: ora è la domestica, geniale invenzione con lo zelo di una filippina e il cinismo di una newyorkese, ora è la madre rancida impellicciata assillata dal denaro con cui deve pagare i suoi gigolo rimorchiati sulle scale della chiesa prima della Messa, ora è lei, la protagonista, un po’ uomo un po’ donna, un po’ Eva.
Il frigo, un frigo, è comparso lì nella sala, feticcio misterioso pericoloso vorticoso di mistero e motore dell’azione, “cosa c’è nel frigo? Non so risponderle. E’ il regalo per il giorno della menopausa”, e in quell’interno di casa di ex modella alle prese con la stesura di una biografia, si alterna il mondo tutto. La scena è un tripudio di impossibile e irreale, i dialoghi rasentano l’assurdo per la genialità degli ossimorici non-senses, surreale tabula picta un po’ Magritte un po’ Dalì. Eva è a suo agio dopo un po’ di battute ma poi dà il meglio di sé, tutta sculettamenti, ammiccanti occhiate, perfido cinismo di maniera che te la fa amare: “Sono molto ricca, ma sono anche molto avara: sai, ringiovanisce”.
La regia di Andrea Adriatico è cucita attorno alla dea protagonista e valorizza bene il testo, di un Copi meno estremo e violento de “L’omosessuale o la difficoltà di esprimersi”, ma con una gran voglia di giocare con le parole e con le fantasie metropolitane. Siete signori per bene e dame in pelliccia e revers? Ecco lo spettacolo che fa per voi, tanto glamour da sdoganare anche la perversione e l’erotismo violento avvolgendoli entrambi di soffice velluto bordato di rossa seta chic.
Copi è ormai – se mi si passa la contraddizione – un “classico dell’ avanguardia”. Con questo spettacolo di un’ora – il cui protagonista è un metafisico frigorifero – Andrea Adriatico, regista fra i più singolari e spiazzanti del “nouveau théatre”, animatore del gruppo bolognese “Teatri di Vita”, restituisce Copi a nuova vita. Per l’algida, raffinata eleganza dell’allestimento; per l’ironica, conturbante disinvoltura con cui Eva Robin’s s’abbandona a una dozzina di travestimenti alla Brachetti (ex-indossatrice, colf irriverente, investigatore da comics, saffica psicoanalista, madre snaturata etc.), e alla fine per l’affilata satira anarco-surreale di un milieu borghese che ne risulta. A contrasto con le assurdità giocose (o disperate?) delle situazioni, la bellezza trans di Eva – misteriosa creatura che gioca a contrasto tra fobie, ossessioni, nevrosi, vizi e mascheramenti – trasforma il tutto in un raffinato divertissement comico. Con l’immancabile flirt finale con un topo nascosto nel misterioso frigorifero.
(…) soliloquio o sproloquio con scissioni d’identità a girandola di una glamour-girl sul viale del tramonto, interpretata da Eva Robin’s per la regia di Andrea Adriatico. Nel salotto della signora troneggia incongruamente un frigorifero, misterioso regalo di compleanno. Totem e tabù, tabernacolo e sarcofago: dentro lo spazio scenico stilizzato che sembra il quadratino di una “strip” da fumetto, la Robin’s si trasforma e si spezzetta beffardamente in cameriera gaglioffa, madre ricattatrice, psichiatra, detective, duettando anche con un topo che non può mancare per l’apoteosi finale: tutte apparizioni dell’inconscio borghese evidentemente scatenate da un rito di solitudine, odore di crisantemo e resurrezioni comprese. Giusto dare la bacchetta dell’ambiguità e dell’allegoria, in una pièce che celebra il femminile come mito e sberleffo insieme, ad un transessuale intelligente che sa cos’è l’autoironia. Si ride, ma il gioco pop dei travestimenti denuda tra identificazione e ripulsa soprattutto l’anima di Copi.
