A porte chiuse

Dentro l’anima che cuoce

uno spettacolo di Andrea Adriatico

ispirato a Jean-Paul Sartre

drammaturgia di Andrea Adriatico e Stefano Casi

con Gianluca Enria, Teresa Ludovico, Francesca Mazza

e con Leonardo Bianconi

con l’amichevole partecipazione di Angela Malfitano e Leonardo Ventura

cura Daniela Cotti, Saverio Peschechera e Marco Argentina, Andrea Stegani
scene e costumi Andrea Barberini
tecnica Mattia Cozzi, Carlo Strata e Francesco Zanuccoli

una produzione Teatri di Vita, Akròama T.L.S.
con la collaborazione di Teatri di Bari
con il sostegno di Comune di Bologna – Settore Cultura, Regione Emilia-Romagna – Servizio Cultura, Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo
a Giulio

Due donne e un uomo, rinchiusi in un salotto per l’eternità. Quel salotto elegante e perbene è l’aldilà, e la loro convivenza è la condanna dopo la morte, perché “l’inferno sono gli altri”. Jean-Paul Sartre scrive A porte chiuse (Huis clos) nel 1944, firmando uno dei capolavori della drammaturgia europea: un serrato dialogo fra tre morti che protraggono la loro pena semplicemente rigettandosi in faccia verità scomode. Una metafora delle relazioni sociali e della stessa identità, formata dalla prospettiva degli altri. Un’intuizione che rimane sempre potente per la sua capacità di descrivere i rapporti umani, e dunque le aberrazioni e forzature del giudizio altrui, anche 70 anni dopo, nell’epoca in cui il “controllo” dell’altro passa impietoso e violento attraverso i media e i social network, definendo un “inferno globale” che è l’ambiente in cui viviamo.

Dopo gli “inferni” di Copi, Elfriede Jelinek, Koltès, Beckett o Pasolini, Andrea Adriatico approda all’opera più esplicita riguardante la pressione sociale come fonte di sofferenza per l’uomo della nostra epoca. E lo fa in una coproduzione che vede coinvolti Teatri di Vita, Akròama T.L.S. e Teatri di Bari, nell’ambito del VIE Festival.

Lo spettacolo rientra nel progetto Atlante: “progetto cervicale per chi soffre di dolori al collo, dolori da peso del mondo”, che si sviluppa attraverso gli spazi urbani. Dopo Bologna, 900 e duemila, prima tappa di Atlante negli spazi monumentali del capoluogo emiliano, ecco lo spazio tutto interiore e domestico di A porte chiuse, seconda parte del progetto.

Andrea Adriatico compone partiture della parola e dello spazio, facendo base nella casa bolognese di Teatri di Vita creata nel 1993, incontrando drammaturgie come quelle di Koltès, Pasolini, Beckett, Copi, Jelinek, attraversando numerosi festival da Santarcangelo alla Biennale Teatro. Al cinema racconta rimozioni intime (nei film Il vento, di sera; All’amore assente) e pubbliche (nei documentari +o- il sesso confuso. racconti di mondi nell’era aids, e Torri, checche e tortellini), presentate e premiate in festival internazionali.

Gianluca Enria, attore e regista, stretto collaboratore di Giancarlo Sepe dal 1998, è stato diretto tra l’altro da Luca Ronconi (La morte innamorata), Carmelo Bene (Hommelette for Hamlet), Andrea Camilleri, Attilio Corsini, Roberto Guicciardini. Con la regia di Andrea Adriatico ha interpretato diversi spettacoli (tra cui Il ritorno al deserto, Giorni felici, Bologna 900 e duemila). Inoltre ha lavorato per il cinema, la radio e la televisione. Come regista ha messo in scena opere di Schwarz, Ripoll, Jarman.

Teresa Ludovico, attrice e regista, direttrice artistica del Teatro Kismet e oggi dei Teatri di Bari. Ha collaborato con molti artisti, da Marco Martinelli a Giovanni Tamborrino. Ha diretto e interpretato, tra gli altri, i testi di Antonio Tarantino Piccola Antigone e Cara Medea e Namur, e ha diretto opere liriche (al Petruzzelli di Bari) e numerosi spettacoli anche in Inghilterra e Giappone, ricevendo premi. Con i Radiodervish ha realizzato In search of Simurgh (Premio dello Spettatore a Teatri di Vita).

Francesca Mazza, attrice protagonista del teatro contemporaneo italiano, ha lavorato a lungo con Leo de Berardinis con il quale ha fondato il Teatro di Leo negli anni ’80. Ha lavorato, tra gli altri, con Alfonso Santagata, Raul Ruiz, Fernando Solanas, Jacques Lassalle, Julie Ann Anzilotti, Fanny & Alexander e Pietro Babina. Con la direzione di Andrea Adriatico ha interpretato, tra l’altro, Madame de Sade, Il ritorno al deserto, Non io e il film Il vento, di sera. Ha vinto il Premio Ubu due volte, nel 2005 e nel 2010.

Visioni critiche

Mai finirei di vedere. Debutta A porte chiuse a Teatri di Vita

L’artista corre tra due fuochi. Il primo fuoco ci porta all’esterno: si è artisti per uscire dalla solitudine (pur restando nella solitudine), sacrificando l’unità (a volte l’identità) e scegliendo il sentiero della simpatia, vibrando con gli altri, accucciandosi nelle sale d’attesa, meravigliati dalla possibilità di essere diversi, rianimati dalla volontà di non tacere i tratti, le storie e i destini altrimenti dimenticati e dispersi e che non vorremmo mai finire di vedere. Ma eccoci poi  usciti in pieno mondo, costretti a fare i conti con l’altro fuoco, quello che dall’enciclopedico ci porta al gesto singolo (su carta, sul palco, nel suono), alla separazione e alla scelta. Sono i due fuochi del particolare e dell’universale (o, in altri termini, dell’estetica e dell’etica: ma cos’è un’opera d’arte, se non un esempio etico?)

Non pare pretestuoso applicare una simile metafora “spaziale” per uno spettacolo come “A porte chiuse. Dentro l’anima che cuoce” di Andrea Adriatico, una prima assoluta che il 15 ottobre ha segnato l’inizio dell’edizione 2016 (la dodicesima) del Festival Vie e insieme l’apertura di Teatri di Vita e della sua stagione tondellianamente Post-moderna. Il testo di Sartre, motivo d’ispirazione dello spettacolo, esaspera la limitazione dello spazio e la dilatazione del tempo, immaginando l’assenza di uscita e il rischio dell’eternità per tre sconosciuti che si ritrovano all’inferno, costretti in una stanza, insieme per sempre.  Lo spazio è inoltre la spina dorsale tematica del progetto “Atlante” che si propone di esplorare la posizione dell’uomo nello spazio urbano; dopo i monumenti di “Bologna, 900 e duemila”, il progetto prosegue con l’interno inferno di “A porte chiuse”.

Adottando il “qui ed ora” (Italia, 2016) come filtro principale sia della drammaturgia, (condotta con Stefano Casi) che della regia, Andrea Adriatico corre apertamente il rischio di uno spettacolo sproporzionato, sviluppando la sua prospettiva così a ridosso di uno dei due fuochi (quello del particolare) che il quadro finale, pur ricco di scorci suggestivi e ipotesi impensate, minaccia di rovesciarsi spesso sullo spettatore, troppo sbilanciato. Il testo del filosofo esistenzialista (andato in scena nel ’44) si poneva alla ricerca di un equilibrio tra i tre casi particolari proposti e il destino di Ognuno in rapporto a Tutti; anche se un contemporaneo come Bontempelli rimproverò a Sartre di avere scelto, per i propri protagonisti, delitti che potevano limitare nello spettatore l’immedesimazione, il senso che ne deriva alla lettura è molto lontana dall’eccesso di contingenza e dall’abuso di citazioni dello spettacolo di Adriatico. Il punto di fuga centrale adottato sembra spostarsi in maniera un po’ troppo arbitraria e incongruente, trovandosi a tratti troppo lontano, altre volte troppo vicino allo spettatore.

Questo smottamento di piani ha tuttavia anche una funzione di stimolo e pungolo: ma quale,  tra il dramma di Sartre o il caso Regeni, sia il pretesto dell’altro, non è facile  da stabilire. Portare in scena Giulio Regeni e il suo volto martoriato come nuova Sindone dei nostri giorni, segno concreto del passaggio del male sulla terra, risponde a una profonda motivazione etica che mi sembra non solo convincente, ma necessaria. Anche nell’opera lirica, museo scenico per eccellenza, le operazioni di  “attualizzazione” ormai non costituiscono in sé motivo di scandalo, ma neppure d’interesse; la coerenza, se non la necessità, di simili proposte rimane una caratteristica, se non indispensabile, assai gradita. Su questo aspetto, lo spettacolo (dedicato “a Giulio”) mostra eccessi e discontinuità, con forse troppa cronaca sulla pur solida struttura letteraria originaria. Non s’invoca nessun purismo, né si grida al tradimento dell’autore; ma i nuovi nomi dei personaggi, i funerali mafiosi, la bandiera fatta a strisce mi hanno confermato come non ci sia bisogno di ambientare un dramma in Italia per parlare agli Italiani.

