Giorni felici
di Samuel Beckett
uno spettacolo di Andrea Adriatico
con Eva Robin’s e Gianluca Enria
aiuto regia daniela cotti
costumi isabella sensini
scene andrea cinelli
fotografia raffaella cavalieri
tecnica alberto irrera
produzione esecutiva saverio peschechera con mariaconcetta mercuri e monica nicoli
materiali di scena Modì, Intex
Debutto: Bologna, Teatri di Vita, 16 aprile 2009.
Scritto da Samuel Beckett nel 1961, Giorni felici è uno dei testi più famosi dell’autore, composto a ridosso del suo matrimonio con Suzanne Deschevaux-Dusmenil, dopo più di vent’anni di convivenza. L’opera è l’unica di Samuel Beckett a vedere in scena una coppia di sposi: lei interrata fino alla vita e logorroica nel rievocare i “giorni felici”; lui distante e silenzioso.
Andrea Adriatico reinterpreta quest’opera proprio alla luce del rapporto di coppia, facendone emergere sia gli aspetti più intimi e domestici, sia gli elementi che rimandano alla sessualità e all’erotismo. In scena Eva Robin’s e Gianluca Enria sono impegnati in questo duetto tragicomico.
Lo spettacolo è stato presentato la prima volta il 16 aprile 2009 insieme a Non io e Dondolo.
Lo spettacolo fa parte della serie Non io nei giorni felici. Samuel Beckett visto da Andrea Adriatico.
Su questa serie è stato scritto l’omonimo libro che contiene visioni critiche e analisi saggistiche.
Visioni critiche
Il regista e direttore artistico di Teatri di Vita ha realizzato un ciclo di quattro rappresentazioni del drammaturgo irlandese intitolato: Non io nei giorni felici. Samuel Beckett visto da Andrea Adriatico.
A concludere la rassegna è l’opera Non io, interpretata da Francesca Mazza e andata in scena dall’11 al 14 Dicembre.
Entrato in sala, il pubblico si trova al cospetto di una scena decisamente inquietante: un piccolo cerchio di erba, su cui incombe un enorme cilindro di stoffa bianca, al centro del quale vaga una figura femminile incappucciata. La donna indossa una veste nera che ricopre totalmente il corpo, viso e occhi compresi, creando un’immagine claustrofobica e spettrale. Scoperti rimangono solamente i piedi nudi, che con calma e determinata insicurezza percorrono tutti i centimetri a disposizione sul campo, e la bocca, protagonista assoluta dell’opera insieme alla voce. Composto nel 1972, il monologo racconta alcune vicissitudini dell’esistenza di un’anziana donna. Nata prematura, abbandonata dai genitori, ha passato l’infanzia in un orfanotrofio religioso, ora vive isolata, ai margini della società, senza aver mai conosciuto affetto né amore.
Il testo è decisamente complesso, difficile da seguire, criptico, inanellato tra continue ripetizioni e troncato da brusche interruzioni che non danno mai la possibilità di ricostruire pienamente gli avvenimenti. Questo perché, più che sulla vicenda, l’attenzione è posta sulla donna e sul suo modo di ricordare e di raccontarsi.
La narrazione, a parte qualche informazione iniziale, non possiede un filo logico ma alcuni leit motiv che la scandiscono. In particolare, due sono i ricordi che tormentano la protagonista: l’improvvisa esplosione di una cascata di parole, avvenuta un giorno d’inverno quando lei, sempre muta, si è ritrovata a parlare per strada, vomitando discorsi sconnessi sui passanti. E, altro punto chiave, un lampo di buio che ha colpito la sua mente durante un pomeriggio di aprile passato su un prato, lasciandole all’interno un misterioso, costante ed insistente ronzio.
La donna, vittima di una sorta di sdoppiamento, parla in terza persona: non ammette di aver vissuto quegli avvenimenti, nega sempre con sdegno il suo coinvolgimento in una vita così misera, reiterando con veemenza quel “non io, lei” che dà il titolo al monologo.
