evǝ

riflessǝ in Andrea Adriatico

di Jo Clifford

traduzione di Stefano Casi

con Eva Robin’s, Patrizia Bernardi, Rose Freeman

e Anas Arqawi, Met Decay, Saverio Peschechera

scene e costumi di Andrea Barberini e Giovanni Santecchia

immagine e grafica di Filippo Partesotti

cura di Saverio Peschechera

tecnica Lorenzo Fedi

produzione Teatri di Vita

con il sostegno di Comune di Bologna, Regione Emilia-Romagna, Ministero della Cultura

in accordo con Arcadia & Ricono ltd

per gentile concessione di Alan Brodie representation limited.

Debutto: Bari, Teatro Kismet, 13 novembre 2021

“Salve uomini, salve donne. E chi di voi non è né signora né signore, e né uomo né donna. Ma come me. Forse qualcosa nel mezzo o forse qualcosa che ha un po’ dell’uno e un po’ dell’altra o un qualcosa o un chi non è stato ancora pensato o immaginato…”

Metterò Dio sul banco degli imputati e gli dirò: sto conducendo un’inchiesta giudiziaria che potrebbe portare a un procedimento penale, un’indagine sulla natura di Dio e la storia del libro della Genesi…”

In origine Dio creò l’uomo, poi anche la donna da una sua costola, ma solo come un ripiego, solo perché Adamo non aveva trovato l’animale giusto con cui passare il tempo. Così sta scritto nella Genesi, e così è rimasto nelle società improntate al patriarcato e al sessismo, fino a oggi. Lo ricorda Jo Clifford nel graffiante “evǝ”, che porta in scena i racconti, di volta in volta comici, caustici, drammatici, fantasiosi, di persone che non si vogliono identificare in quella storia biblica di subalternità e rigida divisione binaria, perché sono donne, uomini, e anche qualcosa in mezzo. Andrea Adriatico ritorna a indagare sui temi di genere con una compagnia di tantǝ “evǝ” che moltiplicano l’originario monologo in un coro di identità e fluidità.

Jo Clifford è una drammaturga e performer inglese, di base a Edimburgo, ha scritto oltre cento opere teatrali, e le è stato assegnato il premio Olwen Wymark. Tra le sue opere, il controverso The gospel according to Jesus, queen of Heaven. God’s new frock, titolo originale di evǝ, è stato scritto nel 2002 e presentato in Italia nel 2007 all’interno di Intercity Festival. Durante il lockdown ha scritto svariati pezzi per teatri e radio inglesi, oltre che due brevi sequenze teatrali per la sua compagnia Queen Jesus Productions. Attualmente sta lavorando all’opera The not so ugly duckling con Maria MacDonel e The Covid requiem con Lesley Orr per il teatro di Pitlochry.

Andrea Adriatico compone partiture della parola e dello spazio, facendo base nella “casa” bolognese di Teatri di Vita creata nel 1993: spettacoli che spesso incontrano drammaturgie dense come quelle di Koltès, Pasolini, Beckett, Copi, Jelinek, interlocutori privilegiati di un modo autorale di creare concerti di corpi e voci, attraversando con i suoi lavori numerosi festival da Santarcangelo alla Biennale Teatro. Al cinema racconta rimozioni intime e pubbliche in documentari e film drammatici, presentati e premiati in festival internazionali, fino all’ultimo Gli anni amari, prodotto con Rai Cinema e dedicato alla vita di Mario Mieli

Eva Robin’s, icona trans dello spettacolo italiano, alterna la sua presenza come attrice in televisione, al cinema (in film diretti da Dario Argento, Damiano Damiani, Maurizio Nichetti, Alessandro Benvenuti) e in teatro, dove debutta nel 1993 al Festival di Santarcangelo ne La voce umana con la regia di Andrea Adriatico, con il quale calca le scene in molti altri spettacoli, attraversando autori come Cocteau, Copi, Beckett, Jelinek. Sempre in teatro ha lavorato con altri registi come Valter Malosti e Leo Muscato (in Tutto su mia madre, che le è anche valso la nomination al premio Ubu 2011).

Patrizia Bernardi è attrice e cofondatrice insieme a Andrea Adriatico di Teatri di Vita e della compagnia :riflessi. Come attrice, è stata diretta da Adriatico in numerosi spettacoli, come Is, is oil, Un pezzo per sport, La maschia e Madame de Sade, per il quale viene candidata nel 1999 al premio Ubu come migliore attrice. Dal 2009 è tra le protagoniste della rinascita culturale de L’Aquila con l’associazione Animammersa, nata dall’esigenza di raccontare e raccogliere attraverso diverse forme d’arte le testimonianze sul terremoto che ha distrutto la città, con la creazione di spettacoli e progetti artistici .

Rose Freeman è regista e performer, scrive, insegna e produce teatro. In particolare ha diretto, tra l’altro Die Liebe der Danae di Strauss al Pittsburgh Opera Festival, L’histoire du soldat di Stravinskij alla Temple University, Die Freischütz di Weber al Third Eye Theatre, che ha contribuito a fondare. Ha diretto opere liriche, spettacoli teatrali, performance di burlesque, concerti hip hop, e conduce workshop di opera e musical. Insegna alla Temple University di Philadelphia, dopo aver insegnato a Chicago. Il suo pronome gender-neutro è “zie/zir”.

Anas Arqawi ha studiato teatro al Freedom Theatre di Jenin in Palestina, dove ha poi recitato in spettacoli diretti da Nabil Al-Raee e Micaela Miranda. A Teatri di Vita, con la regia di Andrea Adriatico, ha preso parte a La maschia di Claire Dowie e al film Gli anni amari.

Met Decay, danzatrice e performer, ha preso parte, tra l’altro, a spettacoli con il Teatro di Sacco (per la regia di Roberto Bisulli) e con i coreografi Daniela Malusardi, Mauro Bigonzetti, Sara Libori e Arianna De Angelis Marocco.


Versione inglese qui.

