Sette bambine ebree. Un’opera per Gaza
di Caryl Churchill
traduzione di Stefano Casi
uno spettacolo di Andrea Adriatico
con Anas Arqawi, Liliana Benini, Nicolò Collivignarelli, Olga Durano
e Andrea Barberini, Giovanni Santecchia per le scene e i costumi
e Eric Benda, Lorenzo Fedi, Davide Riva per suono, immagini e allestimento
e Giulia Serinelli per la cura
prodotto da Saverio Peschechera
produzione Teatri di Vita
con il contributo di Comune di Bologna, Regione Emilia-Romagna, Ministero della Cultura
Anteprime: Festival Opera Prima – Rovigo, 13 giugno 2025
Teatri di Vita – Bologna, 16-17 giugno
Pergine Festival, 12 luglio
Prima nazionale: Kilowatt Festival – Sansepolcro, 16 luglio 2025

Nel 2009, impressionata dalla devastante campagna militare Piombo fuso lanciata da Israele su Gaza, Caryl Churchill scrive una breve composizione teatrale: 7 dialoghetti tra persone ebree adulte, intente a istruire altrettante bambine sul corso della Storia, dalle persecuzioni naziste alla creazione dello Stato di Israele fino ai bombardamenti sulla Palestina.
Un testo poetico e spiazzante, un sussurro e un grido, che mette al centro l’infanzia come capro espiatorio, testimone innocente o pretesto per le decisioni dei grandi, e ci interroga sulle responsabilità storiche e politiche dell’occupazione e dell’annientamento del popolo palestinese. Andrea Adriatico rilegge il testo portando in scena anche un attore palestinese, Anas Arqawi, dallo storico The Freedom Theatre di Jenin in Cisgiordania.
Dille che è un gioco.
Dille che è una cosa seria.
Ma non spaventarla.
Non dirle che la uccideranno.
“Vorrei che questo mio lavoro fosse ormai inutile perché sorpassato dalla storia. Forse se lo augurava anche Caryl Churchill quando lo scrisse, nel 2009, dopo l’operazione Piombo fuso. Purtroppo invece la storia si ripete, cerca nuovi ingaggi, insegue nuovi territori e si manifesta sempre con la stessa crudeltà e attualità. Ha poco senso rompersi il capo per definire se si tratta di genocidio o di semplice massacro, quello che sta avvenendo a Gaza ormai da un tempo lunghissimo. È orrore, come lo fu la stagione delle persecuzioni anti-ebraiche. Il testo di Sette bambine ebree contiene una sola indicazione: no minori in scena. Per il resto, come si addice a chi conosce la polisemia dell’arte, la scrittrice lascia massima libertà interpretativa. La mia si è appoggiata con uno sguardo sulla famiglia e sul femminile. Cioè sulle più importanti espressioni dell’ebraismo, per sua na- tura matrilineare e fortemente fecondo. Il ritratto è impietoso, ma la realtà lo è molto di più.” (Andrea Adriatico)
Caryl Churchill, nata a Londra nel 1938, ha esordito all’inizio degli anni ’60 come autrice di radiodrammi polemicamente antiborghesi ed è oggi considerata la più importante e più rappresentata autrice inglese vivente. La sua prima commedia Owners fu prodotta nel 1972 dal Royal Court Theatre. Tra le sue opere più significative, sempre portatrici di tematiche come il femminismo e le politiche sessuali, l’abuso di potere, il colonialismo e la guerra: Cloud nine, Top girls, A mouthful of birds, The Striker, Mad forest, A number, Far away.
Andrea Adriatico, fondatore di Teatri di Vita nel 1993, è regista teatrale e cinematografico, e docente di cinema all’Accademia di Belle Arti di Lecce. Con i suoi spettacoli esplora le urgenze dei tempi contemporanei, confrontandosi con la politica, lo sradicamento, i diritti e i generi, affrontando autori come Pasolini, Beckett, Mishima, Copi. I suoi ultimi lavori sono a teatro Le amarezze di Koltès e Il piacere I di D’Annunzio, e al cinema Gli anni amari (biopic su Mario Mieli) e il docufilm La solitudine è questa dedicato a Tondelli.
Anas Arqawi, attore palestinese, ha studiato teatro al Freedom Theatre di Jenin nella Cisgiordania oc- cupata, dove ha lavorato in spettacoli diretti da Nabil Al-Raee, Micaela Miranda, Zoe Lafferty e Di Travis. In Italia ha preso parte, con la regia di Andrea Adriatico, a diversi spettacoli (Bologna 900 e duemila, La maschia di Dowie, evǝ di Clifford, Le amarezze di Koltès) e al film Gli anni amari.