Absolutely Eva. Dal cilindro incandescente di Raul Damonte alias Copi una fantasia tragicomica, vivace incastro drammaturgico che si direbbe misurato proprio sulla presenza trasformista e sul fascino di una Eva Robin’s in forma. Entriamo in una casa che è un teatro (sa di esserlo: non è forse la stessa protagonista a stanare un pubblico, quando gioca il ruolo di una domestica dislessica alle prese col telefono?), un’arena per le vite multiple di un solo corpo: sulla rossa poltrona pop design, come nel torpore di un incantesimo, sta la nostra protagonista. E’ il giorno del suo compleanno. Al repentino e improvviso risveglio è soprattuto un grosso Frigo in mezzo alla scena che cattura totemicamente la sua attenzione, e i suoi ironici tentativi d’approccio. Chi ce lo ha portato lì, quel frigo? Cosa contiene? (…)
Scenario sospeso fra l’architettura bidimensionale di un tappeto bianco cui si delega un’efficace e minimale didascalia d’ambiente – ora siamo nel salotto, ora in camera da letto, se per terra è scritto così… – e un’unica vera ‘stanza’ in cui, nascosti agli occhi degli astanti, si consumano gli innumerevoli travestimenti della Robin’s, alla volta ex-modella alle prese con la stesura delle proprie memorie, poi madre alcolista della stessa, o ancora baffuto doppio maschile nerovestito, un po’ Chaplin un po’ Hitler, alle prese con un’agguerrita psicanalista-bambola gonfiabile dal cappello piumato. Si susseguono telefonate (spasimanti insistenti, editori frettolosi…) mentre un sorriso tirato accompagna tutto il tran-tran di questa statua di carne mobile alle prese con tanti fantasmi e con lo spavento di fronte alle rughe che avanzano. La macchia si allarga, tocca affetti, armadi zeppi di scheletri e frustrazioni con la medesima, leggera e anarchica lama.
Il giocattolo è morboso, transgender e drogato come si conviene al drammaturgo sudamericano. Che non resti, di fronte al crollo di tante illusioni e maschere, di fronte al respiro che si accorcia, che una sola soluzione finale? Il suicidio da assideramento, dentro il frigo… oppure no, una nuova vita può ricominciare da un topo… un’amore di topo, che salta fuori proprio da dietro il frigo misterioso…
Ambiguo e crudele, il testo surreale di Copi dà modo al regista Andrea Adriatico di accendere da più lati la miccia che unisce questo teatro dell’assurdo al magnetismo imperscrutabile di una Eva Robin’s attrice vera. E il botto non manca.
(…) Gran pregio di Eva Robin’s è quello di recitare tutti i personaggi di “Il frigo” di Copi esibendo un’incantevole e seducente grazia grafica, liberata da una definita identità sessuale e alleggerita da impacci naturalistici. Senza tradire il segno dell’autore che, fattosi carne attraverso di lei, mette in scena la vera tragedia accettabile allestita dal teatro contemporaneo: la difficoltà di esprimersi, come recita il titolo di un testo di Copi.
Senza scomodare paragoni – sarebbe eccessivo – con l’istrionico Brachetti, bisogna riconoscere ad Eva Robin’s un talento trasformistico che, mescolato all’ambiguità sessuale di cui ha fatto una bandiera, ne fa la protagonista ideale dentro “Il frigo” di Copi, nella colorata e rocambolesca messinscena curata da Andrea Adriatico. Lo spettacolo – in scena per due sere, con buon successo di pubblico, alle Fondamenta Nuove di Venezia – è un concentrato di verve e ironia, che a tratti sbanda in una leggerezza vacua, ma complessivamente tiene desti il sorriso e la mente dello spettatore. Dello stile e dell’immaginario di Copi (al secolo Raul Damonte, autore e disegnatore argentino, apprezzato dai lettori italiani di Linus), Adriatico enfatizza l’epica trasgressiva dell’eccesso, la stravaganza delle relazioni sociali, il cinismo di un pensiero senza freni. E l’accostamento alla fiamma di Copi della più celebre transessuale italiana ha un effetto deflagrante.