Visioni critiche

Pre-giudizio.
La prima parola che mi è venuta in mente ripensando a Evə di Jo Clifford, opera teatrale vista ieri sera a Teatri di Vita nella messa in scena di Andrea Adriatico, è stata ‘pregiudizio’, che significa avere un’opinione preconcetta su qualcuno o qualcosa basata su falsità o, addirittura, su concetti imposti con la forza.
Le imposizioni con la forza, di carattere prettamente maschile, si sono dimostrate innanzitutto in ambito religioso, attraverso vari dogmi, tutti comunque d’accordo nel farci credere che Dio, entità da cui dovrebbe essere nato tutto ciò che vediamo, è maschio e, in alcuni casi, pure dotato di lunga barba bianca.
Invece, guarda caso, Elohim, nome ebraico attribuito a Dio nell’Antico Testamento, è grammaticalmente un nome plurale e femminile dove non c’è alcuna traccia di mascolinità come avremmo dovuto da soli capire visto che le acque dove Elohim sguazzava prima della creazione altro non potevano essere che il liquido amniotico dentro cui si forma l’individuo che può essere maschio, femmina o qualcuno che sta nel mezzo.
Jo Clifford, drammaturga transessuale di Edimburgo, sta proprio nel mezzo e sua è quest’opera iconoclasta, portata in scena con gusto e sapiente regia da Andrea Adriatico che ha ‘rinchiuso’ i sei protagonisti in cilindri di plexiglas la cui trasparenza non basta a renderli liberi dai vincoli imposti da una società resa ‘binaria’ dal pregiudizio di cui sopra e incapace di accettare l’idea, dimostrata dai fatti, che gli esseri umani non possono essere clusterizzati in rigide categorie.
La fluidità di genere, così osteggiata dalla destra arcaica che ci governa ma anche da parte della sinistra, è un dato di fatto che altrove, soprattutto nel Nord Europa, è stata assorbita come concetto e fatta propria soprattutto dalle giovani generazioni che hanno una marcia in più e un pregiudizio in meno rispetto a noi giovani di un tempo.
Bravissimi, ironici, autoironici e pure simpatici i sei attori che, allineati e di bianco vestiti su sfondo verde pisello, ci conducono in un viaggio alla ricerca di noi stessi.
Un viaggio che si propone di eliminare i pregiudizi e fare capire a tutti, nessuno escluso, chi siamo davvero.

evǝ, titolo originale God’s New Frock, di Jo Clifford «riflessǝ in Andrea Adriatico» per la traduzione di Stefano Casi, è andato in scena all’ Off/Off Theatre in una sala gremita, attenta al testo e grata negli applausi. Sei tubi di plexiglass, con all’interno delle persone indossanti delle tuniche talari, sono ordinati, come delle provette, in fila sul palcoscenico: un’immagine medica di primo acchito e quasi claustrofobica per chi soffre gli spazi ristretti. Con fare didattico, pur mantenendo il tono militante di chi rivendica un sopruso, si alternano le spiegazioni di Eva Robin’s, Rose Freeman, Patrizia Bernardi, Anas Arqawi, Met Decay e Saverio Peschechera, ovvero coloro che danno voce a chi «né signora né signore, né uomo né donna» si oppone alla storia, a come è stata finora raccontata dalla Genesi in poi. Persone innanzitutto che raccontano del loro essere nel mezzo e per questa ragione considerate oggetti di studio, casi umani e clinici, che contravvengono alla Natura. Natura le cui leggi sono state lette, interpretate e trascritte dalla religione e tramite di essa gli essere umani sono stati divisi in uomini e donne, gli uni che si impongono sulle altre, tenendo fuori coloro che non si riconoscono nel binarismo professato e non corrispondente alla verità plurale, scelta, costruita e autodeterminata da moltissimə. Evǝ si inserisce nella produzione di Teatri di Vita come un ulteriore esempio di attivismo culturale e sociale, richiamando l’attenzione sulle biografie di corpi differenti che si stagliano rispetto alla scrittura, uniformata, della Storia, ufficiale e insegnata. Tuttavia resta una perplessità: che quest’ultima drammaturgia pur scagliandosi contro la narrazione imperante, ceda – forse per i toni usati – anch’essa a una forma evangelica e didascalica assomigliando al bersaglio, pur nell’opposizione di intenti, piuttosto che colpendolo. Non potremmo definitivamente emanciparci dal potere spirituale del verbo di Dio e colpire invece quello temporale delle norme promulgate dagli uomini?

Il Teatro Off Off è per Roma una sorta di scatola magica, da cui fanno capolino spesso produzioni e artisti che sarebbe un delitto perdere. Non solo per la possibilità di assistere a un genere di spettacolo che non sempre la capitale accoglie, ma per la fortuna di partecipare ad un evento della collettività.
È questo il caso di evǝ, riflessǝ in Andrea Adriatico: un monologo di Jo Clifford, tradotto da Stefano Casi, che Teatri di Vita declina e moltiplica – come pani e pesci, per restare in tema religioso – amplificando il significato originario di sovrapposizione fra scrittura e biografia.
Adriatico e Casi aumentano il numero dei performer rappresentando una pluralità di voci che, a loro volta, si appropriano delle differenti linee narrative e temporali di Clifford e le trasformano, interpolando ulteriori informazioni biografiche, come a voler creare una rete. Un sistema che, strategicamente, avvolge in platea le signore, i signori o tutto quel che c’è nel mezzo per rendere ogni partecipante al rito teatrale parte attiva e mezzo, oltreché oggetto, di riflessione.
E riescono nell’intento pur avendo posto i sei performer all’interno di cilindri di plexiglass, isolamento spaziale più che visivo che ha la capacità di trasmettere una claustrofobia invisibile, ma percepibile. Se poi siano canne di un organo religiosamente dissacrante o provette di un distopico esperimento genetico, teche di santi o spazi da show erotico non è un dato chiaro.
Siamo in un luogo altro: luogo della mente, luogo mitico, luogo non luogo. Specchio di un tempo altro, a sua volta. Forse tempo queer, come suggeriscono alcuni critici alla prima apparizione del testo qualche anno fa al Fringe Festival di Edimburgo.
Ad ogni modo i canonici (e binari) elementi di analisi dello spettacolo non aiutano. Se tempo e spazio non costituiscono dati reali, quel che conta è il ragionamento e, conseguentemente, il racconto. È la parola al centro di questa lunga riflessione sull’identità e sui rapporti con la storia personale e umana. La religione è alla base di questa riflessione, con la chiamata in causa di Dio (in tutte le sue identità) e, a seguire, di Adamo ed Eva, ma soprattutto di Lilith, emblema della femminilità rinnegata. Rinnegata dagli uomini spaventati di cui Adamo è capostipite e da Dio stesso, che nasconde segreti al limite fra ironia e dramma.
Sebbene il contenuto di Clifford e le interpolazioni operate da Adriatico e Casi guardino a qualcosa di profondamente personale, lo spettacolo rimanda a dibattiti più ampi sulle identità (trans e non solo), ma soprattutto sulla dissoluzione di vecchi schemi, certamente binari e assoluti. Schemi che oggi appaiono più in crisi che mai eppure ancora hanno il potere di imprigionare, colpire e uccidere, più o meno metaforicamente, ogni singolo individuo.
In questo terreno di confronto, in questo intreccio narrativo complesso eppure lineare, pur nella sua trama fitta di sovrapposizioni, spiccano due gruppi separati che incarnano da un lato l’elemento speculativo e analitico, dall’altro quello più sfacciatamente biografico.
Eva Robin’s, Patrizia Bernardi e Rose Freeman costituiscono il primo, Anas Arqawi, Met Decay e Saverio Peschechera il secondo. Le singole personalità brillano e si perdono nel grande spazio di un unico fluire comune in cui persino la lingua cambia senza soluzione di continuità.
In questo contesto non ha senso stabilire una graduatoria di abilità performativa, sebbene sia indubbiamente Rose Freeman ad arrivare dritta alla platea, grazie a una ritmica e a una gestualità più smaccatamente comprensibili, frutto probabilmente di un differente sostrato artistico.
La parte restante di questo unico personaggio scenico è più uniforme, più simile: forse per lingua, forse per esperienza, forse per ideale drammaturgico. Certo, la scaltrezza comunicativa di Patrizia Bernardi e l’iconicità mimica e vocale di Eva Robin’s si vedono e si apprezzano molto, ma hanno il pregio di manifestarsi in funzione del gruppo e non per narcisistica affermazione.
Siamo gratǝ a Teatri di Vita, a Adriatico, a Casi, a Clifford e a tutto il cast per questo impegno che conferma una idea di teatro nella società – come mezzo di approfondimento e analisi civile, etica e sociale – e non per la società – come un mero prodotto commerciale.

