Donne. Guerra. Commedia.

di Thomas Brasch

uno spettacolo di Andrea Adriatico

versione italiana di Stefano Casi e Iris Faigle

con Francesca Ballico, Francesca Mazza, Gino Paccagnella

produzione Teatri di Vita 2003
con il supporto di Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Regione Emilia Romagna, Comune di Bologna, Provincia di Bologna
Debutto: Bologna, Teatri di Vita, 13 gennaio 2003.

È la storia di due lavandaie al fronte durante la prima guerra mondiale, tra ospedali da campo e bordelli, alla ricerca di un soldato troppo giovane per morire. O forse è la storia di confini tracciati e difesi al di là di ogni pietas, muri difesi con la vita sui quali il vecchio personaggio shakespeariano di Pandaro gigioneggia avido e smemorato, muri di separazione e morte da quello di Troia a quello di Berlino. O addirittura è la storia di due attrici schizofreniche e umorali che si rubano la parte tra un gioco a scacchi e un infantile “facciamo finta che”, mentre un suggeritore sindacalizzato protesta sulle iniquità del sistema teatrale…

Donne. Guerra. Commedia è tutto questo ed altro ancora, un emozionante e caleidoscopico apologo sul relativismo dell’esistenza e dell’identità: una vera e propria fissazione del suo autore Thomas Brasch, in perenne disagio nelle società in cui è vissuto, prima quella comunista in cui era perseguitato e da cui è fuggito, poi in quella consumista e capitalista da cui non è più riuscito a “fuggire” se non con la morte prematura a 56 anni, nel novembre 2001.

La sua opera Donne. Guerra. Commedia è stata rappresentata per la prima volta in Italia dieci anni fa con la regia di Andrea Adriatico, che oggi ritorna a lavorare con una nuova formazione di attori su quel testo così intenso e sottile. Scavandone i sensi e moltiplicandone gli echi in un allestimento algido, attraversato dal senso di un mistero che è quello di una vita come quella dell’uomo, condannato per la sua stessa essenza – come direbbe un autore particolarmente amato da Adriatico, Koltès – a essere sempre in conflitto con gli altri, sempre in guerra con il mondo e con se stessi. Un dramma raccontato con il ritmo di un’amara commedia tragica che obbliga tutti a interrogarsi sul proprio ruolo nella Storia (e nella vita) che stiamo costruendo.

Nuova edizione di donne. guerra. commedia (1993).

Il testo con questa traduzione è stato pubblicato in volume.

Visioni critiche

Il regista rifiuta ogni seduzione della scena; l’azione è raffreddata, sottratta a qualsiasi allettamento emozionale, fino rasentare in molti punti i confini della semplice esposizione delle voci e delle parti che si intrecciano. Le attrici sono congelate in pose studiatissime, o immobilizzate, come nel finale, davanti a quel muro che evoca anche quello caduto a Berlino, città dove Brasch visse prima a est e poi, dopo la fuga dalle delusioni del socialismo reale, a ovest. L’unica coloritura sta in alcuni tic vocali o fisici accumulati per aiutare il gioco delle moltiplicazioni. Una tale scelta vorrebbe concentrare l’attenzione sulla scabra essenza ideologica del testo, sulla brutalità della condizione evocata, sulla necessità di scavare sotto le maschere sociali, ideologiche, della realtà. Ma il rischio è quello di raffreddare un testo già a scatole cinesi, che non fa nulla per non dimostrarsi come un raffinato gioco di smontaggio di materiali culturali e umani. La tensione e la molteplicità finiscono per risultare appiattiti in un ronzio indistricabile dell’intelligenza costruttiva. (…) La cifra visiva incombente è la continua presenza muta sulle lavatrici, muro del pianto, cinta difensiva, luogo di fucilazioni, barriera da superare connotata dal nitore imbarazzante di un consumismo che, come la guerra, come le passioni, come le piccole viltà, tutto divora.
Se non bastasse l’estrema mobilità della scrittura e del pensiero di Brasch (…), il regista decide di aggiungere un ulteriore livello, con un forte spiazzamento visivo, collocando i tre attori che si succedono nei vari brani in uno scatolone bianco, asettico, con lavatrici, fustini di detersivo, flaconi colorati di detergenti vari, in un’efficacissima astrazione pop. Eppure si parla di guerra, come nel brano centrale affidato alla mobilissima e acuta interpretazione di Gino Paccagnella, dove evocando Troia si descrive un muro che divide, costruito silenziosamente. Mentre nel primo quadro di questa trilogia due donne, interpretate da Francesca Ballico e Francesca Mazza, sembrano essere due lavandaie durante la Prima guerra mondiale, al fronte per cercare un giovane soldato, prima che i livelli si moltiplichino e i ruoli si confondano. Si chiude con un intensissimo monologo finale reso con infinita sottigliezza da Francesca Mazza, in cui una donna attende, immaginandolo, l’interrogatorio durante il quale confesserà di aver ucciso il suo bambino. Ma sarà vero? O anche questo è un labirinto di specchi che rimandano lampi di follia, deliri, in una moltiplicazione che è l’essenza stessa del teatro, della finzione scenica, sempre tenuta d’occhio (quando non citata esplicitamente) dall’autore. Resta però, come uno sfondo concreto, uno strato sensibile e vero di dolore e di disperazione.
C’è un muro in scena, nell’allestimento di Donne. Guerra. Commedia di Thomas Brasch firmato da Andrea Adriatico, ma è un muro di lavatrici tutte uguali e bianche, con gli oblò che si aprono come finestre. Meno minaccioso di quello crollato a Berlino e più saldo di quello di Troia, sembrerebbe. Algido sfondo di un mondo da ipermercato votato all’igiene e alla pulizia, in cui infatti le due protagoniste si affaccendano con detersivi pop, e tuttavia attraversato da un ineliminabile conflitto…
Una donna cerca il suo uomo al fronte, in una storia dove le apparenze si rovesciano in continuazione e le certezze appena costruite svaniscono. L’unica realtà permanente è quello stato di guerra, la carne da macello, il triturarsi di relazioni, sentimenti, umanità. Adriatico ha allestito uno spettacolo freddo, straniato, a volte respingente, spesso capace di aprire pensieri e inquietudini. Gli attori (Francesca Ballico, Francesca Mazza, Gino Paccagnella) porgono con secchezza i propri ruoli, cambiando prospettiva appena indossano un’altra parrucca, lasciandosi trasporatre, di tanto in tanto, dalla retorica per ghiacciarsi subito dopo. E quella parete rilucente di lavatrici evoca l’altro muro che oggi ci rinchiude, quello di un consumismo capace di farci svanire in figure senza contorno, intercambiabili.