Spesso si rivolge ad un interlocutore, una sorta di coscienza esterna, che chiarifica e corregge i suoi pensieri confusi. Perché, altro tratto fondamentale, non solo i ricordi le sono estranei e inaccettabili, ma risultano anche indicibili: non riesce ad esprimere pienamente quello che ha provato e ritorna, più e più volte, sulle stesse frasi e sugli stessi concetti, non potendo descriverli diversamente.
Il personaggio, attraverso la recitazione misurata ed efficace di Francesca Mazza, affronta una ricerca che scava all’interno della memoria, della vita e dello spazio che lo circonda. Lo fa con dolorosa rassegnazione, procedendo a stento attraverso le difficoltà della comprensione e della comunicazione. Imprigionata da quella sorta di sudario nero, racchiusa in una prigione cilindrica che la conquista e protegge al tempo stesso, senza la possibilità di liberarsi dai suoi limiti, fisici e mentali.
In Non io si dovrebbe percepire solo una Bocca che sputa frasi a velocità impressionate (l’autore fece stringere i tempi da 20 a 12 minuti nell’edizione inglese). E invece il regista chiude Francesca Mazza in una prigione trasparente, su un verde prato. All’inizio è intabarrata in una specie di burqa che lascia vedere unicamente i piedi e la bocca. Sarà liberata più avanti, ma non dal peso delle parole, che scorrono per 40 minuti, sottolineate e dilatate con lunghe pause, in una scansione quasi sofferta, immedesimata e distante, a rievocare anni di mutismo, di vita non vissuta o guardata dall’esterno e l’improvviso bagliore di una pentecoste della solitudine.
Giorni felici, invece, è asciugato a circa un’ora di spumeggiante dolore della ripetizione. Winnie è Eva Robin’s, sprofondata a seno nudo in una vasca piena di mele rosse; il marito (Gianluca Enria) si crogiola in costume adamitico, masturbandosi sotto un asciugamano rosso, in un paradiso terrestre dove il frutto del peccato originale è proliferato a ingabbiare verso una fine colorata e profumata. Tutto è incentrato sui rapporti distanti tra i due, con ironia e follia, con le mossette e le profondità di un’Eva Robin’s che porta Winnie nel “suo” personaggio, svagata e pungente, con qualche papera e mobili occhi prigionieri. Un Beckett ritrovato da Duchamp.
In Dondolo una voce avanza nella semioscurità in quattro sequenze interrotte dal buio completo e dal grido disperato della protagonista che chiede di continuare, fino alla fine. Terra sotto l’avanzare di un carrello che trasporta un essere favoloso, misterioso, vecchia, giovane, corpo nudo offerto, mostro, persona che ha pianto esplorando l’inutilità della vita. Splendido il lirismo trattenuto di Angela Baraldi, fragile guerriera. Adriatico crea tre forti metafore spaziali e fisiche, capaci di riscoprire con diretta inquieta semplicità lo spessore dei testi.
La performance è stata ripresa dal regista con filologica fedeltà a quella prima versione, pur riacquistando il titolo originario voluto dall’autore irlandese, Dondolo, ma si innesta ora all’interno di una trilogia tutta coniugata al femminile, cui si è dato il titolo d’insieme di Non io nei giorni felici, con palese riferimento agli altri due tratti che la compongono (fino al 29 invade gli spazi dei Teatri di Vita e si può vedere anche a pezzi). E’ cambiata l’interprete (diversa e brava è Angela Baraldi che nella tensione immobile del corpo concentra una sorta di forza tragica), ma il senso del lavoro resta, legato a quel moto lineare di avvicinamento che si sostituisce al moto pendolare del testo. Cambiando non solo la prospettiva dello sguardo ma con la distanza anche la messa a fuoco di quell’immagine.
Beckett è un classico, si sa. VuoI dire che nella memoria ciascuno spettatore del suo teatro ha sedimentato una personale galleria di immagini, giacché sulla variazione si incardina la classicità. Per dire, volendo restare ai testi della serata, il lieve gesto in levare della mano di Piera Degli Esposti a ogni ripresa del flusso, verbale del suo Dondolo, emozionante per la quantità di vita che si concentrava in quella sola parola, “Ancóra”; o magari la Winnie di Marion D’Amburgo che chissà perché nella memoria si staglia più nitida della grande Natasha Parry.