Giuseppe Sermonti, nel suo libro “Misteri lunari” afferma che lo scenario della nascita di Eva è il novilunio. Nell’eden giaceva addormentato Adamo e Dio avrebbe provocato il suo sonno per distaccare dal suo fianco una falce luminosa, una costola bianca da cui nascerà Eva, ossia la luna crescente, parte femminile e luminosa dell’uomo addormentato che è la parte invece oscura della luna. Una suggestione affascinante che descrive le fasi lunari attraverso il maschile e femminile dove l’uno e l’altra si alternano e si compenetrano.
La vicenda della luna descrive la nascita dell’essere umano e la sua morte. Il sentiero che deve percorrere per ritrovare pienamente la sua essenza e ricongiungersi alla sua parte divina dopo aver trasgredito i divieti del signore raccontati severamente dalla Genesi, primo libro dell’antico testamento; un percorso quello della luna che potremmo definire fluido in cui Eva e Adamo in fondo sono la stessa cosa. Eve di Jo Clifford, drammaturga scozzese transessuale ha voluto riprendere la vicenda di Eva, quella figura femminile che nella Genesi viene tanto bistratta e biasimata – per parlare di identità di genere dai primordi, analizzando con ironia e spietatamente un testo sacro che non le manda a dire soprattutto alla donna.
Lo spettacolo di Andrea Adriatico, prodotto dalla bella realtà bolognese di Teatri di Vita, a cui il tema del gender serve a ribadire per l’ennesima volta il più che attuale medioevo in cui viviamo riguardo gli angusti ruoli prestabiliti dalla società – il suo film “Gli anni amari” su Mario Mieli, pioniere delle teorie gender né è un altro lampante esempio – porta sul palcoscenico questo testo apocrifo, femminista e queer attraverso una messa in scena statica e limitante per gli attori, tutti gli interpreti infatti sono confinati, (ancora meglio imprigionati), in claustrofobici rulli di plexiglass. I movimenti scenici sono così ridotti all’osso, di conseguenza la mimica facciale e la voce sono gli unici strumenti in cui i protagonisti di Evǝ ribadiscono con una lucidità non rassegnata e la pazienza di chi combatte una rivoluzione non solo esterna ma anche interiore la propria condizione di essere umano che è nel mezzo, tra due generi ben distinti dove l’uno sottomette l’altro e non accetta identità non binarie e per questo anarchiche.
Questa condizione di corpi isolati, bramosi di esprimere se stessi, conferisce alle parole della Clifford e alle performance degli ottimi attori, (Eva Robin’s, Rose Freeman, Patrizia Bernardi, Anas Arqawi, Saverio Peschechera, Met Decay), una maggiore sincerità a quest’interpretazione scomoda e dissacrante tra i tanti episodi controversi della bibbia, in cui alla solennità che si confà alla lettura di un testo sacro subentrano un mix di riflessione teorica, filosofica con puntellate qua e la di stand up comedy che oltre a strapparci più di un sorriso non può che portare ognuno di noi – anche la persona più reazionaria – a riflettere sulle infinite sfumature che caratterizzano gli esseri umani e su quanto stare nel mezzo faccia paura perché in fondo nel mezzo ci siamo tutti; ma ammetterlo significa mettere in discussione ciò che regge le nostre certezze e il nostro esserci al mondo.