Oltre alla drammaturgia, un’altra occasione mancata è quella della concezione scenotecnica, incapace (oltre all’introduzione della verticalità) di animare il consueto cubicolo teatrale. Un testo come quello di Sartre, che nella cornice del dramma borghese ci porta a una vera e propria aporia scenica, prometteva e permetteva soluzioni più coraggiose, a maggior ragione in un progetto, come quello di Andrea Adriatico, rivolto proprio all’investigazione dei luoghi. Ad esempio, senza abbandonare la figura di Regeni, si poteva interrogare uno spazio atipico come quello della prigione. Il carcere (non tanto un tema, quanto luogo e inferno prossimi, cuore periferico delle nostre città) avrebbe potuto, senza snaturare affatto Sartre, innescare esplorazioni in molte altre direzioni. Non sarebbero mancati di certo gli interlocutori, percorrendo secoli di detenzione e carcerieri tra compagni di cella più o meno illustri: Gramsci o Genet, Cucchi o Wilde, Moro o Curcio. Senza citare i tanti dimenticati di oggi (uno per tutti, Liu Xiaobo, Nobel per la Pace 2010) che non hanno ancora trovato né la morte, né la porta, che vivono con una serratura come unico orizzonte, ma che ci ricordano come, in un luogo dove la vita è stata estirpata, è ancora possibile il pensiero. Affrontare con lo stesso coraggio impiegato nella riscrittura l’aspetto scenico poteva tenere unite con maggiore coerenza la volontà politica e il risultato estetico. Deludenti sono inoltre risultati altri aspetti dello spettacolo, come la scelta e l’utilizzo didascalici delle musiche di scena (che siano Mahler o Battisti) o la riproposta, in chiusura, delle foto di “porte chiuse” nate da un contest che, con tanto di biglietti omaggio, ha preceduto sui social il debutto dello spettacolo (ma questi ultimi, più che giudizi meditati, sono idiosincrasie di chi scrive).

Non delude invece per nulla l’interpretazione di tre protagonisti che confermano la capacità, già apprezzata in altri spettacoli, di costruirsi un sentiero interpretativo autonomo e rispettoso dei margini del lavoro altrui, caratteristica indispensabile in uno spettacolo fondato su continue metamorfosi di identità e che mette in incessante e strettissimo contatto gli interpreti.

Francesca Mazza punta tutto sul corpo, svestito e rivestito di un’aura burina ben calibrata, mentre l’anima vuota, puntellata da una sensualità volgare, ritrova accenti sinceri solo se stravolta dalla violenza. La fronte, la bocca, il volto di Gianluca Enria sanno attraversare archi espressivi ampi, tra abissi e convenzioni, spaziando dalla cipria di una finzione sorniona al fuoco di chi esige la verità. Buttato a capofitto nella disperazione già dal suo primo sguardo ad apertura di sipario, il pubblico combatte con lui e contro di lui, tra le violenze improvvise e il sudore del cranio. Infine Teresa Ludovico, alle prese con il ruolo più affascinante (complesso già nel testo originale, reso ancora più sfaccettato nella nuova versione), abilissima nello sfuggire l’incombente rischio della cerebralità; tutta concentrata negli occhi (lei, che costantemente ricorda agli altri di essere visti), realizza con pochi tratti l’ambigua ragion d’essere del suo personaggio: credo che, anche velandone ancora di più il volto, le sole pupille le basterebbero per avere voce e peso.

Il cameriere (Leonardo Bianconi), ridotto a demonietto vezzoso e maldestramente amplificato, è costretto a essere poco più di un diversivo, stravolgendo l’originario strumento anonimo e furtivo in un simpatico siparietto, iperdecorativo e onnipresente.

A ripensare a quanto scritto sopra, è piuttosto arbitraria e obsoleta la scelta come paradigma dell’arte (e della recensione) della prospettiva, ovvero di un inganno geometrico vecchio di secoli, per farci partecipi di un’illusione di spazio condiviso. In epoca di virtualità e incessante geolocalizzazione, la prospettiva sembra davvero un polveroso ritratto di antenato, al fianco degli smaglianti selfie quotidiani di ogni cittadino della rete. La volontà di organizzare con armonia lo spazio umano; la responsabilità di assumere una posizione (e una sola) nel cosmo; l’accettazione del limite (posso vedere solo un piccolo pezzo di mondo, e anche quello in parte): anche se il mondo fosse l’inferno dell’essere visti, l’artista, rimanendo strumento di una prospettiva tra universale e particolare, può continuare a essere garanzia di visione singolare e partecipata. Questo accade soprattutto nel teatro: qui, anche a occhi chiusi, palpebre stanche e sguardo scoraggiato, ci si può accorgere del mondo in quel modo nuovo e mai solo, un mondo che mai, con qualcuno davanti e qualcuno di fianco, mai finirei di vedere.

A porte chiuse di Andrea Adriatico apre VieFesival 2016

Ha debuttato il 13 ottobre A porte chiuse dentro l’anima che cuoce, prima assoluta per Vie Festival che porta il progetto “Atlante”, progetto per chi soffre di dolori al collo dati dal dover sostenere i dolori del mondo, dagli spazi monumentali delle città emiliane, agli spazi interiori.

A porte chiuse è ambientato in una stanza nell’aldilà, sopra un enorme letto sul quale sono letteralmente caduti, uno dopo l’altro, tre nuovi arrivati accolti da un angelo nero addetto a rassicurare i dannati dell’inutilità della sensazione di privazione data dalla mancanza di oggetti per la pulizia personale e di specchi.

I protagonisti sono un uomo e due donne condannati ad essere l’uno carnefice dell’altro per l’obbligatoria convivenza. La coabitazione sul grande letto fa sì che l’unico confronto possibile per ciascuno sia, per il resto dell’eternità, con gli altri due condannati che diventano così specchio e quindi giudici del proprio essere.

In quest’inferno- camera da letto vige il controllo totale dell’individuo esercitato da altri individui per nulla empatici con gli altri, bensì disposti a infierire dentro quelle porte chiuse che non lasciano scampo.

La condizione descritta dalla drammaturgia di Andrea Adriatico e Stefano Casi è derivata da quella descritta da Jean- Paul Sartre in “A porte chiuse” nel 1944, aggiornata con situazioni derivate dalla cronaca contemporanea. C’è un uomo dannato per aver ucciso la moglie e aver tentato di uccidere anche le due figlie con il gas, causa anche della sua stessa morte; c’è una donna egiziana morta di botte per la violenza del marito testimone inoltre del massacro di un giovane italiano di nome Giulio, amico del marito torturatore, a sua volta sfigurato da sevizie inaudite in quel Paese solo per aver voluto provare a studiarlo e a capirlo; c’è infine la signora Casa Monica, strozzina romana, omaggiata dai suoi concittadini con un grandioso funerale con carrozza tirata da cavalli e petali di rosa gettati da un elicottero.

Il personaggio più riuscito è sicuramente quello della sguaiata e volgare Casa Monica, interpretato dalla straordinaria Francesca Mazza, inquietante è l’apparente gentiluomo (Gianluca Enria) in gessato nero, in realtà assassino della propria compagna di vita, incarnazione dei tanti uomini che finiscono sulle pagine di cronaca nera definiti dai vicini “un brav’uomo”.

Elementi meno riusciti dello spettacolo, per il resto ben fatto e interessante, sono gli stacchi musicali e il lungo inserto audio della madre di Giulio Regeni inutilmente prolungato per rincarare il concetto già chiaro della brutalità delle violenze inflitte al giovane ricercatore in Egitto.

Ognuno di noi incontra nella propria vita delle porte chiuse entro le quali si consumano soprusi e violenze d’ogni tipo, dopo la visione dello spettacolo, che merita comunque lo sforzo di recarsi in via Emilia Ponente 485 in queste fredde serate autunnali, varrebbe la pena riprendere in mano la versione originale del testo di Sartre per allontanarsi dalla cronaca e riscoprire la sua capacità indagatoria dei rapporti umani e la sua profondità forse troppo alleggerita dalle mani dei due drammaturghi che l’hanno rivisitato.

Da Sartre a Regeni passando per un’Italia in lutto: è l’inferno ‘A Porte Chiuse’

L’inferno sono gli altri

È una delle battute finali nonché summa di A porte chiuse (1944). Ma per Sartre – ci spiega Stefano Casi, che per il nuovo omonimo spettacolo di Andrea Adriatico ha ritradotto il testo francese – ciò non significa che l’inferno sia la presenza degli altri, la convivenza con loro, bensì il fatto che gli altri detengano un segreto che non potremo mai scoprire: come appariamo. Gli altri sono il nostro specchio – e il loro è un riflesso perverso che ci fa penare.

«Tutti questi sguardi che mi divorano… […] Così è questo l’inferno. Non l’avrei mai pensato…»

Il regista abruzzese però non mette in scena Sartre né propone quella che si definirebbe un’attualizzazione, egli parte piuttosto dall’attualità per scavare nell’umano. I tre personaggi diventano qui propagazioni di alcuni protagonisti della recente cronaca italiana: i Casamonica (qui Monica Casa), l’uxoricida Pellicanò (qui Gabbianò) e una traduttrice trasferitasi in Egitto, convertita all’Islam per amore, poi vessata e picchiata fino alla morte. Questi – i dannati. Le loro tragedie – il loro inferno personale. La compresenza delle loro vite (concluse) – la loro dannazione.

Sul palco bolognese di Teatri di Vita la scena è ritagliata all’interno di un’alta parete che svetta a metà palco: qui è incastonata, come una sezione perfettamente cubica, una stretta stanza, minimale, dominata da un ingombrante letto rialzato a due piazze. Il materasso è coperto da un drappo nero su cui si intravedono solamente tre cuscini: uno verde, uno bianco, uno rosso. L’Italia è in lutto.