Liliana Benini ha lavorato con registi come Valter Malosti, Renzo Martinelli, Leonardo Lidi. Dall’incontro con Christoph Marthaler nel 2015 è iniziata una lunga collaborazione, che l’ha portata a recitare in Lulu, Universe Incomplete, Das Weinen (Das Wähnen), Orphée et Euridice, Giuditta, Der letzte Pfiff. Inoltre ha preso parte a film di Peter Greenaway (Walking to Paris, 2019) e Studio Asparagus (Papaya ’69, 2021).
Nicolò Collivignarelli fa parte del collettivo artistico Il Casale (dove l’Arte Trova Rifugio), nelle colline del bolognese. Nel 2021 vince il Bando Radar per giovani realtà teatrali promosso da ERT con Le Notti di Emilia, a cui segue nel 2024 Sbam. Sbattimenti del millennio. È stato diretto da Andrea Adriatico in XYZ Dialoghi leggeri tra inutili generazioni, Le amarezze di Koltès e Il Piacere I di D’Annunzio.
Olga Durano ha lavorato in teatro con Franco Parenti (La congiura dei sentimenti) e Leo de Berardinis (The connection), e nel varietà in scena al Gran Pavese Varietà e in tv a Drive In e La TV delle ragazze. Con Adriatico ha recitato in numerosi lavori da L’omosessuale o la difficoltà di esprimersi di Copi a Quai Ouest e Le amarezze di Koltès, da Jackie e le altre e Un pezzo per Sport di Jelinek a Is,Is Oil da Pasolini, da Chiedi chi era Francesco di Verasani a La maschia di Dowie.
Visioni critiche e social
A casa del signor Remo ci vediamo in otto, tutti seduti attorno al tavolo rotondo. Husam Abed è già arrivato da un po’. Ha messo il riso a cuocere, le lenticchie a bollire, le cipolle a stufare. Mangeremo insieme tra un’ora, dopo che ci avrà raccontato la sua storia. La sua storia è tutta nella grande scatola in attesa sul tavolo, quattro cassetti di cartone e scotch e una mappa del regno di Giordania, con confini d’altri tempi. Perché la sua storia, come tutti quelli nati in un campo profughi, non può cominciare né oggi né nel 1980, anno della sua nascita. Husam Abed è un artista di teatro di figura, musicista e regista palestinese residente a Praga dal 2015 che al festival Opera Prima di Rovigo, la manifestazione organizzata fino al 15 giugno dal Lemming Teatro e ormai arrivata alla ventunesima edizione, ha presentato in prima nazionale il suo spettacolo forse più noto, The Smooth Life, portato e premiato in molti altri festival europei, del Sud Est asiatico e del mondo arabo. Racconta la diaspora della sua famiglia, dalle foto degli anni Venti e Trenta in cui la vita palestinese scorreva tra un matrimonio, il teatro e un gruppo scout al primo campo profughi di Karama, in quel 1948 in cui tutto ebbe inizio, quando i suoi nonni furono deportati per la prima volta.
Come si può rappresentare la tragedia palestinese? Come è possibile condensare in un’ora quasi un secolo di storia e la questione più spinosa, vergognosa e irrisolta del nostro presente, nei giorni in cui l’assedio di Gaza seguito al 7 ottobre è esasperato in queste settimane dai raid contro Teheran? Abed lo fa con i gesti piccoli e quotidiani di pupazzi sgraziati che hanno il volto dei suoi genitori e dei suoi fratelli, con il tamburo e le canzoni tristi che accompagnano la narrazione, con il riso che prende vita, volto e nomi («mio nonno diceva che i chicchi di riso sono come i palestinesi che si spargono nel mondo») ed oggetti volutamente poveri e di recupero: lattine, spago, metallo, cartone, una sorta di lanterna magica con il vetro rotto, perché questo è quel che si troverebbe a Baqa’a, il più grande campo palestinese in Giordania dove Husam è nato e che è stato fino agli anni dell’università la sua vita. Il filo dei ricordi, dalle file per il cibo distribuito dall’Unwra che «un grasso arabo ci sequestrava per rivenderlo al doppio» ai giochi pericolosi con i fratelli, si mescola ai sogni inconfessati dell’infanzia («speravo venissero gli alieni a portarmi via o che la terra si aprisse per sempre, per dire addio a quelle tende»), alle ferite durante gli scontri nella seconda Intifada del 2011 e alla disillusione nei confronti dei politici fino alla scelta di portare la sua rivolta nel campo, non con le pietre ma con i primi spettacoli di marionette. «Facevo il chimico in una raffineria e un giorno avrei dovuto autorizzare venti automezzi pieni di kerosene destinate all’esercito americano. Avevo fogli e fogli da firmare. Ho tolto il camice e me ne sono andato. Da lì è cominciata la ricerca con il teatro». Il suo Dafa Theatre – vuol dire calore e intimità – si diffonde tra noi spettatori-commensali, testimoni del sogno di un giovane uomo che, come suo padre, nasconde con il sorriso la mestizia di un destino e affida al microcosmo del suo teatrino il messaggio politico di un intero popolo. «Un palestinese è per tutti o una vittima o un terrorista: come si fa a creare una nuova narrazione?».