Il sipario si apre sulla vista di 6 cilindri trasparenti, ognuno contenente una persona. Apparentemente sono 4 donne e 2 uomini. Ma nulla è un dato certo!
Sono 6 tubi di aspirazione per “risucchiare” 6 umani da parte di una navicella spaziale? Sono limiti personali che ognuno di noi si pone per confinare se stesso in un mondo parallelo? Oppure sono 6 provette da laboratorio biochimico per riprodurre creature nuove? Questa ultima possibilità potrebbe calzare a pennello.
Dio che “aleggiava” (e non “galleggiava”) sulle acque, il sesto giorno li creò maschio e femmina. Si è forse dimenticato un genere intermedio? No! Ha dato inizio alla danza della procreazione, fatta di geni maschili e di geni femminili: un corredo cromosomico tanto specifico, quanto di alta precisione, per avere capelli biondi, neri, rossi e occhi azzurri, castani verdi e grigi. E quel Dio della creazione, Elohim, non è un genere femminile, ma un numero plurale (Trinità? Plurale maiestatis? Libera scelta l’interpretazione), non ha preso lo scarto di Adamo, ma la parte di Adamo che avrebbe stabilito un rapporto con Eva nascente.
L’uomo e la sua scienza/ sua insoddisfazione/ ricerca di altro ha voluto qualcosa che stesse “nel mezzo”.
Il testo della drammaturga transessuale Jo Clifford, riflessa in Andrea Adriatico che ne ha curato la regia di questa edizione, spinge con i gomiti la creazione originaria e, pur prendendola come punto di partenza e di riferimento, ne contesta la rigida divisione di genere. Si alza un coro di voci che raccontano in modo a volte blasfemo, la propria esperienza. Eva Robin’s, icona del trasgender, Rose Freeman, Patrizia Bernardi,  Anas Arquawi, Met Decay e Saverio Peschechera rappresentano  già di fatto una realtà ufficializzata dai media e dalla storia contemporanea.
“C’era una volta” è l’incipit di apertura… “C’è ancora”… si nasce maschio o femmina e, come non è discriminante essere chi (non qualcosa) che è “ nel mezzo”, nello stesso modo non deve essere discriminante essere da una parte o dall’altra. Non si tratta di un binario rigido. Il nostro genoma conferma i suoi dati con la formazione di organi genitali definiti, come è stato espresso dalla scoperta di Adamo ed Eva. Nessuno è “costretto” a restare come alla nascita… nessuno può guardare l’altro come se non fosse compiuto.
Come suggerisce la finestra di Overton, da un fatto assolutamente condannato dalla società, come ad esempio il transgender, si arriva a condannare chi non lo approva. Si tratta di libertà in entrambi i casi.
Da un palcoscenico senza fronzoli, essenziale, si spazia in dinamiche molto discusse in questa età contemporanea di lotta conto la mancata accettazione delle molteplici diversità, che non andrebbero vissute come tali, ma come eterogenicità.
Un’ opera complessa; dialoghi fitti e intensi, poco movimento, tante parole… tantissime parole che lasciano un enorme spazio alle riflessioni sia a favore che contro questa visione.  Non è facile pensare alla creazione come opera della mano di Dio, ma non è altrettanto facile stare al passo con i tempi. E qui ci fanno correre, velocemente, in un mondo ancora da capire.
Spettacolo non per tutti, anche se tra gli spettatori si trovano persone di ogni tipo e di diverse età.

Per «le signore, i signori, e chiunque sia nel mezzo» che amano i testi ben scritti, la recitazione di qualità, la semplicità e l’efficacia della messa in scena, le riscritture, le reinterpretazioni, la pluralità delle prospettive, le testimonianze di vita vera, la leggerezza, l’ironia, la riflessione: ecco per chi è questo spettacolo, portatore di grandi soddisfazioni!
Con la sua pièce Evə, Jo Clifford, britannica, donna trans, attrice e autrice di un centinaio di opere teatrali (ma anche di libretti d’opera), offre una rilettura e una profonda critica del mito cristiano della genesi. Nell’ottima traduzione di Stefano Casi e l’asciutta regia di Andrea Adriatico, sono presentate le storture del racconto biblico, contraddittorio e incoerente, in cui Dio fa decisamente una magra figura.
Le défaillances del Creatore sono smascherate senza mezzi termini ma con un piglio ironico che, mentre dissacra. rivela anche una profonda conoscenza della Bibbia. Viene narrata (tra le altre) la storia di Lilith, molto meno nota di Eva: prima donna creata al fianco – e non dal fianco! – di Adamo, che fuggì dal Paradiso pur di non dover più passare il tempo con l’uomo, e fu poi ostentatamente dimenticata dalla tradizione cristiana e cattolica.
Smontata pezzo a pezzo, la Genesi si rivela un’enorme fandonia, ma l’operazione non è scevra di rispetto: tutta l’analisi si fonda sulle parole dell’Antico Testamento, ed è sì posizionata, ma non di parte. Resta oggettiva, e impeccabile. C’è da chiedersi se non valga la pena di proporla a catechismo, o durante un’omelia in chiesa, e vedere di nascosto l’effetto che fa.
Sul palco vuoto, sei persone raccontano la propria storia, alternandosi e intrecciando il flusso della loro voce. Eva Robin’s, Patrizia Bernardi e Rose Freeman (che recita in inglese, efficacemente sovratitolata) si concentrano principalmente sul testo sacro, mentre Anas Arqawi, Met Decay e Saverio Peschechera rendono conto di esperienze di vita che ruotano intorno all’identità di genere dei loro personaggi (o di loro stessə, non si può e certamente non è necessario dire).
Tutti i racconti sono uniti dal fil rouge del genere: assegnato alla nascita, normato dalla religione e dal mondo esterno, accettato o inappropriato, nuovamente scelto, in alcuni casi cambiato, sempre dibattuto, gabbia da cui fuggire ma anche mezzo di affermazione di sé.
La pièce dura un’ora, che vola, nonostante sul palco succeda ben poco: lə attorə sono incapsulate in un cilindro di plastica, che lə ingabbia ma ne amplifica la voce in modo anche un po’ distorto. Qualche volta si spostano nello spazio, ma per la maggior parte del tempo parlano soltanto. Il loro corpo è quasi bloccato, ma i loro visi sono liberi, un tutt’uno con quello che dicono, e con chi ascolta.
Parlano con calma, direttamente al pubblico, con chiarezza e intensità. Spiegano, interpretano, coinvolgono, e alla fine dello spettacolo ci si accorge che l’ordine naturale delle cose ha invertito il suo corso, le prospettive si rimescolano e tornano in un nuovo ordine, più grande, divino, in cui ogni persona può cercarsi e trovarsi, in barba alla barba di Dio.

Teatri di Vita si trova nel territorio di Bologna al confine con Borgo Panigale. È vicinissimo alla stazione di Bologna Borgo Panigale, in una struttura all’interno di un parco pubblico che, dopo lavori di riorganizzazione e ristrutturazione, negli anni è diventata polo di propagazione culturale, dedito in primis al linguaggio teatrale, ma in generale a forme di dialogo accogliente verso le esperienze e le rivelazioni sul tema dell’identità.
A questo si sono dedicati, nel tempo, tanto Andrea Adriatico, il regista residente in questa struttura creativa, quanto Stefano Casi, studioso e scrittore. La combinazione delle loro intellettualità, e di quelle dei tanti che a questo progetto, con l’andar degli anni, si sono dedicati, si è mossa in modo aperto e sperimentale, raccogliendo diversi riconoscimenti in Italia e all’estero, anche per la viva indagine sul tema del genere, sviluppata cercando dentro testualità e autoralità spesso poco conosciute, o aiutate a essere diffuse in modo ampio nel teatro italiano, sempre assai restio alla testualità contemporanea.