O l’Italia è un lutto?

I tre protagonisti cadranno letteralmente dall’alto, uno dopo l’altro, sputati giù sul letto da un largo tubo nero che sporge fra le luci. Custode di questo scarno infernetto un buffo angelo nero stile discoclub con tanto di cornine e ali kitsch. Il demonietto serve solo a introdurre poche regole ma chiare (e già intuiamo che il vero padrone non è un presunto Satana ma gli stessi “ospiti”). Qui non si spegne la luce, qui non si esce, qui non si lavano neppure i denti. Perché qui non si dorme. Qui non si vive. Qui si sta e basta. Senza troppe costrizioni, così è.

Insomma, è come se con Adriatico l’inferno fosse la pena di ritornare “sulla” vita senza la possibilità di redenzione, come se si negasse alla morte il sollievo della fine, come se l’oltretomba diventasse la tribolazione in uno stato di consapevolezza finalmente acquisita. Una visione, in fin dei conti, più classica e morale rispetto a quella sartriana.

Sarà così che poco a poco gli animi dei tre, confessandosi, si esaspereranno sempre di più, scoppiando in un triello di accuse, invettive, crisi, che tuttavia non sembrano o non riescono a raccontare altro se non la propria storia passata e il dolore che questa reca con sé.

Ed è proprio in questo, ci sembra, che il pur legittimo tradimento di Sartre fatica a sviluppare la riscrittura. Se la camera sartriana era un luogo simbolico in cui si ritornava all’esistenziale, a pulsioni che vanno oltre il vissuto personale imperniando la riflessione sull’identità come trappola dello sguardo altrui; qui invece il teorema «l’inferno sono gli altri» si convertirà in «l’inferno siamo noi» ma senza che ciò sia sostenuto da una drammaturgia sufficientemente solida.

L’impressione infatti è che Adriatico abbia ceduto a una certa urgenza ideologica (smarrendo la visione – drammaturgica – totale): denunciare coloro che fanno l’inferno in vita (agli altri) lasciandoli tribolare post mortem nell’inferno delle loro coscienze.

Tra video e audio testimonianze tratti dalla cronaca, musiche pop e una certa affettazione attoriale da teatro di prosa, aleggia un’aura posticcia volutamente pop che viene a scolpirsi (specchio riflesso) nella goffagine di questi tre individui condannati all’irrequietudine di un grande letto che non concede l’eterno riposo: ridicoli tutti eppure non per questo meno crudeli (anche se va notato che solo due dei tre sono “rei”, la terza – la traduttrice in Egitto – è “vittima” e quindi non si spiega la sua presenza se non per fare da gancio all’inserimento  del caso Giulio Regeni che appare, a nostro avviso, forzato e anche un po’ patetico – nel senso che è più un tributo sentito che un contributo ragionato).

Forse l’inferno siamo noi, forse lo è la nostra cara bella Italia buffona, o forse è il fatto che non sappiamo neanche confessarcelo e andiamo avanti con questa farsetta in cui, prima o poi, ci scappa il morto. E un morto è sempre vero, troppo vero. E allora, a quel punto, che si fa? Mostrare, denunciare, celebrare non crediamo sia la soluzione.

Segnali contrastanti

La semiotica studia i segni (e i loro significati), molteplici come i mezzi espressivi o i linguaggi utilizzabili – dall’immagine alla parola, passando per il semplice colore. Uno spettacolo teatrale, essendo sempre il risultato di una giustapposizione di linguaggi, dovrebbe essere costruito in maniera tale che i segni non risultino contrastanti. Come ci sembra avvenga, al contrario, nell’ultimo lavoro di Andrea Adriatico.
Iniziamo con un’analisi della traduzione di Stefano Casi che, nel complesso, convince – anche perché negli staccati e nelle pause fornisce una chiave di lettura dei personaggi particolarmente interessante. Sfruttandone appieno le potenzialità per la distanziazione dell’attore dal personaggio, grazie a una lettura brechtiana o straubiana, si potrebbe addirittura spazzare via l’equivoco del personaggio naturalistico, restituendo l’everyman di Sartre – nel cui inferno, del tutto laico e terreno, ognuno di noi (come l’everyman) vive la difficoltà del rapporto con l’altro da sé.

I tipi di Sartre, però, non sono stati colti appieno dal regista, che ha preferito sovrapporre più metodi interpretativi,
impadronendosi comunque dell’idea di tipizzazione, e presentando personaggi – in parte o in toto – diversi, per indole e colpa, dagli originali.
Il valletto, in primis, si trasforma in angelo caduto, troppo camp e poco miltoniano. Figura che lascia perplessi proprio perché, aldilà della ben nota diatriba sul sesso degli angeli, spiace che all’inferno il Ganimede di turno abbia rimandi gay – in una società, come quella italiana, che non brilla per essere gay-friendly.
Per quanto riguarda il personaggio colpevole di ignavia, oltre al dubbio che suscita l’idea che una donna maltrattata sia per forza indolente (non sempre una relazione intima disfunzionale si rispecchia in un’effettiva incapacità di gestire all’esterno situazioni conflittuali), ci si chiede perché inserire anche la figura di Regeni. Quelle immagini appaiono pretestuose all’interno del discorso già fin troppo complesso della conversione religiosa, sovrapposto a quelli della violenza domestica e del femminicidio. Troppo lampante, e subito denunciato, il rimando del colore delle federe alla bandiera italiana e forse semplicistico colpevolizzare solo il nostro Paese. Certo, l’Italia non conta più nulla sullo scacchiere internazionale – ma ce ne accorgiamo solo ora? Non quando i francesi bombardavano la Libia, stizzosi dei nostri rapporti amichevoli con un Paese produttore di petrolio? E se dobbiamo gettare al vento bandiere, potremmo pensare anche a quella europea – spazzata via da razzismo ed egoismi nazionali – o a quella britannica (visto che Regeni era in Egitto per ricerche commissionate da Cambridge). Ma non divaghiamo.

Anche il personaggio insieme Rom, usuraia, infanticida (in un Paese che ha ormai una Legge, come la 194, che permette scelte consapevoli), e per di più salutata come un capo cosca, sembra portare su di sé troppe stigmate, non sempre congruenti.
E arriviamo al finale. Se i video sono le proiezioni mentali dei morti, dovrebbero circondarli su quattro e non tre lati. Perché i morti sono rinchiusi all’inferno e la mancanza della quarta parete, soprattutto durante le proiezioni, si nota. La porta che, nel testo di Sartre, sarebbe sempre aperta non può essere la quarta parete dato che nulla ne indica la presenza, né nel finale la si riconosce come possibilità di fuga.
Al contrario, il video – al termine della rappresentazione – mostra una serie di porte, tutte chiuse. Ma viste dall’esterno. Qui è l’errore semiotico più grave perché i personaggi sartriani sono chiusi dentro il loro reciproco inferno, e non fuori – in attesa che i battenti si aprano. L’ultima immagine, l’unica congrua, ritrae forse un migrante che aspira a oltrepassare un muro – di confine o di un cosiddetto centro di accoglienza. Eppure questa immagine tanto emblematica vede il proprio valore inficiato dallo stravolgimento del senso sartriano. Se l’inferno non sono gli altri, ma ognuno di noi è artefice del proprio, Regeni sarà colpevole della propria morte così come il migrante di essere nato nel Paese sbagliato – e non sarà più vittima di un sistema economico ormai mondiale, che considera la carne umana merce inflazionata.
Segnali contrastanti forniscono significati altrettanto dubbi.

A porte chiuse: all’inferno non si scampa

Un plot incalzante di vicende agghiaccianti e di misfatti da cronaca nera, viene catapultato all’interno di un inferno moderno, quello di Jean Paul Sartre: una stanza senza finestre e senza porte, dove tre personaggi si ritrovano a condividere lo stesso letto e non sanno perchè.

Una traduttrice (Teresa Ludovico), un esperto in comunicazione (Gianluca Enria), una donna ossessionata dagli specchi (Francesca Mazza) e il personaggio del Valletto di Sartre (Leonardo Bianconi) – che qui diventa un diavolo alato in dipendenza da cocaina – “giocano” a procurarsi l’inferno post morte, torturandosi a vicenda e tirando fuori la verità sul motivo della loro fine e della rispettiva dannazione all’inferno. Tutti sono colpevoli di misfatti, omicidi, suicidi, ingiustizie.

La tortura è innescata anche nel meccanismo di fruizione dello spettatore all’inizio dello spettacolo. Nella prima scena l’emissione vocale del personaggio del Valletto è sottoposta a effetti di distorsione sonora, che provocano effetti di disturbo anche nell’esperienza percettiva dell’ascolto. La domanda è: questa voce martellerà le nostre orecchie per tutto il tempo dello spettacolo? Siamo all’Inferno.

La trappola, la tortura, il turbine incessante provocato dagli altri, diventa la ragion d’essere del coesistere. Dall’alto di un letto impazzito che può scendere o salire a comando, i personaggi diventano voyeur del mondo e possono commentarlo, come in un giornale radio o in un telegiornale. Sorprende il riferimento al giovane ricercatore Regeni scomparso recentemente in Egitto, la cui immagine viene proiettata e che diventa protagonista all’interno dal racconto del personaggio della traduttrice.

La stanza-inferno diventa un luogo da capogiro, il rifugio degli “assenti”e  dove è impossibile dormire: “è possibile chiudere le palpebre da morti?”