Come in un dialogo a distanza quasi risponde, in questo festival pieno di voci e linguaggi, espressamente dedicato alle compagnie giovani vincitrici di un bando a cui hanno partecipato ben 824 realtà, la proposta di Teatri di Vita, unico gruppo “storico” della manifestazione insieme al Lemming, del cui nuovo lavoro, Attorno a Troia, torneremo a parlare. Andrea Adriatico e i suoi attori Nicolò Collivignarelli, Sofia Longhini, Olga Durano e Anas Arqawi, hanno presentato un’anteprima di Sette bambine ebree. Un’opera per Gaza di Caryl Churchill, famosa drammaturga inglese, classe 1938, nota per il suo teatro impegnato e antinaturalistico. Questo breve testo di sette quadri lo scrisse nel 2009, dopo la devastante operazione militare israeliana “Piombo fuso” su Gaza.
Sette frammenti, sette dialoghi tra adulti che discutono su cosa dire o non dire alle loro bambine in schegge di storia che coprono settant’anni, dalla persecuzione nazista a quel 2009 che prepotentemente parla dell’oggi. «Dille che l’amiamo». «Dille che avrà nuove amiche». «Non dirle che nella casa dove abitiamo vivevano gli arabi». «Non dirle che avevano detto che era una terra senza popolo». «Non dirle che se l’avessimo saputo forse non saremmo venuti». «Dille che abbiamo vinto». «Non dirglielo». «Dille che suo fratello è un combattente, un eroe». «Non dirle dei bulldozer». «Non dirle del muro». «Dille di non guardare la tv». «Non dirle che abbiamo ucciso un bambino per sbaglio». «Non la spaventare».
Scorrono come una litania, un oratorio, i devi/non devi di genitori e nonna (la matrilinearità della religione ebraica?) che attraversano il tempo e lo spazio, mentre il Chiostro degli Olivetani viene pian piano colonizzato da piccole ruspe motorizzate, dai droni, dalla piscina di chi si è ormai insediato e guarda quella terra un tempo promessa come la realizzazione di un possesso dovuto.
Sulle scarne indicazioni dell’autrice per la messinscena, che ha sempre presentato come un “evento politico” (nessuna bambina in scena, totale libertà rispetto al numero degli attori, niente diritti d’autore ma la richiesta di inviare una colletta al Medical Aid for Palestinians che dal 2002 opera a Gaza e Cisgiordania), Andrea Adriatico ha costruito uno spettacolo che troverà nelle prossime repliche (al festival Kilowatt di Sansepolcro dal 16 luglio) il giusto ritmo per l’incalzare ossessivo e ipnotico del testo. Proprio all’attore palestinese del suo quartetto, che durante lo spettacolo ha incessantemente raccolto foglie e rastrellato la terra, ha affidato la riproduzione verbale disarmante dei divieti e delle concessioni di questo requiem per Gaza: «Dille che è un gioco». «Dille che è serio». «Ma non la spaventare». «Non dirle che la uccideranno».
È un evento puntuale della edizione 2025 di “Kilowatt Festival” di Sansepolcro, ideato e tuttora diretto da Lucia Franchi e Luca Ricci, ancor più in questi tempi assai difficili per lo spettacolo dal vivo italiano, la pièce Sette bambine ebree della drammaturga inglese Caryl Churchill, nella messa in scena di “Teatri di Vita”.
In questo suo dialogo/non dialogo dentro il Tempo ma con lo sguardo fisso sulla circolare Eternità, una delle ultime scritture di una delle più importanti drammaturghe inglesi viventi, sette bambine attraversano la storia, cento anni di una storia millenaria.
Ma qui, in un certo senso, la messa in scena ideata da Andrea Adriatico, ribalta la prospettiva mostrando quei cento anni di storia attraversati, nelle parole degli adulti, doppi e a volte trini in scena, in una invisibile bambina nascosta in una carrozzina per neonati.
Ad ogni battito del cuore del tempo si ascolta una vibrazione di fase, la storia in una prospettiva esistenziale, dalle persecuzioni naziste, alla Shoah, al ritorno alla “Terra Promessa” e infine alla espulsione repressione dei palestinesi che quella terra, nella prospettiva del sionismo più radicale, si troverebbero ingiustamente ad abitare (da secoli!).
La scrittura scenica della Churchill, ben decifrata credo da Adriatico, mostra per ogni fase una doppia e opposta prospettiva, una scissione interiore, di questi adulti che dovrebbero ‘spiegare’ e poi ‘giustificare’ scelte che però non sono in grado di spiegare e giustificare, giustapponendo gli opposti con un effetto di trascinamento, anche ideologico, che così appare senza alternativa e dunque inevitabile.