Anche la drammaturga inglese vivente Jo Clifford è fra queste. Con lei Andrea Adriatico torna a confrontarsi con i temi LGBTQ+ e con la fluidità di genere. Nel suo privato Clifford è padre ed è diventata anche nonna, dopo la transizione. Come scrittrice ha scritto oltre cento opere teatrali, ricevendo diversi riconoscimenti e suscitando anche scalpore e polemiche come è stato per The Gospel According to Jesus, Queen of Heaven, con cui nel 2009 andò lei stessa in scena interpretando, da trans, niente meno che la parte di Gesù Cristo. Ha una propria compagnia, la Queen Jesus Productions.
Il tema del rapporto con la religione è evidentemente un leitmotiv della questione poetica di Clifford, in particolare il condizionamento sociale che deriva da un impianto radicalmente maschilista insito nella pratica religiosa, cattolica in particolare. God’s New Frock (La nuova tonaca di Dio), titolo originale di evǝ, è stato scritto nel 2002 e presentato in Italia pochi anni più tardi nella forma del monologo da Alessandro Baldinotti al Teatro della Limonaia di Sesto Fiorentino (Firenze), in collaborazione con il Florence Queer Festival, nel 2007 all’interno di Intercity Festival.
Andrea Adriatico affronta questa regia, lavorando con Stefano Casi, che ha ritradotto il testo, a un adattamento che trasforma il monologo in una partitura a più voci, una polifonia di narrazioni identitarie, di storie di vita che si mescolano al testo di Clifford, fra autobiografismo e tentativo di incarnare nel vissuto soggettivo le vicende che la drammaturgia specifica, e che sono eminentemente legate alla questione del maschilismo nella religione fin dai sacri testi. È proprio la Genesi, la nascita di Eva dalla costola di Adamo, a diventare pretesto drammaturgico per indagare la terra di mezzo.
Come non di rado negli allestimenti di Adriatico, lo spettacolo e le scelte registiche si muovono in una dimensione profondamente architettonica, all’interno della quale la disposizione fisica degli attori e il movimento di scena diventano elemento cruciale della partitura e dell’interpretazione della drammaturgia, mantenendo un vivo effetto di persistenza nella memoria.
Adriatico, d’altronde, è architetto, e questa abilità di composizione e ricomposizione delle vicende umane negli spazi, oltre alla presenza specifica e ricca di elementi di design nel suo lavoro, è sempre una nota peculiare dei suoi allestimenti. In questo caso, con lui a scene e costumi hanno lavorato anche Andrea Barberini e Giovanni Santecchia. 

Gli interpreti appaiono al pubblico imprigionati dentro tubolari trasparenti che paiono di vetro, reclusi e apparentemente immobili in questa gabbia trasparente che ci permette di vederli e permette a loro di vedersi. E così, l’unico movimento che si possono permettere è quello di girarsi dentro il tubo di vetro per voltarsi nella direzione di chi di loro è in modalità narrativa (spesso autobiografica, come dicevamo). Questo accade per un’ampia porzione dello spettacolo, fino a quando una dinamica, se non coreografica senza dubbio di movimento disegnato e non spontaneo o improvvisato, viene posto in essere con un escamotage che permette agli interpreti (tutti molto generosi) di muoversi.
In una seduta dall’alto si apprezza come si dispongano via via a comporre una croce, a creare partizioni, distanze e avvicinamenti, mentre nessuna musica distrae dal racconto, se non la tutt’altro che casuale Take Me to Church di Hozier, che apre e chiude lo spettacolo. Un gruppo di singolari chierichetti in vitro, interpretati da Eva Robin’s, icona attorale della cultura trans in Italia che debuttò 30 anni fa a teatro proprio con Adriatico al Festival di Santarcangelo interpretando CocteauRose Freeman, regista e performer della scena americana, Patrizia Bernardi e Saverio Peschechera, storiche colonne di Teatri di Vita, l’attore palestinese Anas Arqawi e il performer Met Decay.

Ad aprire la recita, in una forma che si rivolge agli spettatori in modo molto diretto e aperto, è Patrizia Bernardi, attrice e cofondatrice insieme a Adriatico di Teatri di Vita e della compagnia: riflessi. Di lì in avanti il tono è per un verso quello di una confessione laica collettiva, che affonda nel vissuto individuale, e per altro di una piccola invettiva contro i precetti religiosi fondati sulla discriminazione di genere, e che ancor più fortemente si rivolge a chi si sente nel mezzo.
Il testo e la forma recitata con i veloci cambi di voce, con l’intreccio delle vicende, si fa seguire con attenzione senza il bisogno di essere sostenuto da alcuna enfasi musicale. Pochissimi i cambi di luce, che resta quasi sempre omogenea e piena, con un piazzato che illumina in maniera armonica lo spazio agito, quasi a voler imporre una naturalezza dialogica fra attori e spettatori.
Alla destra del palcoscenico, l’unico elemento scenografico ulteriore, rispetto alle presenze degli attori nei tubi trasparenti, ed è un ulteriore tubo trasparente da cui fuoriesce una lunga stoffa dorata. Una sbrilluccicante stola che allude al venir fuori, prezioso e incontenibile, dai tubi-provetta in cui la società e la religione pretendono di isolare e rinchiudere chirurgicamente le esistenze, che invece rivelano una paradossale trasparenza proprio nel loro limpido rivelarsi.

Rivoluzionario e divulgativo al tempo stesso, “evǝ” (titolo originale “God’s New Frock”) di Jo Clifford, drammaturga e performer transessuale che vive a Edimburgo, si propone come manifesto iconoclasta di un necessario riscatto dell’umanità dai sofferti vincoli esistenziali alimentati dalle false credenze e dagli inutili pregiudizi generati dalle religioni.

I sei personaggi in scena, sapientemente diretti dal regista Andrea Adriatico, sono avvolti e stretti in suggestivi cilindri di plexiglass trasparente, realizzati da Andrea Barberini e Giovanni Santecchia,  e ci restituiscono con forza, dall’inizio alla fine della pièce, la chiara percezione di trovarci al cospetto di sei prigionieri; si tratta, per la precisione, di uomini e donne reclusi in quella stessa realtà sociale, claustrofobica e opprimente, di cui abbiamo tutti quotidiana esperienza, una realtà cieca e irrazionale, generata da un credo religioso infarcito di superstizioni vili e mostruose, alla quale i sei protagonisti oppongono l’autenticità del proprio vissuto, l’intensità dei propri sentimenti, la coerenza delle proprie azioni.