In scena esplodono le identità, i pensieri, le azioni della protagonista: una ex modella, con tutti i vizi e le stravaganze che appartengono all’icona dello star-system, impegnata a scrivere la propria autobiografia. Ma in realtà la donna (o forse l’uomo, chissà) trascorre e giorni e le notti a farsi travolgere dalle contingenze di un’esistenza onnivora: a farsi bistrattare dalla governante, violentare dall’autista, irreggimentare dalla psicanalista (una provocante bambola gonfiabile), a tirare di coca e soprattutto a farsi martirizzare da una madre psicolabile, alcolizzata e opportunista. L’attrice protagonista impersona tutti, presta voci e sguardi differenti e straziati ad ogni identità balzana, finanche al cane.
Non c’è logica, nei fatti che accadono in scena. Ma il filo rosso è l’intensità e il ritmo con cui la Robin’s riesce ad essere folle e frivola, gaia e giovanile, uomo e donna. La cifra della regia di Adriatico rimane la satira con l’eccesso, l’isteria, ma dietro la superficialità di un approccio demenziale alla vita giace come una condanna l’inettitudine, l’incapacità di relazioni autentiche, l’impossibilità di avere un volto e un nome in un universo metropolitano che sa di “limbo” e di nonsense. Nella deflagrazione delle personalità, Eva Robin’s ha regalato un sorriso amaro e surreale ad un pubblico veneziano che l’ha applaudita a lungo.
La commedia Il frigo (1983) messa in scena da Andrea Adriatico che l’affida a un simbolo dell’ambiguità anagrafica come Eva Robin’s, sarebbe piaciuta all’autore, al franco-argentino Raul Damonte in arte Copi. L’attrice riesce perfettamente con grazia cinica a mischiare le carte, a cancellare in un turbinare di travestimenti, i confini tra uomo e donna, proprio come amava Copi.
Eva Robin’s con bella ironia e guizzi di surreale si moltiplica in una girandola di personaggi per raccontare la folle giornata del 50o compleanno di una ex modella, cui la madre dona un frigo, elettrodomestico che – oggetto totemico, sarcofago di desideri, “regalo per il giorno della menopausa”, inutile e senza perché – troneggia in una scena dove la cucina è identificata solo dal termine “cucina” scritto sul pavimento, così come la “camera da letto” o il “soggiorno”.
Una scena “non scena”, ideata da Andrea Cinelli, per esaltare le sfrenate mutazioni della protagonista. La padrona di casa, ogni giorno puntualmente violentata dal custode, pugnalata dalla serva e resuscitata con borghesissima, rigorosa puntualità, dà vita, in un divenire assurdo e senza senso, a grottesche figure, dal doppio maschile vestito di nero con baffetti alla Chaplin, molto, molto femminile, allo psicanalista che è una bambola-gonfiabile dal cappellino piumato, alla serva virago, alla madre terribile suscitatrice di sensi di colpa, ricattatrice, esempio di strepitoso egoismo, impellicciata, che parla solo di soldi e li pretende per pagare i suoi giovani gigolò, all’immancabile topo con quale sognare un altro impossibile, selvaggio amore.
Una giostra che si muove rapida tra giochi di parole corrosivi e frizzanti, tra telefonate di improbabili editori che pretendono biografie mai scritte perché mai vissute o perché troppo vissute per essere raccontate. Una giornata folle, una “ronde” di mutazioni, una fantasia tragicomica che svela, grazie all’intelligente regia di Adriatico e alla bravura convincente di Eva Robin’s, paesaggi di angoscia interiore, fantasmi dell’anima vissuti con ironia, gusto per l’eccesso, irriverenza ma anche solitudine e desiderio di fare a pezzi con sarcasmo, con estro anarchico la società borghese, il suo perbenismo e le sue leggi di “normalità” codificata.