La prospettiva della progressiva occupazione della Palestina araba, nell’orizzonte insieme della colpa della Shoah (e del senso di colpa occidentale usato come arma per tutto giustificare, come scriveva già a suo tempo Rainer Werner Fassbinder in alcuni controversi articoli) e della rivalutazione del destino biblico che quelle terre, si dice, ha promesso al popolo eletto dalla notte dei tempi, emerge da dialoghi contraddittori e quasi sfasati in cui lo scontro degli opposti genera una sorta di inevitabilità.
La parola della drammaturga è lucida e insieme disperata, di fronte al definitivo tramonto di ogni età dell’innocenza in quella bambina, ovvero in quelle sette bambine perse nel tempo del racconto e che sono già o saranno presto adulte.
Dire e tacere non sono opzioni opposte nella parola e nella scrittura, ma parte integrante di ogni loro espressione e significanza.
Così dal “Ditele che c’è ancora gente che odia gli ebrei” e correlato “Ditele che c’è gente che ama gli ebrei” dei tempi della persecuzione nazista (una delle tante, ma certo la peggiore) si arriva, nelle ultime quattro fasi del ‘ritorno’, al “Ditele che forse possiamo convivere” e correlato “No, questo non glielo dite”, cioè dall’essere perseguitati al perseguitare in una coazione a ripetere che sembra nutrirsi solo di vendetta.
Allora “Ditele che il pugno di ferro adesso ce l’abbiamo noi, ditele che è la nebbia della guerra, ditele che non smetteremo di ucciderli finché non saremo al sicuro…ditele che a me non importa se il mondo ci odia, ditele che a odiare siamo più bravi noi, ditele che siamo il popolo eletto, ditele che guardo uno dei loro bambini coperto di sangue, e cosa sento? ditele che sento solo la felicità che non sia lei”.
Sullo sfondo un palestinese, idea scenica ma forse non drammaturgica, assiste subordinato e umiliato con la sua bandiera e gli strumenti della sua servitù, che ancor più enfatizzano gli atteggiamenti dei nuovi ceti dominanti, borghesi e ricchi, tra prepotenza e vacanze al mare, che utilizzando il passato lo ripropongono ribaltato.
Alla fine questo personaggio, affogando la sua bandiera nella piccola piscina che domina la scena insieme alla carrozzella, ripeterà tutto quanto detto dagli altri personaggi, forse anticipando un nuovo inevitabile incendio di odio e vendetta che tutti travolgerà.
Il biblico Dio degli eserciti che schianta i nemici di Israele, infatti, è anche il Dio che Israele punisce, dal diluvio, al fuoco di Sodoma e Gomorra, agli infiniti suoi esilii e diaspore.
Da un testo che sa mostrare, attraverso una sua parte molto particolare, le contraddizioni dell’Umanità intera, Adriatico ricava una messa in scena che coglie gli eventi dell’oggi, con la sanguinosa pulizia etnica in corso a Gaza, non privandoli di una prospettiva anche politica ma riuscendo ad allargarla al di là della polemica, spesso sterile, di un mainstream che talvolta si fa cieco e indifferente.
Caryl Churchill lo scrisse nel 2009, all’epoca turbata da una precedente invasione Israeliana su Gaza, ma mostra purtroppo un’attualità che sa di profezia.
La bella e lirica traduzione di Stefano Casi rende, io credo, pienamente ragione al testo, aiutando insieme alla regia i quattro attori in scena (i bravi Nicolò Collivignarelli, Sofia Longhini, Anas Arqawi e Olga Durano) a coglierne ogni aspetto di poetica ritmicità all’interno di una struttura linguisticamente non agevole.
A ricordarci anche visivamente la sanguinosa tragedia in corso in Palestina, un famigerato drone domina e quasi perlustra, preannuncio di morte, la scena fin oltre l’uscita di tutti i protagonisti, spegnendo in gola e nelle mani degli spettatori i meritati applausi.
Uno spettacolo complesso e coinvolgente in uno scenario intensamente significativo, in cui i protagonisti sanno rendere con alienante efficacia quella sorta di non dialogo che scava l’intimità di ciascuno, ciascuno per la sua strada fino ad incrociare l’altro.