La pena più grossa di questi personaggi è stata l’esistenza stessa, perchè “l’esistenza precede l’essenza”, per dirla con Sartre. Nel pensiero dell’autore francese ognuno scandisce la sua vita attraverso la propria azione, non c’è nessun creatore, ma solo la condanna di essere libero, libero di agire (da qui la scelta musicale di “Il mio canto libero” di Lucio Battisti di sottofondo in alcune scene nella prima parte dello spettacolo). Cos’è che allora condiziona fortemente l’umanità? Il giudizio del mondo sull’individuo, “l’inferno sono gli altri”. L’inferno diventa – in maniera abbastanza esplicita – metonimia della realtà, con uno sguardo sull’attualità dei nostri giorni.

Lo spettacolo di Andrea Adriatico non trascura i dettagli di scena e è di forte impatto estetico sin dall’inizio. I personaggi sono fortemente caratterizzati, il loro dramma enunciato, ma non approfondito. I protagonisti di Sartre restano fisicamente e letteralmente intrappolati nella messa in scena teatrale.

La domanda posta da uno dei personaggi all’inizio dello spettacolo “cosa succederà?” seguito dalla risposta “non lo so, aspetti”, crea un’aspettativa su qualcosa che non avverrà mai. L’azione di scena implode nei racconti dei personaggi, per chiudere con un finale interpretato in maniera poco convincente e inaspettato.

In chiusura i quattro personaggi scoprono che è possibile uscire da quella stanza infernale, ma preferiscono restare tra di loro, “a porte chiuse”, quelle porte psicologiche e verbali della tortura che essi stessi si infliggono.

Torna il capolavoro di Sartre nella versione di Andrea Adriatico, in prima assoluta per Vie Festival.

Un dibattito serrato alla ricerca della situazione perduta e mai più recuperabile, la sorpresa di un improbabile angelo nero che insiste sull’importanza di prendere coscienza della situazione – inaspettata, assurda ma reale – da parte del nuovo arrivato. Uno scontro ravvicinato che evita gli sguardi diretti tra chi accetta il proprio ruolo di dannato (ma rifiuta ancora la colpa, allontanandola dal proprio ricordo) e chi per necessità, o caso, deve ricoprire all’infinito il proprio.
Poi i reclusi aumentano, in questo girone dell’inferno quotidiano, dipinto dall’esistenzialista ateo Sartre, privo di porte e di ogni via di fuga; in questa specie di anticamera da studio medico con un letto che rimanda, forse involontariamente, a quello dell’analista. Uno alla volta arrivano anche altri ospiti che, lentamente, sostituiscono l’angelo caduto nel suo ruolo di carnefice involontario.
Uno scontro tra peccatori, o che – a misura – si riconoscono come tali; con le figure femminili in parte vittime di amori degenerati, perduti, abortiti. Mentre la figura maschile non può che essere quella del femminicida.
Nel dialogo a tre si snocciolano le scelte possibili, spesso non fatte; le rinunce e le umiliazioni, mal sopportate; e lo scorrere ineluttabile del tempo della vita, intessuto di fatti ai quali i dannati possono solo assistere (come in Dante) senza più prendervi parte.
Le scelte sbagliate (aggettivo usato per semplicità) possono essere del singolo o di intere popolazioni accomunate in un tragico destino. Si è all’inferno per non aver reagito ai soprusi di un coniuge, o al lento asservimento a un regime totalitario o a un sistema economico. Laddove la ribellione alla situazione contingente è additata come l’unico modo che avrebbe evitato la condanna.
Il limite tra il bene e il male, così sottile e indeterminato, sembra meglio evidenziato nella situazione egiziana (impersonata dall’italiana che, per amore, si converte all’Islam e segue il marito violento nel suo Paese). Là dove una cosiddetta rivoluzione ha portato all’instaurazione di un potere religioso, che ha preteso l’asservimento del mondo femminile, soppiantato da un nuovo colpo di Stato, che fa del controllo su tutti gli individui il proprio caposaldo. Mentre il nostro Paese, ingranaggio del potere capitalistico, osserva il disastro che avviene alle sue porte intervenendo con ritardo o solo per servilismo nei confronti di chi detiene il vero potere.
Gli accenni alla contemporaneità sono demandati soprattutto ai video, degli sfarzosi funerali mafiosi di Roma – prima autorizzati e solo successivamente aspramente criticati – al caso Regeni.
Lo spettacolo sembra quindi suggerire, a livello di immagini, la presenza di un potere che solo marginalmente appare ma che incide fortemente sulle vite degli individui. Ma, nel contempo, sembra contraddirsi a livello testuale, con i personaggi che si assumono le proprie colpe, artefici ognuno del proprio destino, nudi di fronte alla condanna dell’altro da sé.
Un inferno, questo della versione di Adriatico, del quale i personaggi sono causa prima e unica; contrapposto a quello universale, nel quale siamo tutti vittime.
La recitazione si fa via via sempre più concitata, perdendo in precisione e distacco.
L’immagine di Regeni, statica e posticcia, contrasta con le evoluzioni dell’elicottero che getta rose sul funerale mafioso, o sul ballo appassionato di chi continua a vivere e a provare emozioni. Mentre la serie di porte sbarrate, nel finale, viste dal di fuori, rimanda a un inferno che ci escluderebbe – in un cortocircuito di senso che non convince. Così come quell’insistere sul fatto che la colpa della dannazione è solo individuale, in un mondo – come il nostro – che sembra uscirne a mani pulite, a dispetto del sistema economico e sociale imperante, delle politiche e della propaganda dei massmedia, della distribuzione della ricchezza e delle esclusioni dai diritti.

A porte chiuse, debutto del Vie Festival firmato da Andrea Adriatico

Attraversiamo il Parco dei Pini avvolto nella nebbia di fine ottobre per raggiungere Teatri di Vita, uno dei luoghi dove si svolge la nuova edizione di Vie Festival. Già presente nella prima giornata di programmazione lo spettacolo “A Porte Chiuse” continua anche nei giorni seguenti ad attirare molti spettatori, che come noi si accomodano nella sala  in attesa dell’apertura del sipario.

Va in scena in anteprima assoluta il lavoro di Andrea Adriatico alla regia coadiuvato da Stefano Casi nella costruzione della drammaturgia. Due maestri del panorama non solo bolognese che affrontano il tema dell’inferno umano, girando intorno a un’ispirazione tratta direttamente dall’opera del 1944 di Jean Paul Sarte, “A porte chiuse”. Casi e Adriatico accarezzano il lavoro di Sartre, lo corteggiano, costruendo uno spettacolo che trae ispirazione dal testo originale a volte in maniera troppo fedele, e si presenta scorrevole incuriosendo lo spettatore. Il lavoro però si inceppa e scivola a poche decine di minuti dall’inizio dello spettacolo.

La scenografia intelligente, sapientemente costruita in modo da sottolineare l’esasperazione dei personaggi, la sofferenza che li colpisce, risulta più che efficace pur dimostrando un problema probabilmente tecnico di aderenza alla storia: se lo spazio è chiuso, in più di un momento l’apertura verso il pubblico lima l’effettiva chiusura scenica. Curiosa l’entrata in scena del primo personaggio, accolta da un buffo demonietto che ben rappresenta l’idea che possiamo farci di un valletto infernale. A seguire, con un ritmo incalzante, piombano letteralmente in scena tutti i personaggi mancanti, arrivando cosi ad averli nella stanza, davanti a noi. Due donne e un uomo (accompagnati dalla presenza costante del demonietto, immobile ma comunque molto presente), sono tre peccatori. Prima di scoprire qual è il loro peccato, salta già all’occhio un’intuizione che non lascia ben sperare: le federe dei cuscini abbracciati dai personaggi sono palesemente quelli della bandiera italiana. C’è aria di ramanzina, non sappiamo ancora se ben contestualizzata.

Arrivato il momento di presentare i peccatori scopriamo che nella descrizione rappresentano perfettamente i problemi che affliggono la società contemporanea. L’uomo, il più convincente, è all’inferno per aver tentato di uccidere la moglie e le figlie e poi se stesso, eticamente scorretto sul lavoro è anche sensibile all’uso di psicofarmaci. Il primo scivolone arriva con la lussuriosa, rappresentata da una donna rom arricchita grazie all’usura e dipendente dai corteggiamenti maschili, provocatrice e volgare, ma soprattutto, infanticida. Già questa scelta tradisce una falla, incastrando il personaggio in una rappresentazione stereotipata che risulta fin troppo semplicistica nel suo essere bigotta. Il grande crollo si ha con la seconda donna, l’ultimo personaggio a raccontarsi in scena. Piombata all’inferno perché colpevole di ignavia, non capiamo come questo peccato si colleghi al suo essere donna italiana convertita all’Islam, vittima di violenza domestica e morta per le percosse. Ancor meno comprensibile e ai limiti dell’offensivo il motivo delle botte il motivo della morte: la donna intratteneva una relazione con un giovane ricercatore italiano, in Egitto per i suoi studi. Che ci si voglia credere o no, parte una proiezione del volto di Giulio Regeni, come sottofondo la voce della madre che racconta lo sdegno della famiglia per la sua morte e le vicende collegate; il momento già strabiliante, negativamente, vede la conclusione con il lancio delle federe-bandiera verso la platea in segno di rifiuto dell’italianità. Da qui in poi scivoliamo velocemente e pacificamente verso la fine, terminando l’ellissi di una riflessione sull’inferno creato da noi stessi, in quanto uomini, per noi e per gli altri.