(…) Copi allestisce il suo carnevale ironico e pungente, cinico e desolante, proprio lasciando aperto l’abisso della continua ricerca del sé, di una identità smarrita e troppo sfrontata, troppo vitale per soccombere di fronte ai colpi di un destino amaro: l’impossibile e disperata vitalità di chi ama la vita, di chi sente il profumo sottile della passione e della libertà, ma sa quanto possa essere doloroso, la notte, trovarsi soli e andare a dormire con un peluche e una vecchia pelliccia per avere un po’ di calore.
Ecco, la libertà di Copi: quell’ansia di uscire dal palcoscenico, la voglia frustrata della protagonista di sottrarsi all’enorme riflettore che illumina senza pietà la scena, eppure con la consapevolezza di poter vivere solo lì, sotto quella luce implacabile. Adriatico allestisce uno spaccato anni Settanta, tutto design e glamour, al centro del quale Eva Robin’s sfoggia un tailleur di castigata eleganza. Poi, con charme e smaccata disponibilità a prendersi in giro, si lancia nei mille abiti dei tanti personaggi de Il frigo: è brava, gioca con la sua bellezza e con lo spettro dell’invecchiamento, ironizza sui luoghi comuni borghesi e mette in parodia il sistema moda: naturalmente incarna il mito della trasformazione, dell’identità “liquida”, della sessualità ambigua e al tempo stesso solare. Senza mai eccedere: anzi mantenendo un complice distacco dalla follia del testo, che fa risaltare ancora più la surreale comicità di Copi, Eva Robin’s, vera regina della serata, supera l’iconografia di se stessa e riesce, come scriveva Renato Palazzi recensendo la prima edizione dello spettacolo, a “mischiare le carte, a cancellare i confini dell’anagrafe come voleva Copi, per risultare lievemente mascolina quando veste abiti femminili e femminilissima quando porta la cravatta e baffi finti. E questo compito lo assolve con un’efficacia misteriosamente conturbante”. (…)
(…) Funziona anche alla perfezione l’alchimia con Eva, in grande forma, instancabile nel cambiare personalità e costume, dall’impermeabile da esibizionista del poliziotto, al severo tailleur della padrona di casa che cede poi alla lusinga delle trasparenze dei veli, riuscendo, nonostante il vezzo di dichiararsi “vecchia”, a far ancora accendere le fantasie birichine dei maschietti in sala, come al teatro Arsenale di Milano, dove Il frigo è stato accolto con molti applausi.
Copi ed Eva Robin’s: un binomio azzeccato. Il regista bolognese Andrea Adriatico coglie nel segno facendo incontrare nel proprio allestimento de Il frigo il genio irriverente e imprevedibile del drammaturgo argentino e il carisma fatto di ambiguità e naturale eleganza della celebre transessuale. Da questo felice connubio scaturisce un lavoro raffinato e divertente, una giostra di trovate e sorprese, ma anche un acidissimo ritratto dell’alta borghesia, fotografata nell’assoluta vanità delle sue manie e dei suoi affanni.(…)
Un frigo, regalato dalla madre, troneggia come un idolo nel salotto psichedelico e teatrale di un’indossatrice sul viale del tramonto, che, ogni tanto, si ferma per una fitta alla schiena, sgranando occhioni e labbra ritoccate. Sulle sue telefonate ansiose si inseriscono una governante padrona, un cane, la madre ossessiva, la terribile psicanalista in forma di bambola gonfiabile, il doppio maschile di se stessa, con incursioni di stupratori, ricordi di sodomizzazioni paterne, scoppi di bombe e apparizioni di fantasmi. E’ una girandola di invenzioni cinnische Il frigo di Copi, affidato dal regista Andrea Adriatico all’interpretazione di Eva Robin’s, che indossa con ironia tutti i personaggi, utilizzando uno stanzino per i cambi di figura, senza smettere mai di parlare. Eva gioca sulle ambiguità sessuali, senza forzare i toni, senza cambiare troppo le voci, in un’atmosfera raggelata, dove la normalità quotidiana diventa allucinazione e un topo, alla fine, rimane l’unico, l’ultimo amore.