Ma Beckett è soprattutto un grande creatore di situazioni, via via più estreme con l’avanzare della sua scrittura verso un beffardo svuotamento nel puro gesto dell’atto senza parole o della maschera di Buster Keaton o nel profluvio di parole disincarnate. Il corpo per metà interrato della protagonista di Giorni felici, la Bocca senza corpo di Non io. Una vera e propria sfida all’interprete, dibattuto fra gli estremi della mera adesione o della negazione creativa. E peggio ancora per i tanti ancora attardati sulla psicologia dei personaggi, sulla loro condizione esistenziale. Che lui se la ridesse di tanta seriosità, il grande burlador,l’abbiamo sempre sospettato.
Non a caso il tratto meno felice della serata è qui proprio Non io, che finisce per trasformare in personaggio quel che è solo un portaparola, una bocca appunto, che dovrebbe emergere dal nulla, nel buio, dialogante con un immobile Ascoltatore. Ecco invece una figura velata sotto una sorta di burka nero che si aggira, in piena luce, nel cerchio di un prato artificiale che fa da base a una sorta di voliera di tulle. E quando poi il velo le si sfila di dosso verso l’alto, come già aveva fatto la voliera, quel che appare è una figura femminile (Francesca Mazza) che dice un suo monologo drammatico, disseminando per la scena i petali di un mazzolino di fiori bianchi.
Non può deludere invece l’ilare agonia di Giorni felici. Qui poi l’impianto scenico sorprende e diverte. In luogo del convenzionale monticello c’è una vasca colma di odorose mele rosse (varietà Modì, al termine se ne possono anche mangiare), che a tratti cadono pure dall’alto. E lì dentro sta immersa la Winnie di Eva Robin’s, col corredo della grande borsa nera in cui caccia dentro la testa per tirare fuori le sue vecchie cose. Specchietto e rossetto e pistola. Gli occhiali e la lente con cui, facendo buffe smorfie, cerca di leggere la scritta apposta su uno spazzolino. L’ombrellino da sole incautamente di pizzo nero, che però non prenderà fuoco. La didascalia esplicativa di ogni suo gesto o pausa è ribadita dall’uomo che le sta dietro, sdraiato nudo al sole di quell’ultima spiaggia. Dove lei va sprofondando fino al collo senza perdere l’abituale ottimismo. Amarti ma a fatica, dice la sua canzone.
Metafora di una condizione esistenziale? Se così vi piace. Beckett non cessa di suggerire che quelli sono attori, che di teatro si tratta. Il teatro è una macchina di pensiero che funziona se è in grado di mettere in moto altre relazioni, se non si chiude in una interpretazione. Lo spettacolo ne è solo l’occasione.
Cosa c’è di sbagliato nel modo in cui Andrea Adriatico riunisce tre soliloqui femminili, Non io, Giorni felici e Dondolo? ll regista annunciava di volerli affrontare nell’insolita chiave di un sottile erotismo. Come si esprime, questo erotismo? Nel fatto che la bocca senza corpo al centro della prima pièce si liberi del burka nero che copre ogni altra sua parte anatomica, e si rotoli languidamente in un prato? Che la Winnie ermafrodita di Eva Robin’s sia immersa a seno scoperto in un mucchio di mele? O che l’anziana protagonista di Dondolo non sia affatto anziana ma si stagli, nuda e statuaria, su una sedia che scorre, nella penombra?
E’ ovvio, e proprio questo approccio lo conferma, che nei testi di Beckett non c’è, non ci può essere posto per l’erotismo: il suo teatro è tutto fatto di corpi atrofizzati, di parole raggelate, di pensieri ripetitivi. Se una dimensione sessuale eventualmente si manifesta nei suoi personaggi, essa tutt’al più appartiene al passato: e si sa che non esiste nulla di meno erotico del passato, che è memoria inappagata, o peggio ancora rimpianto.