Nonostante lo sconcerto per l’incursione troppo forzata della figura di Giulipo Regeni, al quale è dedicato lo spettacolo, un elogio va fatto a gran voce. Gli attori, con interpretazioni magistrali, sono riusciti a costruire personaggi di spessore nei particolari, nei volti, nei movimenti. Gianluca Enria, Teresa Ludovico, Francesca Mazza riempiono la scena circondati costantemente dal diavoletto Leonardo Bianconi rendendo piacevole lo spettacolo. Gradevolissima suppur come già detto non appieno efficace la scenografia, aperta al dialogo col pubblico anche se debole nell’uso delle proiezioni, tanto di Regeni, che delle porte impresse sul telo a fine spettacolo. Le ultime immagini ci accompagnano verso la fine di uno spettacolo che lascia l’amaro in bocca, diviso tra citazioni non ben contestualizzate e inserimenti forzati all’interno di un’opera che di per se poteva essere estremamente contemporanea.

All’inferno che giorno è.

L’ occhio geniale di Andrea Adriatico scansa il giro burino degli slip e si intabarra la testa di un chador grigionero per dirci attraverso il tormento di Gianluca Enria tutto lo sforzo di non soccombere, tutta la grinta e l’aplomb necessari per cercare di farla franca, per imboccare una fuga anestetizzante che però non si pone. Già perché l’inferno qui non ha porta, non ha calendario, non ha neppure un carnefice certo.

Non si capisce neppure esattamente da quale colpa ci si debba salvare, come nella vita che corre, dove nella corsa si inciampa e si sgambetta e si calcia pensando di farla franca.

Tolti pure gli specchi, la condanna però appare, lucida e ineluttabile. Sta in quell’eterna misura a cui la dinamica di relazione ci inchioda, quello scarto algebrico che quota il nostro agire rispetto a quello altrui, quel gioco borghese al massacro, così profondamente incarnato nel nostro dna, che alla lunga ci consuma e ci fa uscire rabbiosi e perdenti, sbagliati, feriti, assassini come sono tutti quelli che si difendono per non essere assassinati.
Danzatori di un tango che tradisce per sua natura, che ci innamora per tutta la sua carica seduttiva, per il suo cronico ammiccare ad un amore che la vita promette e poi non sa mantenere.
Bravissimi gli attori Teresa Ludovico, GianlucaEnria la strameravigliosa Francesca Mazza. Regina rom, regina di tutta la femminilità selvatica.

Tangano anche loro, con i corpi e le parole, costringendoci alla vita pensata, riattraversata, che magari potesse essere trasportata da ali nere, visto che un tempo ballava e godeva e piangeva.
E si sente che nella cura della drammaturgia c’è Stefano Casi perché è di Stefano la capacità di rovesciare gli sguardi e i piani.

Anche il rimando alla vicenda di Giulio Regeni a cui lo spettacolo è dedicato, è un rimando che riesce a centrare perfettamente il nostro sguardo contemporaneo e stanco.

Il replicarsi a di un calvario reso abnorme dalla nostra piccola capacità di ammetterlo , il calvario a cui nessuno è potenzialmente esonerato tanto meno tu tanto meno io. La tragedia criptata dentro una logica macroscopica da cui arriva a spaccare il muro del suono la voce di una madre, carne e anima senza più alcuna pace. La tragedia moderna che è , tentacolare, e prende corpo, doloroso, fino a screditare le illusioni di un umanità aperta e trasversale.

Non c’è redenzione nell’inferno di Andrea Adriatico. Non ci sono bandiere da salvare. Ogni occhio sbarrato dell angelo , stupendamente interpretato da Leonardo Bianconi, è un affondo nel mondo che cerchiamo faticosamente di riuscire a mantenere, ogni occhio sbarrato è un monito, e spacca a suo modo il vuoto. Fa venire voglia di trattenere il fiato, che chissà che l’angelo nero per un caso fortuito non sia attratto da qualcosa d’altro e non ci riconosca.

Da Sartre ad Adriatico: un canto libero dall’oltretomba

13 Ottobre 2016: all’età di 90 anni muore il Nobel per la letteratura Dario Fo nello stesso giorno in cui il celebre premio viene consegnato al cantautore Bob Dylan: evento emblematico di un nuovo paradigma oltre che causa di un’accesa querelle sulla pertinenza dell’assegnazione. Nella stessa giornata di commemorazione e dibattito, ai Teatri di Vita di Bologna, dopo una dedica rivolta all’attore scomparso, va in scena lo spettacolo inaugurale della stagione. Si tratta di uno dei primi titoli sul cartellone del festival Vie e si ispira a una famosa pièce di un ulteriore premio Nobel.. o quasi: l’autore in questione è infatti Jean-Paul Sartre  che nel 1964 rifiutava l’importante riconoscimento per salvaguardare la propria opera dall’istituzionalizzazione. La pièce ispiratrice dello spettacolo in scena è invece A porte chiuse, del 1944, che nella riproposizione di Andrea Adriatico, drammaturgo insieme a Stefano Casi, porta il sottotitolo Dentro l’anima che cuoce.

L’Inferno sartriano in stile secondo impero è qui reso visivamente da una stanza di pochi metri quadri, rialzata a centro palco, con parquet a terra e pareti bianche attorno. Niente specchi, né finestre. Solo uno pseudo grande letto con lenzuolo nero al centro, una statuetta in bronzo di Atlante e un valletto/angelo nero con fisico scolpito, voce falsata dal microfono, boxer lucenti e ali piumate. Tutto ha origine con una dissolvenza dal buio sulle note de Il mio canto libero di Battisti che accompagnerà, in diversi momenti, l’esordio dei tre protagonisti lanciati dall’alto. Hanno con sé cuscini dai colori rosso, bianco e verde e non potrebbero essere più diversi fra loro: quest’Inferno, curiosamente in sintonia con l’Italia di oggi, opera infatti un’economia del personale: Giuseppe Gabbianò (pubblicitario in vestito), Diana Tricase (traduttrice in Egitto con tunica nera e burka) e Monica Casa (capelli ramati e abito succinto) sono condannati a dannarsi a vicenda. Portatori di storie, visioni e atteggiamenti inconciliabili mal sopportano la convivenza e lo sguardo giudicante dell’altro in grado di farsi “folla”. Il dramma personale si mescola al sociale in una continua escalation di esasperazione: c’è chi soffre la mancanza della propria immagine perché deve vedersi per sentirsi esistere e chi si duole della condivisione perché ha bisogno di raccoglimento. Ci si provoca e ci si molesta, ci si racconta con sempre maggiore onestà. Ciò che esce fuori da questo canto libero è il ritratto delle piaghe che affliggono individuo, nazione, mondo.

Giuseppe in preda agli antidepressivi ha ucciso la moglie per poi togliersi la vita, Monica (Casa!) è un’usuraia e Diana è stata vittima di un femminicidio. Non mancano riferimenti a specifici episodi di attualità così, mentre una delle protagoniste assiste al proprio funerale, riconosciamo proiettate ai muri le immagini mediatizzate dell’assurdo funerale di Casamonica e vediamo poi, sul letto innalzatosi, la proiezione della foto di Regeni – dopo aver sentito Diana parlare dell’amante Giulio ucciso – con in sottofondo le parole della madre del ragazzo che racconta del volto sfigurato e irriconoscibile del figlio. Sembra di essere di fronte a una proposta che vuole aggiungere alla pièce originaria degli apporti riguardanti il sociale, ma se può suonare come un luogo comune dire che la realtà a volte supera ampiamente il teatro, il meccanismo dello spettacolo non è stato in questo caso in grado di sostenere la potenza delle parole gravi e accorate di una madre.
La spettacolarizzazione non ha aggiunto molto alle riflessioni che a suo tempo sono state stimolate dai servizi dei telegiornali. Quella che ho visto è stata piuttosto una riscrittura del dramma in chiave moderna con una conclusione interessante in cui c’è un mutamento di paradigma: non più “l’inferno sono gli altri” sartriano, ma “l’inferno siamo noi e ce lo portiamo dentro”, come dice Diana, mentre sullo sfondo di un’antica musica ruotano proiettate le porte fotografate degli spettatori per il contest che ha preceduto lo spettacolo.

“A porte chiuse”: quei dannati petulanti nell’Inferno del vivere moderno

Un catafalco nero come le ali del diavolo custode. Una stanza senza nessuna apertura, per i tre morti che si lamentano subito del troppo caldo che fa all’inferno, dell’assenza di uno spazzolino da denti, di uno specchio, di qualsiasi arnese quotidiano possa confortarli. Sono peccatori, i tre protagonisti di “A porte chiuse”, lavoro di Andrea Adriatico in scena da giovedì a stasera al Teatro delle Saline. Opera, si legge nella locandina, tratta da “Huis Clos” di Jean-Paul Sartre e liberamente adattata nella produzione firmata da Akròama con Teatri di vita e Teatri di Bari. Issati su un’impalcatura perigliosa, Gianluca Enria, Teresa Ludovico e Francesca Mazza, forse per l’incomoda posizione, recitano con toni concitati e non sempre comprensibili.
Leonardo Bianconi, in un succinto e malizioso costume di lamé, è un Caronte che parla poco e niente spiega, alle anime dannate, delle punizioni riservate agli assassini. Non occorrono, nella drammaturgia di Stefano Casi e Andrea Adriatico, né i forconi né l’acqua bollente dell’iconografia dantesca. A torturare i trapassati bastano le parole: quelle che si scambiano tra loro, raccontandosi storie non esemplari di infanticidi, uxoricidi, tentata strage. Monica, Diana, Giuseppe: petulanti, traditori, gelosi, ancora pieni di odio, sono indulgenti con se stessi: “L’enfer, c’est les autres”, scrisse Sartre nel 1944. A attualizzare lo spettacolo, l’accenno, questo davvero straziante, a Giulio Regeni e alla sua terribile fine. Il suo viso, nelle immagini proiettate sullo sfondo e la voce della madre che ha riconosciuto il figlio, all’obitorio, solo dalla forma del naso. A punta, dice, unico tratto ancora integro.
Rappresentazioni che individuano nella pressione sociale gran parte del disagio contemporaneo. Pare venire da un altro mondo e da un’altra epoca all’apertura del sipario con “Il mio canto libero” di Battisti.