L è seduta composta, perfetta nel suo tailleur blu anni 50 che contrasta con il rosso acido della sedia. Solo dalla postura si capisce che è una donna borghese, benestante: poi si alza cammina ancheggiando e si comprende che ha avuto un passato da indossatrice. Ma, già dai primi gesti, dai primi sguardi e dalle prime battute, trapela una nevrosi, qualcosa di folle. Chi è la donna che sta sul palco? Chi è L? È una donna che, sconvolta dall’arrivo di un ingombrante frigo, regalo della madre per il suo compleanno, perde la propria identità. Così tenta di ritrovare se stessa inventando una serie di personaggi: Goliatha, una domestica scorbutica, la madre alcolizzata, un autista violentatore, il suo cane ed il suo megalomane editor, “miss Freud”, una spia, un fantasma… addirittura un topo! L è una donna chiusa in casa che fugge dall’angoscia quotidiana moltiplicando se stessa con il trasformismo e sforzandosi sempre di ridere. Ma, la ricerca dell’identità smarrita è un’impresa disperata. È il desolante, cinico ma vitale tentativo di riempire una vita trascorsa nella solitudine, di colmare almeno con la fantasia il vuoto di un’esistenza. Quel vuoto che porta L a immaginare di andare a dormire con un topo-findanzato di peluche ed una vecchia pelliccia per ricevere un po’ di calore. Per ripararsi dal freddo deserto dell’isolamento umano. Ma, L, la donna sul palco, è soprattutto una formidabile travolgente ed esuberante Eva Robin’s che, guidata dalla regia di Andrea Adriatico, interpreta magistralmente il ruolo delle protagonista de “Il frigo” di Copi, ovvero lo scrittore franco-argentino Raul Damonte. La Robin’s incarna con una graziosa e mai troppo acida ironia i vari personaggi sfruttando pienamente la sua ambiguità: è sicura competente, sa tenere la scena ed ottenere l’attenzione del pubblico. Gioca con la sua bellezza, mette in ridicolo il mondo della moda, sa essere femminile con i tacchi a spillo e mascolina quando indossa i baffi, riesce ad essere solare a far trasparire la malinconia del personaggio. L’attrice-trasformista cambia abito, muta la voce. È instancabile e regina della scena. Sembra che questo copione sia stato scritto appositamente per lei. Il binomio Copi- Robin’s è perfetto: il testo è surreale, ambiguo a volte ingombrante, proprio come Eva. E proprio come il frigo che diventa idolo e simbolo: un oggetto che troneggia nel salotto, spesso citato, ma mai aperto. Cosa c’è dentro? Non lo sapremo mai! Probabilmente non è neanche un frigo, ma un ascensore che, una volta preso, può condurci nel mondo della fantasia o alla realizzazione della propria identità.
