fuga
un pezzo dedicato a bernard-marie koltès
drammaturgia di stefano casi
con il lavoro di andrea adriatico, clotilde del guercio, daniela cotti, emanuela pierucci, eriberto rosano, fabio michelini, iris faigle, marc richman, monica saccomandi, paola contento, patrizia bernardi, sokol keci
fotografia di filippo partesotti
una coproduzione :riflessi società di pensieri – Santarcangelo dei Teatri d’Europa
in collaborazione con Associazione Culturale Italo-Francese, United Colors of Benetton, Lila Lega Italiana per la Lotta contro l’Aids, ProPositivo
Prima rappresentazione: Santarcangelo, Sala Polivalente, 17 gennaio 1992
Visioni critiche
Sulla scena, mirabilmente allestita dal gruppo e dilatata fino a ricomprendere anche la platea compresi gli spettatori, si muovono otto personaggi diversi, ma tutti dominati da un destino segnato e consumati dalla sorda e cruda realtà di una città di oggi. Una città fagocitante, che impedisce ogni sorta di comunicazione e che ospita, a fatica, certe tipologie di paesaggi umani, come quello dominato dalla follia, dall’opportunismo, dall’indifferenza o dalla rassegnazione.
Questa metafora del deserto e del sole che inaridisce come l’amore torna in Fuga, messo in scena da Andrea Adriatico, un regista al suo notevole debutto. Fin dal titolo, il giovane regista annuncia la sua posizione nei confronti di Koltès. Il quartetto che è al centro dell’ultralirico romanzo è fissato in uno spazio astratto, metafisico, platonico: come se dannazione e male fossero indici di una purezza a priori, tutta bianca, tutta lucente.
Si viene immessi in uno spazio apparentemente “religioso”, dove spiccano inizialmente, a mo’ di tableaux statico, otto personaggi diversi nel look, ma accomunati da storie parallele di disagio, di ossessioni, di disattamento, di imprecazione iterata nei confronti di una maledetta città e di una vita disgregata. Evocazioni filtrate dai monologhi intrecciati e dai dialoghi brevi e frammentati dei personaggi giostrati dalla regia di Adriatico in percorsi obliquamente geometricamente obbligati, e sclerotizzati in movimenti quasi minimali.
Un gruppo immobile già all’inizio accoglie i quindici spettatori ammessi sul palcoscenico di Spaziouno, trasformato in una stanza tutta bianca che si sdoppia in un secondo locale dietro bianchi pannelli girevoli e qualche gradino: sul pavimento come un tappeto ecco il manifesto Benetton-Toscani sulla mafia, e quello sulla morte per Aids sotto una finestra da cui una donna smetterà di spiare lo spettacolo solo per intonare Romagna mia. E’ questa la sola licenza nella elegante cornice asettica, dove gli attori fluttuano con intenti sofisticati, esprimendo senza immedesimarvisi i personaggi.
Un’opera affascinante, scultorea, ipnotica e difficile da decodificare, impastata di significati e di rimandi, aggrovigliata come una foresta nella purezza di linee architettoniche e cromatiche della scena e dei costumi, quasi come la tragedia di Edoardo II nell arilettura di Derek Jarman.
Fuga racchiude in un involucro di meditata eleganza quella fusione incandescente di abiezione e di sublime che segna la scrittura di Koltès, e si evidenzia per l’incantata qualità con cui impagina sulla scena le frammentate tensioni che percorrono il testo.
E’ come un concerto di musica contemporanea, con voci apparentemente stonate, con sussulti improvvisi, con canti disperati, la parola ha appena modo di dare corpo ad un significato, di teorizzare l’ipotesi di un valore possibile. E’ difficile raccontare i singoli percorsi degli otto personaggi/immagine. Perché si presentano come esseri monologanti in un mondo che non li ascolta. Al centro dello spazio campeggia il manifesto pubblicitario della Benettonn riverberato, di lato, in una insegna al neon: è forse quello il referente urbano cui dobbiamo appigliarci? E’ là il punto di una tragedia già avvenuta? Oppure vi si espone la necessità di una riflessione che i mass media tendono a sorpassare?
Gli spettatori sono invitati a prendere posto sul palcoscenico, a ridosso degli interpreti e, da voyeur dichiarati, a guardare immobili sulle loro seggioline da garden-party le figurazioni ferme e ieratiche, da moderno tableau vivant, degli attori che si limitano ad apparire, a proiettare nello spazio frigido e bianchissimo di un palco-atelier cinto di morbidi veli di tulle i loro corpi fasciati nello sparato bianco e nero dello smoking e languidamente carezzati dai lini chiarissimi e dalle cupe guaine color fiamma e color fucsia delle toilettes femminili.