La disconnessone tenacemente perseguita e temerariamente coltivata fra il testo di partenza e la sua possibile messa in scena non sempre produce esiti teatrali convincenti. È il caso di quest’ultimo spettacolo di Andrea Adriatico che, quasi dimenticandosi del testo dello scrittore francese, lo “riscrive” e inventa nuove situazioni drammaturgie che ci allontanano dalla vicenda e dai temi del testo. A porte chiuse propone infatti una storia in cui l’incomunicabilità fra i tre personaggi chiusi in una stanza non è l’effetto di una crisi esistenziale che ha radici in un “male di vivere” filosofico, culturale e ambientale prima che sociale, ma è proprio all’origine di una dinamica comportamentale che gli aliena gli uni agli altri sottraendo loro qualsiasi livello di reale comunicazione verbale e isolandoli in uno spazio /inferno molto soggettivo, soffocante e solipsistico. Nel tentativo di rendere contemporaneo un testo drammatico scritto nel 1944, Adriatico ne distorce il senso letterario principale, oltre a quello spaziale e visivo, annegandolo in un vortice di rimandi alla cronaca d’oggi, eccessi di citazioni per la maggior parte disordinate e incongrue.

Probabilmente, soltanto per dirci che il vero inferno non “sono gli altri”, ma il mondo che ci circonda, la sua assurda violenza con la quale quotidianamente conviviamo e che, in qualche modo, ci appartiene, dove il potere è per eccellenza anonimo (mass media, social network) e non più riconducibile all’individuo e alla sua responsabilità. Tutto ciò ci conduce a una rappresentazione teoricamente fondata ma eccessivamente sovraesposta, fortemente discontinua, in una moltiplicazione labirintica di piani d’azione che generano solo confusione, arbitrio scenico, attualizzazioni forzate, come quella di esporre la drammatica, martoriata immagine di Giulio Regeni (a cui l spettacolo è dedicato), ultima, tragica icona delle torture e storture dei nostri giorni. I tre attori protagonisti sembrano soffrire di una visione regista molto ridondante e asimmetrica recitando, ciascuno a suo modo, quelle parole che dovrebbero costituire alla fine la rete invisibile del loro perpetuo inferno.

Misteri e pensieri in mezzo a quei cuscini rossi.
A Teatri di Vita lo spettacolo “A porte chiuse” costruito sulle parole di Jean-Paul Sartre

Era ancora in corso la guerra mondiale quando Jean-Paul Sartre lanciò la sfida di A porte chiuse: l’inferno non sono i pentoloni bollenti, gironi di fuoco, ghiaccio, fango, tempesta, l’inferno è un salotto borghese, “l’inferno sono gli altri”. Andrea Adriatico riprende questo testo del 1944, e con l’ausilio drammaturgico di Stefano Casi lo trasporta in un’attualità che ha molto di infernale, con un pensiero alle rivolte degli anni 60. Lo spettacolo torna in scena da stasera a venerdì, alle 21, nella sala di via Emilia Ponente 485. Si apre con Canto libero di Lucio Battisti e si chiude con Inferno di Claudio Villa. In scena un grande letto nero riassume l’ambiente “secondo impero” suggerito da Sartre. I tre personaggi pensati dal filosofo sono calati nei nostri giorni, mantenendo caratteristiche dell’originale. C’è un uomo che non ha avuto il coraggio di vivere, interpretato da un concentrato Gianluca Enria, una traduttrice dall’egiziano, un’asciutta Teresa Ludovico, morte per le percosse subite dal marito, una signora che si proclama dell’alta società e si scopre provenire dal basso, affidata a una Francesca Mazza capace di giocare con i toni più esteriori per definire un personaggio che finge senza pudori. Un valletto con ali nere accompagna i 3 dannati sul letto, nel quale non potranno mai chiudere occio, sotto luci impietose. In un sito privo di specchi non subiranno altri tormenti che riflettersi negli occhi, nelle parole, nei giudizi degli altri. La verità e la menzogna si confonderanno, in un gioco al massacro che il regista porta fin nella cronaca dei nostri giorni. La donna dell’alta società ricorda il suo funerale con macchinoni, carro funebre con cavalli, petali di rosa sparsi da un elicottero, musica del Padrino. La traduttrice ricorda Giulio, un ragazzo ucciso a botte come lei, là in Egitto. E partono video che ci portano verso servizi visti intelevisione, le esequie del “re di Roma”, il boss Casamonica; la storia di Giulio Regeni, con le parole toccanti della madre, di come lui fosse un ragazzo d’oggi, “contemporaneo”, che studiava, viaggiava ricercava lontano da casa, con una domanda su cosa riserva il futuro a quella generazione. Qui sta il cuore delle questioni di Adriatico, con cuscini infernali bianchi rossi e verdi, in uno spettacolo da vedere, pieno di misteri e pensieri.

A porte chiuse, la stanza della tortura di Adriatico

L’inferno è il luogo dove l’anima dei peccatori viene relegata ad espiare i propri peccati, un luogo simile al palcoscenico, dove il personaggio viene imprigionato, messo a processo e torturato, seguendo l’intuizione che Giovanni Macchia illustra nel suo saggio Pirandello o la stanza della tortura (1981). E in A porte chiuse di Andrea Adriatico, andato in scena dal 25 gennaio al 3 febbraio presso Teatri di vita, i tre personaggi del dramma di Jean-Paul Sartre sembrano proprio venire reclusi dal regista in una stanza/scatola cubica, con al centro un letto in stile “secondo impero” che all’occorrenza può essere rialzato tramite un elevatore, trasportando con sè i tre condannati. Questi, nell’intrecciare attraverso il dialogo i loro rapporti, individuano l’inferno in cui sono stati precipitati nella relazione con gli altri. I tre (interpretati da Gianluca Enria, Teresa Ludovico e Francesca Mazza) disvelano le loro colpe davanti al pubblico, eleggendolo così al ruolo di giudice e carnefice.

Il palco, divenuto idealmente tribunale, è appositamente rialzato rispetto al pavimento, rendendo verticale il rapporto con la platea ed incardinando quel tipo di separazione che può garantire l’ingresso di una prigione o la cornice di un quadro, come sembra enfatizzare il “demonietto carceriere” (Leonardo Bianconi) adagiandosi come un putto rinascimentale sul lato inferiore della cornice della “quarta parete”.

In questa messa in scena lo spettatore poi non si ritrova ad analizzare le sole colpe dei personaggi di Sartre, ma la società italiana intera, come individua visivamente il tricolore ricreato dai cuscini posti sulla scena. Adriatico infatti traveste fatti di cronaca recente con l’abito del testo scritto nel 1944 dal filosofo francese: le tre vicende restituiscono il caso di Giuseppe Pellicanò che, svitando il tubo del gas del suo appartamento, ha causato la morte della moglie; quello di Giulio Regeni, il ricercatore trovato morto nel deserto vicino a il Cairo sul cui omicidio pesa il forte sospetto di un coinvolgimento dei servizi segreti egiziani; e infine il funerale di Vittorio Casamonica, boss dell’omonimo clan romano, svoltosi nello sfarzo tra una carrozza trainata da cavalli e un elicottero che spargeva sugli astanti petali di rosa. Questi tre fatti degli ultimi anni vengono riesumati sulla scena da Adriatico come emblemi della crisi delle istituzioni che affligge la società italiana contemporanea: la famiglia, lo stato, le forze dell’ordine.

Le storie dei personaggi del dramma originale sono così intercettate ed interpolate con la realtà storica del nostro paese, anche attraverso l’inserimento video e audio di documenti di cronaca.
La messa in scena, attraverso un predominante uso del testo (riattualizzato dallo stesso Adriatico assieme a Stefano Casi), restituisce dunque un teatro che vuole coinvolgere lo spettatore ingaggiandolo criticamente ed emotivamente.

Andrea Adriatico porta in scena “A porte chiuse” l’opera più celebre di Jean Paul Sarte, che il padre dell’esistenzialismo compose nel 1944, in pieno periodo bellico. La puntualizzazione cronologica intende mettere in rilievo certi dettagli fatalmente “datati” del testo di Sartre, che d’altra parte poggia drammaturgicamente su leve assolutamente universali, come il senso di colpa e la colpa tout court, talmente incontestabile quest’ultima da poter esser poi prestata -all’interno del dialogo- al gioco patetico delle giustificazioni e delle negazioni, prima della definitiva punizione.