(…) “Il frigo” si impone all’attenzione per due ragioni: per la presenza di Eva Robin’s e per la regia di Adriatico. Di questo giovane regista attivo in Bologna avevo visto due mesi fa l’eccellente “Il ritorno al deserto” di Koltès. Nell’atto unico di Copi, egli non solo conferma il proprio talento. Lo conferma rivelando uno stile tutto suo, cioè indipendente dal testo messo in scena. La scena de “Il frigo”, di Andrea Cinelli, è vista contemporaneamente di fronte e dall’alto. Leggiamo le indicazioni dei luoghi (di una casa) come in un’installazione di tipo concettuale; e, questa casa, la vediamo com’è, pop, geometrica, coloratissima: rossa la sedia, bianca e verde la parete che immette nelle stanze sottratte alla vista, nero il frigorifero-totem, un regalo della mamma alla protagonista, un’ex modella che compie cinquant’anni, si ritira dalla professione, intende scrivere le sue memorie, vorticose, sempre da aggiornare, dunque inscrivibili. Ciò che mi piace negli spettacoli di Adriatico è la sua volontà di tenere tutto sotto controllo, non vi è nessun movimento che sia casuale, la scansione matematica dei tempi e dei movimenti assomiglia alle sue fredde scene, che consentono agli eventi di acquisire luce e spicco. Non per nulla, come una molla, da una scatola appena scoperchiata salta fuori, con la sua prepotente e tuttavia delicata vitalità, la protagonista. Eva Robin’s è nello stesso tempo la figlia, la stupida, invadente madre, la occhialuta cameriera, la psicanalista (una bambola gonfiabile), un topo, un cane. Come cane, la Robin’s è meravigliosa. Raggiunge una punta di ironia prima mai vista, mai percepita. È impressionante anche il suo trasformismo, sia fisico sia verbale, ossia psico-fisico. Di volta in volta, è davvero ciò che rappresenta nello stesso tempo non essendolo, tenendosene cioè alla debita distanza. Se deve essere spiacevole, o antipatica, non si tira indietro. Ma tanto meno si tira indietro se deve essere seducente. Anzi, seducente lo è in modo formidabile: in un primo momento pensi che per Copi è un’interprete ideale, poi (come per il suo regista) pensi che Copi non c’entra nulla, viene dall’interprete superato nel suo stesso terreno di indecibilità, di instabilità, di provvisorietà dell’essere, e di suo incommensurabile fascino.
(…) E’ un monologo molto strampalato, in cui nell’imminenza del proprio compleanno una ex mannequein se la prende telefonicamente ma non solo con vari interlocutori, una madre che la ha mandato in regalo uno sgraditissimo frigidaire, un autista che a quanto pare (ma forse è una sua finzione) le entra in casa e la violenta, una cameriera poco duttile e via dicendo, compreso un topo che prima la disgusta rivelandosi dietro l’elettrodomestico, poi la commuove fino a farle pensare addirittura di prenderselo come partner. Compiendo eleganti evoluzioni su tacchi altissimi, Eva Robin’s cambia velocemente tenute e voce nell’incarnazione di più personaggi, risultando energica, spiritosa e ben sintonizzata con l’umorismo assurdista di un copione la cui giocosità fine a se stessa si esaurisce tuttavia abbastanza presto.
I fantasmi esistono. Vuoti, assenze e appuntamenti. Si parla a vuoto. Andare ma non evadere, dire e non dire. Eva Robin’s, nome d’arte di Roberto Coatti dal personaggio di Eva Kant e dal cognome dello scrittore Harold Robbins, interpreta Il Frigo, monologo di Copi, scrittore e fumettista franco­argentino, per la regia di Andrea Adriatico martedì 20 e mercoledì 21 novembre ai Teatri di Vita. Eva rappresenta i due sessi e la loro incomunicabilità. Eccentrica per natura, naturalmente esibizionista del suo corpo misto. Transessuale in transito, forse in transito o forse non si muoverà mai. Rispecchia in pieno la filosofia dei Teatri di Vita: “Teatro d’innovazione in cerca di stabilità”, o forse no. Istrionica e plateale nella vita e sulla scena. Il regista, Andrea Adriatico, riporta in scena Copi “con gli umori di oggi” per l’ottavo anno di repliche. Una Eva biblica tra peccato e santità, estranea alla vicenda e, allo stesso modo, partecipe. Partecipa ai lutti, agli stupri, ai monologhi tra gli Altri da sé. Straniera, diversa, estranea in casa propria. I personaggi che interpreta, proiezioni della sua stessa figura, fanno e affermano