Un capolavoro scomodo e profetico
Uno scomodo capolavoro teatrale odierno, anche poetico, privo (malgrado i dissidi britannici al debutto) di propaganda. La massima drammaturga inglese vivente, Caryl Churchill, sulla spinta d’un conflitto tra forze israeliane e abitanti della Striscia scrisse 16 anni fa una tragica e secca sequenza di 7 scene, Sette bambine ebree. Un’opera per Gaza, assegnando frasari adulti a parenti di ragazze ebraiche dai tempi dell’Olocausto a quelli di migrazioni nel Medio Oriente mediterraneo in coincidenza col popolo palestinese. Lo spettacolo di cicli comportamentali che per Teatri di Vita ne ha tratto Andrea Adriatico, su traduzione di Stefano Casi, al Kilowatt Festival di Sansepolcro affida le schegge dei moniti orali a una comunità ben formata da Nicolò Collivignarelli, Olga Durano e Sofia Longhini, cui s’associa, extra copione, la presenza araba muta e speculare di Anas Arqawi. Il nomadismo della Shoah con carrozzella per infante mai visibile lascia il posto a insediamenti territoriali, al muro e al sentirsi in disputa con gli islamici. Giungono bulldozer, piscine e sdraio, e le raccomandazioni all’infanzia citano il terrorista di Hamas, i bambini morti, l’odio e la pietà. Al pensiero del popolo eletto la regia fornisce un piccolo drone. La bandiera del palestinese affonda. L’autrice aveva previsto l’ecatombe. Repliche di rigore dal 27 agosto a Bologna.
È la drammaturga inglese vivente più rappresentata, ma in Italia i suoi testi, spesso politici e fortemente ancorati alla realtà, appaiono sulla scena ancora in maniera sporadica. Parliamo di Caryl Churchill, autrice di “Sette bambine ebree’, scritto nel 2009 dopo la devastante campagna militare “Piombo fuso” lanciata da Israele contro la Striscia di Gaza e in cui morirono circa 1.400 persone, tra cui molti bambini.
Si tratta di un testo scarno eppure potente, fedelmente tradotto da Stefano Casi e allestito da Andrea Adriatico, che ha affidato le sette parti in cui è diviso a quattro attori, capaci di dare ritmo ad un testo dalla struttura non semplice: sono Nicolò Collivignarelli, Olga Durano, Sofia Longhini e Anas Arqawi. Dopo l’anteprima a Pergine Festival e il debutto a Kilonatt (Sansepolcro), lo spettacolo andrà in scena fine mese a Teatri di vita a Bologna, che lo ha prodotto.
Annunciati da pianti o rumori fuori scena gli attori e le attrici entrano ed escono, attraversando epoche diverse, dagli anni della Shoa alla creazione dello Stato di Israele fino ai bombardamenti su Gaza. Sono sette dialoghi che sembrano cantilene, dedicate a sette bambine evocate in scena da carrozzine vuote o piccoli fagotti. A loro, testimoni innocenti, sono rivolte le preoccupazioni degli adulti: «Non dirle che la uccideranno / Di’ a lei che è importante tacere», «Non dirle cosa hanno fatto / Dille che era coraggiosa», «Dille che c’erano persone che odiavano gli ebrei / Non dirglielo»… Cosa racconteremo al nostri figli? Dire o non dire? Ecco, le domande urgenti di Caryl Churchill, che Adriatico legge e traspone in scena ispirandosi al film “La strada dei Samouni” di Stefano Savona, storia di uno sterminio della comunità rurale che risiedeva a Gaza.
L’ultimo dialogo viene ripetuto anche dall’attore palestinese Anas Arqawi, fino ad allora muto e in disparte, che srotola nella piscina dei “ricchi” la bandiera della Palestina. Il drone che aleggiava in scena se ne va, ma il finale resta aperto, perché purtroppo odio e sofferenza sembrano non avere fine.
Niente applausi alla fine, Signori.
Siamo a un funerale e ai funerali non si applaude.
Siamo al funerale dell’umanità.
L’umanità, qualità morale dell’essere umano, che l’umanità, l’insieme degli esseri umani, pare aver dimenticato, soprattutto nella Terra in cui è nato proprio colui che doveva essere l’esempio e il Salvatore dell’umanità.
Andrea Adriatico ha messo in scena Sette bambine ebree. Un’opera per Gaza della drammaturga e scrittrice britannica Caryl Churchill, attualizzandone, giocoforza, i contenuti visto che il dramma fu scritto nel 2009 all’indomani della campagna militare israeliana chiamata Piombo fuso lanciata su Gaza e che oggi la situazione su quella striscia di territorio martoriato è addirittura peggiorata toccando vertici di disumanità mai più visti dal tempo del nazismo.
Ed è proprio da lì, dalla persecuzione degli ebrei da parte dei nazisti, che parte il dramma con donne, uomini e bambini, quelli che si riuscirono a salvare dall’Olocausto, costretti a scappare dall’Europa sempre più in mano a Hitler.
Da quella tragedia inenarrabile inizia il dialogo tra madri, soprattutto, e padri ebraici con le loro bambine, sette come a fissare i diversi periodi storici che hanno trasformato le vittime in carnefici con un drone che, nella parte finale dell’opera, la attualizza crudelmente come a dimostrare che, grazie alla tecnologia, i massacri e i genocidi riescono più facilmente.