E’ forse per questo insieme complesso di fattori che la regia di Adriatico parte da un’operazione drammaturgica, una rielaborazione del testo volta ad avvicinare i tre personaggi sartriani a connotazioni fortemente attuali, partecipi del nostro comune sentire. I tre anti-eroi che lo spettatore si trova davanti hanno nomi e cognomi italianissimi e storie altrettanto riconoscibili, e se questo riconoscimento non combacia esattamente con la nostra prassi quotidiana più genuinamente tangibile, ciò avviene in quella bolla di “realtà aumentata” che ognuno di noi esperisce attraverso il racconto mediatico dei fatti di cronaca.

Difficile dire se questa operazione sia integralmente riuscita in termini artistici, ma di certo colpisce la decisione con cui viene maneggiato un materiale che potrebbe incutere timori reverenziali, sicuramente penalizzanti sul piano della creatività di cui necessita una messinscena. Adriatico esalta il portato grottesco e persino la verve brillante che è effettivamente contenuta nelle porosità di un testo così “sacrale”, ricordato e celebrato principalmente in virtù del suo portato filosofico. Si instaura allora quella sorta di affinità elettiva tra testo e regia che innesca un concerto di ritmi e di ideazione energica, corrosiva, continuamente sospesa sul filo dell’eccesso, che raggiunge un primo innegabile risultato: lo spettacolo possiede un suo disegno completo e complessivo, che congiunge e raccorda assieme tutte le sue componenti.

Lo si coglie già dalla primissima “istantanea”: la scena si presenta come un cubo ermeticamente chiuso, aperto -naturalmente- sul lato più vicino perché sia attinto dal nostro sguardo. Sì perché c’è al fondo del testo di Sarte una sorprendente elementarità di forma, quasi una sua ingenuità teatrale che ne rende geometricamente schematica la struttura e prevedibile la fruizione, tanto da rendere effettivamente comprensibile un suo trattamento forte in termini di regia. La nettezza del bianco e nero dominante sottolinea quasi questa classicità di fondo, che però nello spettacolo serve come pura partenza, come una tela immacolata che ci si appresta a macchiare con animosità liberatoria. Ecco che subentra la luce – acre, invadente più che chiara – … poi arriva il colore, minimale, nella misura data dalla presenza di pochi accessori di scena, essenziali, anzi contati. E naturalmente la musica, linguaggio sempre investito di funzione drammaturgica da Adriatico, ma in ciò sempre palatale, popolare, ballabile, lontana da ogni astratta perfezione.

In questo disegno, la scena deve dominarci, schiacciarci o meglio renderci lontano e sfalsato il binario sospeso su cui si muovono i tre personaggi. Sartre – come si sa – intendeva rappresentare dissacratamente e laicamente l’inferno, nelle forme anonime di un non-luogo (una rarefatta stanza d’albergo) in cui tre defunti si trovano a pagare le proprie colpe continuando a vivere. Nella messinscena di Adriatico la stanza tende a negarsi allo sguardo, fugge, si riduce spesso a linea, oltre la quale i personaggi si mostrano solo in sezioni corporee frustranti, per poi esplodere visivamente a sorpresa, come una “camera ottica” spettacolarizzante fin lì nascosta e compressa, quando la vista dei personaggi inforca un cambio di direzione e si apre sulla vita terrestre che continua senza di loro.

Questo gioco di sguardi tra dimensioni dell’io fa capolino in realtà tra le maglie dominanti del teatro di parola. Gianluca Enria, Teresa Ludovico e Francesca Mazza reggono con abilità la situazione scenica, componendo continui quadri dotati di una ludica finezza, che Leonardo Bianconi completa di una recitazione nervosa e vezzosa, capace allo stesso tempo di agire sopra e sotto le righe.

Cos’è l’inferno? Una camera da letto in cui due donne e un uomo sono rinchiusi per l’eternità: “L’inferno siamo noi, ce lo portiamo dentro”. Il testo di Jean-Paul Sartre (1944) è stato riproposto in versione contemporanea sul palcoscenico del teatro Kismet di Bari con “A porte chiuse. Dentro l’anima che cuoce”.

L’angelo nero Dante non tortura i suoi ospiti. Ci pensano loro a far emergere il meglio e il peggio dei sentimenti umani – un pubblicitario morto suicida, una donna convertita all’islam, una usuraia senza scrupoli. Provano anche a convivere, prima in silenzio poi con amore infine odiandosi: “Pensiamo sempre che i problemi della vita siano legati agli altri e non a noi stessi – spiega nel video l’attore Gianluca Enria -. Abbiamo riadattato il testo riorganizzando i personaggi nella quotidianità di oggi”.

Sullo sfondo un riferimento all’omicidio di Giulio Regeni (Egitto, tra gennaio e febbraio 2016) con proiezioni e l’audio di un’intervista alla madre di Giulio, dal forte impatto emotivo. La critica alla società italiana è simboleggiata dal lancio oltre la quarta parete dei copricuscini tricolore.

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Roberto Staglianò, la recensione sul testo in programmazione al Teatro Off/Off di Roma: ‘A Porte chiuse. Dentro l’anima che cuoce’,  tratto da uno scritto di Jean Paul Sartre.
‘A porte chiuse. Dentro l’anima che cuoce’ è un momento di grande teatro che deve essere visto, vissuto, partecipato. Lo spettacolo di Andrea Adriatico e Stefano Casi ha debuttato al teatro Off/Off in via Giulia il 21 novembre, con  le repliche cheproseguiranno fino al 26.
In scena quattro straordinari interpreti abilmente diretti da Andrea Adriatico. Teresa Ludovico è un’attrice e regista, direttrice artistica del Teatro Kismet e dei Teatri di Bari. Ha collaborato con Marco Martinelli e Giovanni Tamborrino e si è occupata di opere liriche e di spettacoli messi in scena anche in Inghilterra e in Giappone.
Francesca Mazza è insieme una delle attrici protagoniste del teatro contemporaneo italiano nonché fondatrice del ‘Teatro di Leo’. Con Andrea Adriatrico ha interpretato ‘Madame de Sade’, ‘Il ritorno al deserto’, ‘Non io’ e il film ‘Il vento,di sera’.
Leonardo Biancori, l’angelo nero, viene dalla scena bolognese e ha lavorato presso il Teatro comunale di Bologna e il Teatro di Vita.  Gianluca Enria è un attore e regista che è stato diretto da Ronconi, Bene, Camilleri, Corsini, Guicciardini. Anche lui ha già recitato in alcuni spettacoli di Adriatico, tra cui ‘Giorni felici’  e ‘Il ritorno al deserto’ e ha lavorato anche per cinema e televisione.
Insieme hanno saputo coniugare l’energia fresca e contemporanea, racchiusa nel testo-capolavoro di Jean-Paul Sartre, scritto nel 1944, con sensibilità, precisione nella forza narrativa, grande ascolto e generosità nel diventare la materia vivente del dramma  Non si può fare a meno di rilevare il grande lavoro di scrittura-adattamento del testo e di regia teatrale che sottintende all’ispirazione e all’azione che si vede e vibra, pulsante, in scena.
A porte chiuse rappresenta il dialogo tra due donne e un uomo Una traduttrice italiana naturalizzata in Marocco, una ‘regina’ rom e un eroe negativo e vigliacco intrappolati in quell’elegante salotto-camera d’albergo senza specchi-letto stile impero che è la metafora dell’eternità e di un aldilà dove loro scontano la loro pena di essere stati ignavi, vigliacchi, assassini, disumani  Rivivendo le loro storie l’uno diventa il torturatore degli altri due, costringendosi l’un l’altro a rivelare le loro scomode verità, le conseguenze del male che hanno covato dentro e hanno portato fuori miseramente o forse ineluttabilmente. Con grande senso di misura e senza eccessi di sbavature, Andrea Adriatico e Stefano Casi hanno saputo mantenere il fulcro dell’opera, uno dei capolavori della drammaturgia europea del ‘900. Hanno realizzato un’operazione di riflessione sull’attualità, inserendo elementi di cronaca e di racconto storico come il ricordo di Giulio Regeni.
Il pubblico in sala ha saputo cogliere la potenza e il dramma di una storia. Un uomo aperto al mondo, un giovane ricercatore dei nostri tempi, contro cui si è scagliato tutto il male di quello stesso mondo che lui stesso voleva semplicemente comprendere.  La voce ferma della madre testimoniava i dettagli di un incontro all’obitorio. Forse l’unico elemento di eccesso visivo, come il colore selettivo in fotografia, è stato lo zoom sulla punta del naso di Giulio. Un accenno di applauso, subito soffocato, ha però evidenziato, la grande sensibilità, il nesso tra scena e realtà.
L’emozione è stata molto forte e, coinvolgendo gli spettatori presenti in sala, essi stessi sono diventati i testimoni dell’inferno del loro tempo. L’inferno che sono gli altri quando uccidono. L’inferno che siamo noi quando lo accogliamo dentro di noi e lo nutriamo facendoci lentamente uccidere.