A ben vedere, quindi, i sei prigionieri chiusi negli asfissianti rulli di plexiglass, raccontandoci attraverso diverse tessere narrative una medesima storia di negazione e riscossa, componendo e accordando le proprie singole voci alla stregua dei suoni che vibrano armonicamente dalle canne di un organo per dare corpo a una combinazione polifonica – eh sì i rulli di plexiglass somigliano davvero alle canne di un organo – ci rendono partecipi di quanto l’esperienza dello scacco, dell’esclusione e della vergogna non riguardi il circoscritto destino di una minoranza, ma attinga l’intera Storia del genere umano, fin dagli albori, fin dalla creazione di Adamo ed Eva, a partire da una “sacra” e tollerata tradizione di violenze che impone la distinzione perentoria e binaria tra i generi e la supremazia del maschile sul femminile con la conseguente tragica espulsione di chi non si riconosce né in un genere né in un altro.

Andrea Adriatico, che torna a confrontarsi con la fluidità di generi umani e teatrali, di storie e identità LGBT, riflette in maniera acuta e incisiva il testo della Clifford sulla scena anche grazie alla bravura di un cast di attrici e attori eccellenti – tra cui urge ricordare la presenza di un’icona del teatro e del cinema italiano quale Eva Robin’s – un cast che consegna al pubblico non solo il sentimento di soddisfazione prodotto dall’aver assistito ad uno spettacolo ben interpretato ma anche il potenziale emotivo e gnoseologico che è alla base di ogni consapevole e schietto processo di emancipazione.

C’era una volta… La storia più antica del mondo, quella che tutti conosciamo: la Genesi, ossia la creazione di Adamo ed Eva e la loro disobbedienza.
Il testo presentato a Bologna da Teatri di Vita è una rivisitazione di “The gospel according to Jesus, queen of Heaven. God’s New Frock” scritto nel 2009 dalla drammaturga transessuale inglese Jo Clifford e tradotto per l’occasione da Stefano Casi.
Gender fluidsex workers, omofobia, gender queen, sessismo, femminismo, strumentalizzazione della religione, oblio storico, oppressione, discriminazione: sono tanti i temi toccati in questo spettacolo attraverso l’antica parabola della creazione dell’uomo.

La versione del regista Andrea Adriatico, che torna a confrontarsi con i temi LGBTQ+, trasforma il monologo originale (in cui Gesù torna sulla terra reincarnato in un trans) in un coro di tante Evɘ. Questa giocosa narrazione a più voci sollecita lo spettatore a superare la concezione che c’è stata insegnata del maschio e della femmina come due generi separati e ben distinti, a favore di una interpretazione in cui il binomio maschio-femmina includa anche tutti coloro che si trovano nel mezzo, o che possiedono un po’ di uno e un po’ dell’altra. Emerge quindi una forte rivendicazione della pluralità di genere, quella stessa pluralità di cui sarebbe fatto Dio (come indica la parola femminile, plurale: Elohim, ossia Dio in ebraico).

Ad interpretare questo racconto, che è la storia di noi tutti, perché ci definisce nella nostra identità, troviamo l’icona del transgenderismo italiano Eva Robin’s (che con Teatri di Vita collabora ormai da molti anni), affiancata da Patrizia Bernardi (altra attrice storica e cofondatrice della realtà bolognese), insieme alla performer-regista statunitense Rose Freeman, al danzatore Met Decay, all’attore palestinese Anas Arqawi e a Saverio Peschechera, organizzatore e direttore di produzione che già in passato è stato diretto da Adriatico in qualità di attore.

Gli interpreti instaurano, sin da subito, un dialogo diretto con il pubblico; si presentano uno alla volta, si raccontano, invitano gli spettatori a chiudere gli occhi, a rivivere il ricordo di quell’istante doloroso in cui sono nati. Li guidano nella contemplazione della creazione del mondo, secondo la versione dell’Antico Testamento. Un libro la cui finzione pretende di essere vera.

L’intera operazione drammaturgica di Adriatico ruota proprio intorno al concetto di finzione, velando di ambiguità i racconti, le testimonianze e i momenti di rivelazione. Il pubblico si lascia coinvolgere empaticamente da una narrazione che non sa distinguere: dove finisce la finzione del testo, dove inizia la verità degli attori?
La messa in scena di Adriatico, che aveva debuttato al Teatro Kismet di Bari a novembre, è semplice e schietta. Il palco è vuoto ad eccezione di un drappo dorato che lo decora sulla destra. Una proiezione dalle tinte brillanti colora lo sfondo con un’immagine, la stessa della locandina: una mano maschile, con smalto rosso e peli sul braccio, che afferra una mela dal picciolo.
Quando il pubblico fa il suo ingresso in sala, gli attori sono già presenti in scena, vestiti da chierichetti, con delle lunghe vesti bianche che ne nascondono i corpi. L’unica cosa che li distingue, oltre a mani e volto, sono le scarpe che indossano: tacchi, zeppe, sneakers…

Gli stili recitativi dei singoli interpreti, ciascuno con percorsi ed esperienze diverse all’interno del mondo dello spettacolo, emergono con forza senza tuttavia amalgamarsi. Declamano il testo dandosi il turno, bloccati come statue all’interno di grandi tubi trasparenti, una sorta di gabbia che li imprigiona e ce li mostra. Tuttavia questi elementi scenografici, estremamente interessanti, rimangono pressoché inesplorati, così come le possibilità di movimento dei corpi al loro interno. Gli attori rimangono nei cilindri per tutta la durata dello spettacolo; alle volte li toccano mentre gesticolano o li muovono per cambiare posizione.

In primo piano nello spettacolo c’è la parola, che trova una maggiore enfasi nell’interpretazione di Rose Freeman, intensa ed ironica. L’attrice statunitense sa prendersi il tempo necessario per dare davvero vita al testo, e per fare viaggiare il pubblico insieme a lei.
E sebbene molti spettatori, o quantomeno una parte, debbano ricorrere ai sovra titoli per comprendere appieno le parti in inglese, è proprio in questi passaggi che il testo si esprime in tutta la sua potenzialità, esaltandosi nella fluidità dell’inglese e facendone emergere appieno poesia, ritmo ed intensità.

Una, due, infinitǝ “Evǝ”: il debutto nazionale presso il Teatro Kismet di Bari della pièce firmata da Jo Clifford con Eva Robin’s

Viviamo in un mondo dove facciamo l’amore di nascosto, mentre la violenza viene perpetrata alla luce del sole.” (John Lennon)

Il solo Paradiso in cui andrò, sarà quello in cui sarò solǝ con te, sarò natǝ malatǝ, ma amo tutto questo, raccomandami di star bene, Amen.” (Hozier, “Take me to church”)

Signore e Signori, e tutto ciò che c’è nel mezzo”: è così che inizia “Evǝ”.
Non è la condizione della mia coscienza a necessitare di specificazioni, di spettacoli che spieghino allo spettatore cosa significa avere un’identità di genere o un orientamento sessuale diverso da quello convenzionale.
Però, la sensibilità comune, spesso disorientata finanche di fronte alla sigla Lgbtqia+, ha bisogno di momenti di riflessione, di circostanziare. Non tanto per l’accettazione, che al di fuori di sacche di odio rumorose e strumentalizzate da certa becera politica è un fatto endemico della nostra società, quanto per permettere a sempre più Signore, Signori e tutto ciò che c’è nel mezzo, di affermare la propria identità senza paura.
È in questo ambito che sono necessari spettacoli come “Evǝ”.