cose che non coincidono, non riescono a comunicare tra loro e recidivamente si ripetono intrattenendo rapporti di dipendenza patologici. Un impulso irrefrenabile a parlare di tutto e di niente. “Il silenzio è impossibile”. Si dice e si nega subito dopo, si denuncia una violenza e si acconsente subito dopo. Cucina, letto, pranzo, soggiorno. Quando lo spettatore entra in sala trova una planimetria schematica, essenziale e tridimensionale per quei pochi oggetti: una sedia rossa postmoderna, un telefono alla Cocteau, un campanello da pascolo e l’immancabile frigo. Un telefono che riesuma Cocteau con quel filo che si fa spartiacque tra fiume e riva. La protagonista L. è seduta immobile e non ricorda il suo nome. Luci assordanti che disturbano ma non turbano, passi veloci e trascinati, voci alterate e pose plastiche. Suona il telefono. Bussano alla porta. Adriatico costruisce una realtà plastica e immateriale, talmente realistica, pensata e progettata da risultare usa e getta. Una storia di stupri e violenze subiti e inventati. Una carta da parati psichedelica e una grande abilità nel cambiarsi d’abito e di voce. Eva, taciturna, posa lo sguardo su un punto cieco e aspetta a parlare finché l’ultimo spettatore si sia accomodato. Poi, a porte chiuse, un flusso di parole e pause. Piatti rotti, squilli, violenze scandiscono la dimensione del non tempo di cui è prigioniera. Niente scale, niente ascensore, nessuna via d’uscita. Aspetta il momento giusto per scrivere le sue memorie. Ogni giorno puntualmente violentata dal custode e infastidita dalla serva dà vita al suo doppio maschile in abito nero con baffi alla Chaplin, alla madre egoista che si fa viva per appuntamento e si riempie la bocca di soldi e gigolò, alla serva che, con la sua sciatta seducente grettezza, la pugnale alle spalle, al topo con gli occhi azzurri, alla psicanalista che altro non è che una bambola gonfiabile con una noce di cocco piumata per cappello. Intrattiene rapporti di amore estremo e selvaggio. Il sesso, l’incesto, il proibito per legge e natura è quel filo che tiene insieme i rapporti tra i personaggi. Una esuberante e timida Eva Robins, sobria e brilla, androgina e transessuale, sana e insana. Ermafrodita e nuda si svela agli occhi indiscreti del pubblico in una veste trasparente di piume che non lascia spazio alla fantasia sui due sessi. Metà donna e metà uomo. Sprovvista di metafore. In preda a uno schizofrenico travestitismo, fino a raggiungere le sembianze di un cane incontinente. Uomini che a più riprese bussano alla sua porta e abusano di lei con il suo tacito consenso. Urla di piacere. Gli spettatori rispondono all’ironia e si mostrano divertiti e partecipi. Una pentola al quarzo esplode. Luci spente. Si vuole pungolare lo spettatore nel sonno a cui induce la poltrona comoda del teatro. Si vuole una reazione fisica e intenzionale. Eva è disturbata emotivamente e sessualmente. Un fantasma retrò, sodomita incallita, baffuto masochista con una domanda in fondo all’anima: “Chi sono?” e una risposta: “Non usciremo mai di qua. Mai, mai, mai”. Una dura prova d’attore per Eva Robin’s che davanti a due disturbatori/molestatori dal pubblico non si fa intimidire ma continua imperterrita. I loro interventi si sovrappongono alle battute di L. I due “eroi da palcoscenico” si alzano in piedi e, a passi pesanti, si spostano in prima fila continuando a parlare e applaudire. Una dei due è una donna con accento anglosassone che comincia a filmare spettacolo e spettatore accanto. Una pazza rinchiusa in casa con un frigo misterioso in soggiorno. Un regalo della madre? Quel frigo che viene quasi aperto ma un urlo interrompe tutto. Cosa contiene il frigo di Copi? Il cadavere della madre? Un ascensore? Una cassaforte dove rinchiudere gli o/errori della vita, i ricordi di un passato mai vissuto veramente, di un presente sbagliato e di un futuro incerto. Il frigo diventa, nelle intenzioni di L., una tomba da seppellire in fondo alla terra insieme alle ceneri del padre morto da tempo. Una sola certezza: L. è prigioniera di quel rifugio che è la sua casa, vittima della solitudine e di quel frigo. “Cosa aspettate? Nel Frigo spuntato nel salotto di Eva Robin’s c’è posto anche per voi. Tra un cane incontinente e un topo innamorato…”