Ma il problema, qui, non è ciò che manca, è ciò che si vede e si sente. Alla ricerca di un presunto abbandono sensuale, Adriatico punta su una recitazione sottotono, sussurrata, esageratamente introspettiva: trasformando dunque Non io in una discesa nella psiche e Giorni felici in un quadretto di infelicità coniugale, o interiorizzando la voce esterna, registrata di Dondolo, fa il contrario di quanto l’autore ha inteso scrivere, li riduce a storie personali, private, laddove le figure beckettiane si affannano in genere a parlare “in nome dell’umanità”.
Nell’insieme, dagli inutili su e giù del grande bozzolo di tela di Non io o dal tentativo di spostare il monologo di Winnie verso una sorta di dialogo col marito – cui è affidata la lettura delle didascalie – emerge un’idea un po’ vecchia della messinscena, dove i testi passano in secondo piano, e conta solo l’invenzione del regista: è una scelta che penalizza le attrici, Francesca Mazza, Angela Baraldi e la stessa Robin’s, frenate, ingabbiate in un percorso comune il cui fine, per quanto ci si pensi, non è chiaro.
Francesca Mazza è eccellente interprete di Non io, di cui il regista stravolge le indicazioni sceniche dell’autore, per ricreare e reinterpretare il testo, facendo emergere nuove suggestioni. L’attrice è prigioniera di una gabbia di tela bianca con pavimento di erba sintetica – che estrinseca uno dei momenti chiave dell’infelice vita della protagonista, per quanto si evince dal testo – e all’inizio indossa un burqa che lascia scoperta solo l’apertura della Bocca, la parte che prende il sopravvento sull’individuo; si vedono i piedi con le unghie smaltate di rosso, gli occhi sono chiusi/segnati da spille da balia, in mano reca margherite bianche che sfoglia mentre il monologo, molto pausato, procede. La gabbia poi si alza, l’attrice è spogliata dal burqa, si aggira (o, meglio, vagola) per il prato, dentro e fuori, riceve una pioggia di petali bianchi che rappresentano le sue lacrime (e ciò conferisce un significato straziante ai fiori che inizialmente teneva in mano). Poi la gabbia progressivamente ricade, imprigiona ancora, mentre le parole non cessano. Il generale rallentamento voluto dalla messa in scena impone un’introspezione maggiore ad un testo altrimenti vomitato fino quasi all’incomprensibilità: l’universale dramma della condizione umana rimane, ma è meglio veicolato dall’attenzione all’anonima protagonista femminile, che aggiunge alla voce una corporalità comunque negata, come sottolinea la scelta dell’abito e l’assenza di ogni forma di piacere (mai provato anche quando avrebbe dovuto). Da brividi alcuni gesti della Mazza, come il tentativo fallito di gridare e il quando, fuori dal prato, si volta di scatto additando l’altra (‘lei’) dentro, ma assente (non io, appunto). E ancora le ombre proiettate sulla prigione. Mi pento di non aver applaudito di più!
In Giorni felici il cumulo di terra è sostituito da una piscina di mele rosse (con ringraziamento all’insolito sponsor all’uscita), con alcune che cadono violentemente dal soffitto, quasi a scandire il tempo (un espediente simile – allora un tuono – era stato impiegato da Adriatico nella messa in scena di Orgia). Eva Robin’s è Winnie, immersa (nel primo atto a seno nudo) nelle mele; dietro di lei è sdraiato nudo Willie, interpretato da Gianluca Enria, che recita le didascalie del testo, “come a suggerire l’idea che conosca a memoria i vuoti gesti ripetitivi della moglie, descrivendo così la monotona ed eterna routine della coppia” (d’accordo con te in questo). Anche qui la tensione all’universale del testo è trasmessa per mezzo dell’abbassamento della vicenda ad una dimensione (quasi) quotidiana, nello squallore di una coppia, incapace persino di una sessualità condivisa (Willie si masturba sotto un asciugamano guardando video porno).
Angela Baraldi è l’inaspettatamente giovane interprete di Dondolo, puro testo “dodecafonico” (bellissima la tua definizione): seduta in lacrime su una sedia lentamente trasportata verso il pubblico dal fondo della ribalta coperta di macerie, offre una convincente prova attoriale.