È un’interpretazione del testo originale quella di Andrea Adriatico che mette a disagio perché pare non lasciare nessuna speranza alle nuove generazioni israeliane, costrette fin dalla carrozzina a introiettare solo odio, odio opposto ma condiviso dalle bambine e dai bambini palestinesi che una carrozzina forse non l’hanno mai vista e che stanno morendo a migliaia, uccisi dalle armi, dalle bombe e dalla fame.
Sulla scena due attrici, Liliana Benini e Olga Durano, nel ruolo di madre e nonna ebree e poi israeliane, e Nicolò Collivignarelli e Anas Arqawi (che palestinese lo è veramente), in quello del padre ebreo e israeliano e del palestinese.
Ci sono altre tre serate, già da stasera, in cui potete assistere all’opera per Gaza a Teatri di Vita di Bologna: non perdetela.
«Il ritratto è impietoso, ma la realtà lo è molto di più». Parto da queste parole di Andrea Adriatico perché è la seconda volta, nel giro di pochissimi giorni, che mi trovo a riflettere sul rapporto tra la realtà e la finzione. E anche in questo caso tra la realtà che ci arriva in diretta da Gaza e la narrazione di fatti reali, a decantazione avvenuta.
Rispetto alla vita così violentata, la finzione, che sia teatrale, letteraria, cinematografica, appare indolore, distanziata, risultato di emozioni e interpretazioni soggettive, restituita con chiavi di lettura che risentono della storia personale, sociale, politica, di chi la racconta.
Queste considerazioni mi si sono rimesse in circolo mentre assistevo a Sette bambine ebree. Un’opera per Gaza, presentato il 20 settembre scorso allo Spazio Rossellini, all’interno della rassegna “A Roma, a Roma!” curata da Francesca De Sanctis e prodotta da ATCL – Circuito Multidisciplinare del Lazio.
Spettacolo diretto da Andrea Adriatico dall’omonima composizione di Caryl Churchill, una cosa che pare scritta adesso, sull’onda delle notizie che non ci danno pace.
Invece è un testo del 2009, scritto subito dopo l’operazione Piombo fuso, ovvero una delle tante campagne militari di Israele contro Hamas, in seguito al lancio di missili di Hamas su Israele, in seguito all’occupazione di Israele di altri e altri ancora territori palestinesi, in seguito in seguito in seguito, insomma, viene da dire, niente di nuovo. Nemmeno che a farne le spese sono stati i civili, già allora ammazzati, bombardati, affamati.
La stesura a caldo determina l’incandescenza della scrittura, benché la scelta stilistica sia espressamente retorica, fondata su anafore che aprono dialoghi a due ribadendo il conflitto tra due volontà: dille che … non dirle che ….
Ogni battuta, dall’inizio alla fine, è introdotta da due indicazioni opposte che attivano sette brevi dialoghi tra persone ebree adulte, intente a istruire altrettante bambine sul corso della Storia, dalle persecuzioni naziste alla creazione dello Stato di Israele fino ai bombardamenti sulla Palestina.
Voci contrastanti chiamate ora a proteggerle con omissioni o distrazioni, ora a illuminarle mettendole in guardia da amici e nemici, da dissimili e simili.
Sapere o non sapere, credere o non credere, fidarsi o diffidare, ammettere o negare, mentire o confessare, ravvedersi o perseverare.
Si deve sapere che ci sono persone che odiano gli ebrei o è meglio ignorarlo? Esiste il nemico o siamo noi il nemico? Esiste il nostro simile con un volto diverso, una religione diversa? Dire o non dire che nei loro letti dormivano gli arabi? Che questi beduini sono soltanto animali che vivono tra le macerie? Che i bambini sono stati uccisi per sbaglio? Che continueremo ad uccidere fino a quando non ci sentiremo al sicuro? Che abbiamo attaccato coi razzi, che abbiamo conquistato nuove terre? Che le abbiamo rubate, che esercitiamo i controlli ai check point? Che siamo il popolo eletto? Dire o non dire?
La formula del conflitto intestino, utilizzata da Churchill, fa sì che la domanda da atto di accusa diventi (anche) autodenuncia, ammissione di colpa, volontà di riscatto, un invito a non giocare alla vittima, perseguitata nonostante la predilezione divina.
E queste domande, rivolte alle ipotetiche destinatarie bambine (soltanto evocate in ottemperanza all’unica irrevocabile indicazione d’autore che non voleva minori in scena) arrivano a noi ponendoci la grande questione della testimonianza, della trasmissione di valori, dello smascheramento di verità occultate, di generazione in generazione, della scelta onesta e dolorosa che si fa carico del passato e investe il futuro.