Un’anteprima nazionale, per il testo di Jo Clifford, adattamento di un suo romanzo, con la regia di Andrea Adriatico. Clifford parla di se stessa come un padre e una nonna meravigliosǝ. Il proscenio è abitato da tubi primordiali e semoventi, senza genere, dove gli attori, dove noi tuttǝ, siamo costole uguali, eppure diverse, dell’essere umano. A dare anelito alla vita di queste costole ci sono Eva Robin’s, nata Roberto, primo personaggio pubblico in Italia ad aver affrontato una transizione di genere e innumerevoli battaglie legali, dibattiti pubblici, per rivendicare il corpo di donna che è suo; Patrizia Bernardi, aquilana, interprete di una città distrutta che è in perenne e immobile ripartenza; Julie J, artista umbra, multiforme e intersessuale, che ha fatto della sperimentazione, della marginalità, della performance senza confini il proprio manifesto; Anas Arqawi, palestinese, già nel cast de “La Maschia” di Claire Dowie insieme a Patrizia Bernardi; Met Decay, liberato dalla bugia di “Matteo”, con cui nacque; Rodolfo Cascino-Dessy, performer drag.

Sullo sfondo, il simbolo delle astute bugie raccontate a chiunque non fosse maschio ed eterosessuale: una mela, tenuta per il picciolo da una mano maschile con seducenti unghie rosse. Un frutto proibito ai più e alle più, il cui sapore potrebbe essere velenoso, causare la perdita dell’innocenza e del Paradiso, dannando e bandendo chi osa sfidare lo status quo. E quale similitudine è più aderente che quella con la conoscenza, che causa talora la sofferenza della consapevolezza? Quale dono è più pericoloso della libertà? Cosa c’è di più difficile dell’accettazione?

Proprio dal racconto biblico, il manuale di questa crassa bugia, si dipana il testo dell’opera, partendo dai vissuti deǝ performer. La prima bugia è legata alla dicotomia. Il bene e il male, il maschio e la femmina, il divino e l’umano, lassù e laggiù, il giorno e la notte, la polarizzazione che, invece di armonizzare il genere umano, lo schiera di incomprensioni contro il diverso, arrivando a chiamare “abominio” ogni essere non sembiante a una parte o all’altra.
Sarebbe un problema di secondaria importanza, se fossimo liberi di schierarci dove ci pare. E invece no. I maschietti coi lupetti, e le femminucce con le coccinelle, come nella pratica scout. Alle donne, la negazione della conoscenza, agli uomini, la negazione della tenerezza. Negazioni per tuttǝ.

La punizione per contravvenire è l’antipatia di Dio, la qual cosa è quantomeno contraddittoria: questo Dio sarà anche onnipotente, ma si incazza facilmente!
E si incazza facilmente con le altre cattive del creato: le donne, la metà del cielo.
Apparentemente, due battaglie diverse, quelle delle donne e quelle per i diritti della comunità lgbtqia+, e anche l’un contro l’altra armate nel segno del benaltrismo. Però la madre di tutte le oppressioni è una donna, libera, tradizionalmente ritenuta lussuriosa e sparigliatrice della sessualità maschia: Lilith, per certe letture della Bibbia la prima donna ad essere stata creata, prim’ancora di Eva, e cacciata chissà dove, per aver rifiutato un’esistenza da costola, e dunque pertinenza, di un uomo, una vita fatta per partorire altra vita con grande dolore, lontana dalla conoscenza e dai suoi frutti.

Aspettiamo l’aurora, quando i più bei frutti saranno di tutti.” (Litfiba, “Vivere il mio tempo”)

Evǝ

I maschi, le femmine e quelli o quelle che stanno in mezzo, ovvero le persone omosessuali e le persone che sono maschi fisicamente ma si sentono intimamente e sostanzialmente donne o quelle che sono donne ma si sentono intimamente e sostanzialmente maschi, e ancora quelli che vivono nella transizione. Anche questa è oggi la realtà del genere umano e probabilmente questa realtà è stata sempre presente, presente e viva sin dalla notte dei tempi sebbene millenni di culture maschiliste l’abbiano negata, brutalmente semplificata e ristretta a soli due generi con connesse identità. C’è quindi poco da discutere, ma solo da accettare che la realtà umana è questa e schierarsi e battersi affinché qualunque cittadino che, a causa della sua identità di genere, subisce discriminazioni, ingiustizie o addirittura violenze, possa sentire lo Stato dalla sua parte e pronto a difenderlo. È una battaglia che la compagnia bolognese “Teatri di vita” porta avanti da sempre ed è la sostanza concettuale di Evə, lo spettacolo che ha debuttato in prima nazionale sulla scena del Teatro Kismet di Bari il 13 e 14 novembre. Lo spettacolo è diretto da Andrea Adriatico, il testo è della drammaturga e performer transessuale britannica Jo Clifford ed è tradotto e adattato da Stefano Casi. In scena, recitano Eva Robin’s (icona trans dello spettacolo italiano), Julie J (artista multiforme e multidisciplinare), Patrizia Bernardi (attrice storica e cofondatrice della compagnia), Anas Arqawi (attore palestinese di formazione internazionale), Met Decay (danzatore e performer), Saverio Pescherera (anche lui attore stabilmente in forza a Teatri di Vita). Una sostanza concettuale che si rispecchia nell’invenzione di un divertente intreccio di sei personaggi e sei voci che con brio, con gradevole tenuta comica e, soprattutto, con rigore militante si raccontano e, sostanzialmente, raccontano i loro propri e gli infiniti casi di “quelli che stanno nel mezzo”, delle “Evə” (rigorosamente con schwa neutro finale) che non hanno accettato di farsi dettare dalla società che cosa sentivano intimamente riguardo alla loro identità di genere, che hanno subito la violenza sessista ma poi si sono ribellati e hanno trasformato questa ribellione nel paradigma di una ribellione più grande e profonda. Una ribellione in corso nel mondo tra l’altro, e che punta a una affermazione dell’autenticità dell’umano e dell’eros umano che trascende ogni pregiudizio, ogni costrizione tradizionale e strutturalmente violenta. Ecco allora la storia piccola e buffa del bambino che, da “lupetto” che era, avrebbe voluto essere “coccinella”, o la storia grande e mitica della presunta fondazione biblica dei generi maschile e femminile, storia che viene criticata e riscritta, in senso giocoso e sanamente anticlericale, con la graffiante e caustica forza di chi la sua consapevole libertà se l’è conquistata lottando contro tutto e tutti. Storie che sono come i confini entro cui si inscrivono le altre storie dello spettacolo o le miriadi di altre storie che questo spettacolo implica e suggerisce. E poi: qual è il genere di Dio? Siamo sicuri che è davvero un maschio di cultura maschilista e patriarcale o – come è arrivata a proporlo anche la chiesa cattolica – un madre? Siamo sicuri che non sia molto di più e molto altro? Da questo punto di vista, inoltre, è davvero molto interessante e profonda l’affermazione secondo cui «una parte di noi è divina e crea il mondo ogni giorno». A pensarci bene è il senso vero di tutte le lotte LGBT: ri-creare il mondo a partire da una autentica e autenticamente accettata libertà delle persone che ha confine solo nel rispetto e nella difesa della libertà degli altri… Inutile dire quanto questo tema sia di bruciante attualità. E però, se la qualità principale di questo spettacolo è il ritmo comico che lo innerva interamente, battuta per battuta, segmento per segmento, e lo rende gradevole, ciò che non convince è invece la sua staticità, la mancanza di quell’azione che, magari è implicita nelle narrazioni e nei ragionamenti dei personaggi, ma non trova riscontro nel loro agire. Staticità che, per altro, è appesantita dalla posizione stabile e in schiera degli attori, vestiti con lunghe tonache bianche, che in modo ironico, se non proprio beffardo, ricordano il mondo dei religiosi, e dai tubi di plexiglass trasparente in cui sono racchiusi per tutto il tempo. Ovviamente la metafora è trasparente e il messaggio è chiaro: l’alleato più forte della fragilità è l’isolamento in cui ciascuno vive il dolore della propria condizione ma appunto, dal punto di vista della dinamica scenica, la sensazione di staticità ne risulta accresciuta.