Nel complesso, bravi gli attori e interessante la messa in scena, che dimostra che non esiste un’ortodossia beckettiana: come insegna la tradizione (pro captu lectoris habent sua fata libelli), i testi teatrali vivono anche e soprattutto di tradimenti e di messe in scena sempre nuove, che possono piacere, infastidire o annoiare. Questo trittico mi (ci) è piaciuto!
Catapultiamoci ora in un’altra ambientazione: al centro di un’altra stanza una grande struttura cilindrica, dalle pareti rivestite di un tessuto bianco semitrasparente ed elasticizzato ospita al suo interno Bocca (Francesca Mazza) e il suo effluvio di parole bisbigliate, pacatamente pronunciate. La protagonista è inizialmente coperta da una tunica nera che le lascia scoperta unicamente la bocca. Solo in seguito la tunica, attaccata sulla parte superiore corrispondente al cranio ad un filo, verrà tirata su. La componente del “sentirsi tirar su” tipica dei personaggi beckettiani, costretti invece nel loro “buco sotterraneo”, viene qui, a buon ragione, evidenziata. Delicata la recitazione di Francesca Mazza: mostra una donna spaurita ma che nello stesso tempo non riesce più a controllare una parte del suo corpo che reclama di poter gridare…
Diametralmente opposta la donna di Dondolo: la freddezza e la potenza della voce di Angela Baraldi, interprete di “D” rompe il silenzio ed il buio nel quale s’immerge lo spettatore ancor prima che la messa in scena inizi. Dapprima il buio più totale, interrotto unicamente dalla luce rossa lampeggiante della radiosveglia che segnala l’ora. Poi lo spot inizia ad illuminare l’immagine di “D” che avanza lentamente, poggiata immobile ad una sedia in una posizione di tensione muscolare, trasportata da un carrellino tirato da “una mano invisibile”. Man mano che la nuda figura avanza il fascio di luce dello spot rileva resti di rose rosse disseminate sul pavimento.
Tre donne intrappolate nei loro resti. Tre tentativi immobili di una redenzione che non ci sarà mai.
L’idea di Non io, composto nel 1972, vera e propria sfida per le attrici che lo hanno impersonato, a partire da Jessica Tandy (prima assoluta al Beckett Festival di New York nel 1973), nasce da un viaggio di Beckett nel sud dell’Irlanda e dal casuale incontro con una vecchia homeless. Adriatico riscrive il personaggio, mette in scena la storia di una donna che vive ai margini della società, interpretata abilmente da Francesca Mazza vestita con una djellaba, tunica tipica di molte tribù del deserto africano. La costrizione di quell’abito scuro, cucito persino nelle fessure degli occhi, non lascia scampo, se non all’unica vera protagonista di questa pièce, una bocca che parla di se stessa e compiange il fallimento della sua infelice esistenza. Persiste il ricordo di un pomeriggio di aprile, “Cosa? Chi? No! Lei!”, sulla scena scandita da un sospeso silenzio, dove assenza e presenza si fondono e si confondono allo stesso tempo. Al centro dello spazio scenico, ampiamente illuminato, un’elegante voliera avvolge il ricordo, soffoca le voci, dilata le attese. Intorno al pulpito il tempo è sospeso, mette in guardia il pubblico attento, che deve farsi tenace uditore e supera un breve blocco emotivo o prima di esprimere il suo pieno apprezzamento.
Non c’è perdita di contatto tra una messa in scena e l’altra e se la scelta di assaggiarle tutte nella stessa sera o vederle in serate diverse tocca allo spettatore, la circostanza è favorevole per immergersi in successive seducenti atmosfere.
Dondolo, più breve e scritto in un atto unico nel 1980, mette in scena la straordinaria Angela Baraldi imprigionata nella sensualità di una scomoda, prolungata inazione. Il tocco di Adriatico pone l’accento su una morbida pornografia della materia. La carne e i sensi si fondono in un continuo ripetersi di frasi che sottolineano l’incessante fluire del tempo e delle cose in un ambiente non ben definito. Il movimento meccanico di una sedia che avanza verso il pubblico, sino a dematerializzarsi alle sue spalle, accentua lo straniamento, amplificato dal perpetuo ripetersi della parola “Ancora” e poi scompare.