Lo spettacolo, prodotto da Teatri di Vita, si vale della traduzione di Stefano Casi, appositamente realizzata, e vede in scena due attori (Anas Arqawi, palestinese e Nicolò Collivignarelli) e due attrici (Olga Durano e Liliana Benini).
La scena è intenzionalmente satura di segni e simboli differenti, che rinviano a settant’anni di storia – vecchie carrozzine, caschi antiproiettile, divise militari, terra, acqua e poi giocattoli che paiono regali per bambini da allevare alla guerra, aerei militari telecomandati, ruspe, scavatrici. Il peggior gioco possibile, la guerra, come il peggior mondo possibile è quello che si allestisce sulle macerie, tra sedie a sdraio, canotti, drink a bordo vasca. C’è anche questo verso la fine dello spettacolo, come dire missione compiuta, la festa ha inizio. Farebbe impressione. Se sopra l’orrore non venisse stesa come un velo pietoso una bandiera. Rossa verde bianca e nera.
Sette bambine ebree. Un’opera per Gaza è l’ultimo spettacolo che Andrea Adriatico ha messo in scena ai Teatri di Vita. Il testo della drammaturga inglese Carly Churchill è di una potenza straordinaria perché riesce a presentare uno sguardo sul conflitto israelo-palestinese secondo un approccio assolutamente inedito.
“Vorrei che questo mio lavoro fosse ormai inutile perché sorpassato dalla storia. Forse se lo augurava anche Carly Churchill quando lo scrisse nel 2009, dopo l’operazione Piombo Fuso. Purtroppo invece la storia si ripete, insegue nuovi territori, e si manifesta sempre con la stessa crudeltà e attualità”: così scrive Adriatico a commento del lavoro, consapevole di aver compiuto un’operazione teatrale che, grazie alle sue scelte di regia, riesce a dialogare in modo spiazzante con questo presente storico, ponendo allo spettatore una questione centrale. Una questione che non solo non è risolvibile, ma è anche pericoloso affrontare perché riguarda il tentativo di capire come si creano le gabbie della storia, quelle trappole mentali che si incarnano nei corpi delle persone, che portano a una narrazione parziale o deformata dei fatti, a un incattivimento del sentimento del vivere, quel fardello di percezione di sé nel mondo che poi si esplica, senza correttivi, in prospettive di odio senza soluzione.
Ci si ritrova infatti, senza volerlo, tra le nebbie di quella domanda così tanto insopportabile e scomoda da risultare indigesta: come è possibile che il genocidio a danno del popolo palestinese sia compiuto proprio da una parte di coloro che portano sulle spalle la ferita storica della Shoah e delle persecuzioni naziste, coloro che proprio in virtù del loro dramma di vittime avrebbero dovuto farsi garanti di un mondo della convivenza pacifica? In questo senso è perfetto il testo di Churchill, presentato nella bellissima traduzione di Stefano Casi, perché consente ad Adriatico di estrapolare dal magma degli imperativi secchi e assoluti di cui è composto, il ritmo di un rimpallo di visioni operato dai tre personaggi ebrei in scena, un rimpallo che partendo dal momento storico della Shoah, li accompagna attraverso il loro insediarsi nello Stato di Israele, in uno spostamento continuo di testimonianza che si ridefinisce fino ad allucinarsi a strappi.
Un terremoto della coscienza che procede per scosse subentranti, scosse che spostano il sentimento di sé verso un cinismo autoreferenziale costretto a disarginare senza soluzione nella sciagura del genocidio in atto a danno del popolo palestinese. Ci si ritrova dentro quello che definirei il processo di costruzione di una psicologia collettiva, la psicologia dell’occupante, che pur portando su di sé la ferita storica delle persecuzioni antiebraiche, riesce ad anteporvi altre istanze.
Punto di forza di tutto lo spettacolo è che questa scalata al cielo verso l’impunità si esplica nella forma di dialogo con l’infanzia. Quelle sette bambine ebree di cui vediamo solo il simulacro, le fasce da infante o la carrozzina, verso cui gli adulti in scena si danno il compito di consegnare una memoria. Sono loro, le bambine, l’elemento cardine, quella prospettiva matrilineare su cui risiede la possibilità di cambiare il corso della storia. Eppure proprio a loro che potrebbero ricominciare il mondo, proprio a loro che potrebbero essere il vettore di un cambiamento verso una convivenza possibile, viene gettata addosso la visione manipolata degli adulti, quegli adulti che si prodigano nel tracotante esercizio di decidere quale elemento della storia raccontare o omettere, quale lascito trasmettere per indirizzare il sentimento di identità verso un orizzonte già definito.