Eva Robin’s, le vite “di mezzo” per Teatri di Vita

Sei personaggi in scena vestiti con monastici sai di intenso candore, intubati in altrettanti cilindri di plexiglass – metaforiche provette per contenere liquidi e umori che danno origine alla vita, o forse gabbie trasparenti che rimandano al populistico sconcerto per vite ritenute oltraggiose e luride.

È asciutto ed essenziale l’adattamento che il regista Andrea Adriatico ha portato sul palco del teatro Kismet di Bari per l’anteprima nazionale del suo nuovo spetacolo “eve”, tratto dall’omonimo testo della drammaturga transgender Jo Clifford, e che vede tra le interpreti l’attrice Eva Robin’s.

La storia è quella convenzionale della creazione di Adamo ed Eva, così come è tramandata dai testi sacri, con la seconda originata dalla costola del primo, un controsenso se si pensa che in realtà è la donna che dà origine alla vita e non viceversa. Ma nella volontà del regista non c’è alcuna volontà di propagandare blasfemie, solo invece riflettere sul tema dell’identità di genere che travalica il sistema binario maschio-femmina e che riguarda tante persone che stanno nel mezzo – in between come scrive Jo Clifford nel suo testo – dove racconta la storia (la sua) di un bambino che non amava essere chiamato William e che voleva giocare con le sue coetanee, diventata poi da adulta una delle dieci donne più famose di Scozia e dalla cui penna sono uscite più di 80 opere letterarie.

Evǝ: le beatitudini secondo Jo Clifford

Beati i ricchi, perché è grazie a loro che esistono i poveri in spirito. Beati quelli che ridono, perché per contrappasso esistono quelli che sono nel pianto e hanno bisogno di consolazione. Beati quelli che sono in mezzo, perché solo riconoscendo loro, è possibile comprendere chi sta alla loro destra e gli altri/e alla sinistra. Bianco/nero. Uomo/donna/frammezzi&umanoidi. Persone. Jo Clifford riscrive le beatitudini per le persone salve, debuttando a Bari, presso il teatro Kismet, con lo spettacolo Evǝ (produzione Teatri di Vita) con Eva Robin’s e un gruppo di attori straordinari.

Cominciando dalla riscrittura della Genesi e passando attraverso il Vangelo scritto sulla e con la pelle di uomini donne e trans, il drammaturgo e performer inglese Jo Clifford, affidando la regia ad Andrea Adriatico, mette in provetta le vite trasparenti di William, che ancora bambino, amava giocare con le bambine e si è sempre avvertito “nel mezzo, un po’ degli uni e un po’ delle altre”. Dinanzi a tutte le persone in provetta, dinanzi alle quali il pubblico rimane attonito e impressionato, costretto esso a uno stato di claustrofobia, manca il fiato per le parole. Non si riescono a trovare le definizioni giuste per sentirsi normali. Solo sbagliati. Tutti. Attori e spettatori diventano esseri trasparenti, ma in provetta, e si fa fatica a trovare il fiato per urlare al cielo, quello che il cielo non riesce a comprendere, chiuso nel suo limbo etereo e lontano. Dall’umano.

Evǝ è teatro di parola, per lo più. Il minimalismo che regge i bravissimi attori e attrici, da Eva Robin’s, Patrizia Bernardi, Julie J, Anas Arqawi, Met Decay e Saverio Peschechera è tutto racchiuso nella trasmigrazione delle voci, nel tatto uditivo, che stenta a farsi ascoltare da un pubblico per nulla abituato alla trasgressione delle beatitudini divine. A reggere il mondo di Evǝ il braccio di un dio/uomo, essere speciale, che regge il suo mondo/mela, dentro la quale, ciascuno deve essere disposto a trasformarsi in bruco, farfalla, fino a voler andare. Volare verso quelle chiese, che non hanno i paramenti, tantomeno i camici lindi e pudichi. Ma conservano il colore e la passione del sangue, con cui, entrando e uscendo dal teatro, è possibile avvertirsi sorvolare su quella mela/mondo, urlando: “Take me to church I’ll worship like a dog at the shrine of your lies I’ll tell you my sins and you can sharpen your knife. Offer me that deathless death. Good God, let me give you my life”. Buon Dio, lascia che ti dia la mia vita, senza chiedere in vita, nulla che sia di più sacrificante di essa.