E se l’inferno non fosse tutto fuoco e ceppi ma fosse una stanza chiusa e isolata in cui non si può dormire né specchiarsi mettendo a nudo le proprie debolezze e le proprie colpe terrene? Se lo chiese Jean Paul Sartre con la pièce ‘A porte chiuse-dentro l’anima che cuoce’, un magistrale testo teatrale che oggi Andrea Adriatico e Stefano Casi portano in scena a Roma fino al 26 novembre al teatro d’avanguardia ‘Off/Off Theatre’ di via Giulia 20, una location elegante e alternativa come gli spettacoli che propone in cartellone. Il dramma del grande pensatore francese ripensato per l’oggi da Andrea Adriatico è tutto incentrato sui dialoghi fra tre personaggi che, introdotti all’Inferno da un valletto scanzonato rappresentato come un angelo dark e interpretato con verve trasgressiva da Leonardo Bianconi, sono le anime di un uomo Giuseppe ex pubblicitario (Gianluca Enria), e due donne, una ex traduttrice di testi dall’egiziano Diana (Teresa Ludovico) e Monica, la ‘regina di Roma’ che per vivere comprava debiti (Francesca Mazza) che sembrano capitate all’inferno per caso. La loro dannazione è l’assenza dal mondo e l’incapacità di interrompere la loro condizione ad esempio con il sonno, perché gli è interdetto dormire. Prigionieri apparentemente in una stanza asettica e adagiati su un grande letto a tre piazze mettono in scena l’orrore della condivisione forzata nell’epoca in cui lo sharing è diventato un dogma, perché la loro pena non è fisica ma una tortura psicologica: essi dovranno stare uniti per sempre messi con le spalle al muro Giuseppe dalla sua vigliaccheria perché è un omicida-suicida, Diana dalla sua lucidità spietata-nel testo ci sono anche interessanti e vividi riferimenti all’attualità della cronaca- e Monica dalla sua immensa vanità e dalla sua voglia da insicura di sedurre e apparire. Tre mondi apparentemente inconciliabili che però nel complesso sistema delle relazioni sociali si coagulano dando vita a un intreccio profondo che fa riflettere sull’attualità dell’inferno globale in cui ci troviamo a vivere ogni giorno. Perché “l’inferno siamo noi, ce lo portiamo dentro, costruendocelo con cura”. Andrea Adriatico approda così all’opera più esplicita riguardante la pressione sociale come fonte di sofferenza per l’uomo della nostra epoca. Da vedere per lo humour graffiante e parossistico e la potenza drammatica dei dialoghi, eloquenti ed efficaci che lasciano il segno.

“Si muore sempre troppo presto o troppo tardi. E nonostante ciò la vita è là, conclusa. Il dado è tratto. Bisogna fare le somme. Non si possiede altro che la propria vita.”
“<<L’inferno sono gli altri>> è sempre stato frainteso. Si credeva che intendessi con questo che i nostri rapporti con gli altri erano sempre avvelenati, che si trattava sempre di rapporti infernali. Ma è qualcos’altro che voglio dire. Intendo dire che se le relazioni con gli altri sono distorte, imperfette, allora l’altro non può essere che l’inferno. Perché? Perché gli altri sono, in fondo, ciò che è più importante in noi stessi, per la nostra conoscenza di noi stessi. Quando pensiamo a noi stessi, quando proviamo a conoscere noi stessi, in fondo usiamo la conoscenza che gli altri hanno già di noi, ci giudichiamo con i mezzi che gli altri hanno, ci hanno dato, per giudicarci. Qualunque cosa io dica di me stesso, vi entra sempre il giudizio degli altri. Qualunque cosa provi per me, il giudizio degli altri entra in esso. Il che significa che se la mia relazione è cattiva, mi metto nella totale dipendenza degli altri e poi, davvero, sono all’inferno. E ci sono molte persone nel mondo che sono all’inferno perché dipendono troppo dal giudizio degli altri. Ma questo non significa che non possiamo avere altre relazioni con gli altri, segna solo la fondamentale importanza di tutti gli altri per ciascuno di noi.”
Al nostro ingresso in sala, uno strano angelo dalle ali nere, con in mano una statuetta raffigurante Atlante, si occupa di quella che potrebbe essere una tavola, non ancora imbandita, o un letto o, vista anche la posizione sopraelevata, un ring. Una notissima canzone irrompe: quante volte l’avremo ascoltata, suonata, cantata, ma in questa circostanza le sue parole assumono un significato diverso, profetico, definitivo: “In un mondo che non ci vuole più, il mio canto libero sei tu. E l’immensità si apre intorno a noi, al di là del limite degli occhi tuoi. Nasce il sentimento, nasce in mezzo al pianto, e s’innalza altissimo e va, e vola sulle accuse della gente, a tutti i suoi retaggi indifferente, sorretto da un anelito d’amore, di vero amore.”, ripete Battisti prima di essere interrotto dall’arrivo su quello strano letto di un uomo; dalle prime battute comprendiamo di trovarci all’inferno, che l’uomo è un dannato e quello che credevamo un angelo è in realtà un diavolo, ma uno di quelli buoni, una specie di maggiordomo che spiega come sono organizzate le cose lì: niente fiamme, niente pene corporali, ma anche niente specchi o spazzolino per i denti, nessuna possibilità di uscire o di dormire. Presto si aggiungono al gruppo due donne, altre due anime condannate alla dannazione eterna. Ma, in assenza delle canoniche pene mutuate dalla fantasia dantesca, quale punizione dovranno mai aspettarsi i tre? Solo col tempo comprenderanno che sono condannati ad essere l’uno carnefice dell’altro (“l’enfer, c’est les autres”) per la forzata eterna convivenza, che si farà tanto più terribile ed angosciante quando capiranno che, pur non essendovi alcun vincolo che li costringa a non allontanarsi da quella claustrofobica situazione, l’obbligatorietà di quella condizione di controllo totale sull’individuo esercitato da altri individui per nulla empatici è l’unica possibile per affrontare l’eternità; “essere”, fosse anche solo come specchio per gli altri e come proiezione dell’immagine che gli altri hanno di noi, relegati al giudizio altrui, consapevoli che qualsiasi cosa noi facciamo per alterarlo ed apparire migliori, l’ultima parola spetterà sempre agli altri coi loro giudizi e pregiudizi, pur determinando l’impossibilità di una salvifica metamorfosi, appare comunque condanna ben più ragionevole ed accettabile del “non essere”.
Sin qui (e molto, molto oltre) la magnifica opera di Jean-Paul Sartre “Huis clos (A porte chiuse)”, capolavoro assoluto della drammaturgia di tutti i tempi che dal 1944 non smette di interrogarci sulla pressione sociale come fonte di sofferenza dell’essere umano e di porci di fronte a scelte risolutive; oggi Andrea Adriatico e Stefano Casi riprendono il filo del pensiero sartriano per licenziare il loro “A porte chiuse”, produzione dei “Teatri di vita” e seconda parte, dopo “Bologna, 900 e duemila”, del progetto “Atlante (progetto cervicale per chi soffre di dolori al collo, dolori da peso del mondo)”, giunta al Teatro Kismet di Bari per tre affollatissime repliche. Una lettura, quella di Adriatico e Casi, che si immerge nella recente cronaca italiana, dando una perfetta e precisa rintracciabilità dei tre peccatori dannati: l’uomo è Giuseppe Pellicanò che il 12 giugno 2016 svitò il tubo del gas del suo appartamento milanese, causando la morte della moglie e di due vicini di casa e ferendo gravemente le sue due figlie, ora condannato all’ergastolo, mentre le due donne rappresentano una musulmana convertita morta di botte per mano del marito, la quale amando clandestinamente Giulio Regeni, il giovane ricercatore ucciso al Cairo, ne avrebbe causato la morte per mano dello stesso marito tradito e dei servizi segreti egiziani, e una versione al femminile di Vittorio Casamonica, boss dell’omonimo clan romano, che qui diventa la signora Casa Monica, strozzina romana, il cui funerale, svoltosi nello sfarzo tra una carrozza trainata da cavalli, la banda che intonava il tema de “Il Padrino” ed un elicottero che spargeva sugli astanti petali di rosa, fu visto come l’attestazione del potere della mafia in Italia. Sono i nuovi mostri italici ma hanno radici ben piantate nel passato, hanno cuscini verdi, bianchi e rossi, e per spiare la terra (che si trova giù e non su) assumono le medesime pose dei dannati del Giudizio Universale michelangiolesco; ma se lo spostamento temporale ai giorni nostri e la perfetta aderenza con la realtà aggiunge emozione in alcuni passaggi (come in quello in cui riecheggiano le parole della mamma di Giulio Regeni), permettendo allo spettatore di sentirsi partecipe delle vicende narrate, non vi è dubbio che qualcosa sottraggano all’elemento psicologico del lavoro di Sartre; l’immedesimazione, quindi, è data – se vi è – dalla conoscenza dei fatti che vengono illustrati e non dal sentirsi accomunati ai personaggi che si agitano sul palco, così da far assurgere lo spettacolo al ruolo di testimonianza, di netta presa di posizione rispetto al degrado della società italiana e non.
Sotto la sapiente regia dello stesso Adriatico, risultano straordinari tutti gli attori impegnati; Francesca Mazza, nel ruolo di Casa Monica, Teresa Ludovico, in quello della musulmana, e Gianluca Enria, cui deve aggiungersi il convincente demone di Leonardo Bianconi, gareggiano in bravura, consegnandoci una versione della piéce assolutamente memorabile, giocata sul filo dell’istrionismo, perfetti nel rappresentare l’umanità moderna e le sue maschere, tanto quelle comiche alla Plauto quanto quelle tragiche alla Pirandello, a loro agio nel ritrarre ogni sfaccettatura, ogni anima di quelle tre anime dannate, quella intellettuale e quella popolare, l’inquadrata e la ribelle, la razionale e l’irrazionale, abilissimi nel fotografare, mettendole a nudo, le nefandezze della nostra società, facendoci comprendere che l’inferno non sono gli altri, ma siamo noi.