In ordine cronologico ci passano davanti sette momenti storici, sette quadri famigliari rappresentati per elementi scarnificati, all’interno dei quali i tre attori in scena Olga Durano, Liliana Benini e Nicolò Collivignarelli riescono ogni volta e in modo eccellente a disattendere le nostre aspettative, quella speranza che almeno una di quelle bambine venga graziata con la possibilità di cambiare sguardo, di ritornare indietro, di disvelare l’occultamento. Tre personaggi che si presentano come in un album di foto famigliari. Abiti da circostanza, valigie, buldozer e occhiali da sole.
Immagini di fronte a cui non ho potuto fare a meno di domandarmi chissà dentro quante case, in Israele, ci sia un’intera collezione di immagini di quel genere. Foto della propria famiglia con valigie. O della trisavola che arriva in stazione. Foto di nonne che si sono immortalate davanti a un kibbutz facendo ciao con la mano. Foto degli ulivi. O di una splendida casa con piscina. Foto che qualche bambina, un giorno, magari, avrà guardato con reticenza, intuendo che intorno a quegli scatti nessuno le avesse raccontato la verità degli avvenimenti per filo e per segno, in quell’attimo della coscienza che è ancora sacro solo l’attimo prima di essere assorbito dalla prepotenza di una narrazione autoritaria. “Dille che abbiamo bisogno del muro per stare al sicuro. Dille che vogliono ricacciarci in mare”…
Una violenza culturale, un modo di farsi carico del passato che vede attorcigliarsi la vittima intorno al ruolo inesorabile di carnefice, a cui assistiamo noi spettatori inermi, sì, ma a cui assiste sul palco anche un quarto personaggio, il bravissimo attore palestinese Anas Arqawi, che assume in modo magistrale su di sé la figura intera del proprio popolo. È il suo sguardo che fissa l’orrore e che gli tiene testa a rinforzare di questo spettacolo la carica di denuncia. È il suo rimettersi al centro della scena, reimpossessarsi di una narrazione da restituire identica, pur nella sproporzione di forze, pur nella solitudine, che ci fa sentire la spinta a non soccombere. “Dille che siamo noi quelli di cui dispiacersi, dille che non possono parlare a noi di sofferenza. Dille che noi ora siamo il pugno di ferro, dille che è la nebbia di guerra”.
Ne sono uscita sotto la minaccia di un drone che continuava e perlustrare la scena e a fissarci con i suoi occhi satanici e rossi. Ne sono uscita arrabbiata e con una pazzesca sensazione di freddo. Un freddo che è andato crescendo fino a darmi i brividi nonostante in teatro ci fosse un clima perfetto e fuori fosse una serata calda di primo autunno. Un freddo che per la prima volta e dopo tanto tempo mi ha fatto comprendere l’atteggiamento di mia nonna, negli anni settanta, quando si rifiutava di spiegarmi la guerra: “lasciamo perdere che am ven fradd agl’oss!”. Al solo pensiero di spiegare la disumanità le veniva freddo alle ossa e lo diceva con quel tono perentorio di chi aveva capito che si possono raccontare i fatti ma non ci si può inoltrare nel tentativo di spiegare l’atrocità, il sentimento scadente, l’indifferenza totale per la sorte degli altri.
Cercare di comprendere le ragioni dell’odio è un esercizio carico di rischio, vuol dire maneggiare categorie così vicine alla morte da rendere pericoloso anche solo l’approssimarcisi, il camminarvi rasente… per la probabilità non così infondata di esserne travolti. Per l’ennesima volta chapeau a Andrea Adriatico e al suo teatro.
«Dille che abbiamo vinto /Non dirle che prima nella sua camera da letto dormivano gli arabi/ Dille che questa è la nostra terra promessa/ Dille che vogliamo la pace/ Dille che abbiamo ucciso i bambini per sbaglio». La drammaturga inglese Caryl Churchill scrisse queste battute quasi sotto dettatura automatica. Era il 2009 e Israele lanciava una violenta campagna militare su Gaza, denominata Piombo Fuso. Obbedendo a sua volta a una chiamata del presente, il regista Andrea Adriatico decide di rappresentare proprio oggi Sette bambine ebree, un’opera per Gaza. Churchill aveva composto la sua breve composizione in sette parti senza definire i personaggi, lasciando che quelle frasi contraddittorie e brutali uscissero come fuoco da una bocca senza nome. Unica avvertenza: niente bambine in scena. Adriatico crea sul palcoscenico precisi quadri di famiglia (con Liliana Benini, Niccolò Collivignarelli e Olga Durano) evocando momenti tragici degli ultimi cento anni, dai primi pogrom contro gli ebrei fino ai bombardamenti su Gaza. Nel finale, l’attore palestinese Anas Arqawi si impossessa del testo, creando un cortocircuito con il “reale” di questo nostro tempo, violentato e deviato dall’incessante show mediatico. L’applauso parte, giustamente, dopo una lunga pausa.