Affermare la propria esistenza, seppur reputata come la peggiore possibile, è il compito di Eva Robin’s, inguaribile esibizionista della parola in Giorni felici. Winnie, impersonata dalla femme fatale, in fondo è felice, le sue parole lo sono sicuramente sia nei confronti del marito, sia rispetto alla sua stessa condizione. Così ogni giorno è “un altro giorno divino”. Interrata in una vasca piena di mele, la donna, seppure immobile, strapazza con le sue parole il pubblico seduto a bordo piscina e tira fuori da una borsa svariati oggetti che animano la scena. Un pettine, uno spazzolino da denti, un dentifricio, un rossetto, una lima per unghie, uno specchio, un organetto che suona seduttore nel racconto. Saltano fuori perfino un parasole ed una rivoltella, adorabile feticcio da accarezzare. Nell’assurdità e nell’inazione del contesto, striscia nudo come un verme l’inaspettato marito Willie, qui interpretato da Gianluca Enria. Il dialogo tra i due sfiora ironicamente l’esasperazione, tra i monosillabi di lui e lo straparlare di lei che continua ad affermare, senza ombra di dubbio, che la giornata sarà sicuramente un altro giorno felice. Il pubblico lo riconosce, galeotto fu il frutto e chi lo mangiò.
Non io nei giorni felici tenta ora della tragedia dell’assurdo una lettura fortemente emotiva, a tratti ironica, che di Beckett tuttavia trafuga più l’idea che il sussulto. A cominciare lo straniante viaggio nell’universo del non-sense è, a luci rigorosamente accese, Non io, dove una figura femminile (la brava Francesca Mazza), coperta da un ingombrante e anomalo chador, lascia spazio solo al paro libero della bocca. E’ con lei, la Bocca, che nell’universo sospeso si nasce, si vive e ci si distende nella circolarità di un cerchio senza uscita, in cui si cammina, placidamente spaesati, come sull’erba di un prato. Una Winnie immersa in una piscina piena di mele rosse fa invece la sua comparsa in Giorni felici, dove la Robin’s dona alla protagonista angolature comico-grottesche, perennemente anelante le attenzioni di Gianluca Enria, un Willie trasformato in vero e proprio bellimbusto da spiaggia, che tuttavia finisce per ridurre a “romantico” botta e risposta l’inesorabile consistenza piatta della sua personale confusione. Piuttosto retoriche anche le mele, trovata dal forte impatto visivo, che però scade nel supposto rimando all’origine. A completare il quadro è infine la volta di Dondolo, il migliore, a nostro parere, dei tre exempla. Qui il dondolo non dondola, avanza, lentamente, mentre una figura ieratica, quasi mitica nella sua semplicità sofferente, nuda nella sua impotenza costretta, condivide con il pubblico il fluire incessante del tempo. Nessun lamento, nessuna cantilena, solo un po’ di disprezzo, soffocato e austero, che Angela Baraldi impersona con commozione e precisione.
Più interessante della prova registica e attorica, in Non io nei giorni felici è forse, in senso stretto, il punto di vista. A intrecciarsi con la parola inconcludente sono infatti anche le prospettive della visione: uno sguardo drammatico e conforme alla parola, sospeso tra i confini del cerchio, capace di fare lo spettatore partecipe, di volta in volta, di rinnovati “additamenti”, ora verso l’alto ora verso il basso e, ancora, di sbieco. Un lungo pellegrinaggio nel dubbio beckettiano è quello di Andrea Adiratico, che sceglie di completarsi in ultimo, con il sapore della quotidianità, con la mela di Modì della nostra Eva-Winnie, che al primo intervallo e all’uscita ci viene gentilmente offerta dal teatro. Ecco allora il foyer popolarsi ben presto di simpatiche lanterne rosse, che passano di qui e di là per le nostre mani… agricoltura biologica, dicono, ma non ci crediamo. La sensazione che permane è infatti la stessa dell’intera operazione: si lascia mordere ma non sazia.