Le amarezze


di Bernard-Marie Koltès

traduzione di Marco Calvani

uno spettacolo di Andrea Adriatico

con Olga Durano e Marco Cavicchioli
Anas Arqawi, Michele Balducci, Innocenzo Capriuoli, Rita Castaldo, Ludovico Cinalli, Nicolò Collivignarelli, Alessio Genchi, Giorgio Ronco, Myriam Sokoloff

scena Andrea Barberini, Giovanni Santecchia
aiuto scena Anna Chiara Capialbi
cura tecnica Lorenzo Fedi, Giovanni Iaria, Mirko Porta

produzione Teatri di Vita

con il contributo di Comune di Bologna, Regione Emilia Romagna, Ministero della Cultura

In accordo con Arcadia & Ricono Ltd per gentile concessione di François Koltès
L’opera “Le amarezze” è edita da Arcadiateatro Libri, “Bernard-Marie Koltès TEATRO – Volume 1”

Debutto: Teatri di Vita, 2 novembre 2023

prima rappresentazione in Italia

Un ragazzo al centro di un vortice di relazioni familiari e sociali, come in un sogno oscuro e indecifrabile, lacerato dai conflitti, dagli slanci dell’esistenza e dai presagi di morte: così il 22enne Bernard-Marie Koltès, nel 1970, ricostruiva per il teatro il romanzo autobiografico di Maksim Gor’kij “Infanzia”. Dovevano passare ancora sette anni prima che lo sconvolgente debutto di “La notte poco prima della foresta” ad Avignone off lo lanciasse come uno dei più importanti drammaturghi francesi, che ha lasciato il segno con opere come “Lotta tra negro e cani”, “Nella solitudine dei campi di cotone” e “Roberto Zucco”, prima di morire di Aids nel 1989, a soli 41 anni.

Andrea Adriatico è stato il primo regista a portare in scena in Italia le opere di Koltès, in una lunga e intensa frequentazione, da quel monologo avignonese (ribattezzato “L’ultima notte”, 1991) a due riduzioni da alcune prose (“Fuga”, 1992, e “Là dove ci si vede da lontano”, 1994), fino a “Il ritorno al deserto”, 2007 e per la prima volta in Italia “Quai ouest” al festival Vie del 2013. Adesso, ancora per la prima volta in Italia, Adriatico esplora il cantiere teatrale adolescenziale di Koltès con “Le amarezze”. Titolo ambiguo, spiegato così dall’autore: “Come l’acido sul metallo, come la luce in una camera oscura, le amarezze si sono abbattute su Alexis Peskov”, il protagonista muto dell’opera, che è il nome vero dello scrittore russo dalla cui autobiografia Koltès ha preso ispirazione, e che scelse come pseudonimo letterario “Gor’kij”, ovvero “L’amaro”.

Così concludeva la presentazione della sua opera e del suo Alexis il 22enne Koltès: “L’hanno aggredito con la violenza e la rapidità della grandine e del vento, senza che un tratto del suo volto abbia avuto un fremito. Stracciato, bruciato, in piedi finalmente, ha fermato gli elementi come si soffia su una candela. E la sua voce ha trafitto il silenzio”.

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Visioni critiche e social

“Non potrete scegliere il posto dove sedervi. Potrete uscire in qualsiasi momento lo desideriate facendo lo stesso percorso dell’ingresso. Nell’eventualità, all’esterno troverete aiuto, ma NON POTRETE RIENTRARE”.
Figure in divisa con fare minaccioso ti fanno entrare e sedere ai margini del cortile recintato di un carcere (? Lager? Gulag?) dove i prigionieri reclusi sembrano però avere come unica colpa essere attori, condannati a provare, a fare esercizi di improvvisazione agli ordini di registi esterni. Quello che stanno mettendo in scena è il testo autobiografico di Gorkij dal titolo “Infanzia” , attraverso alcuni episodi simbolici, evidentemente cruciali nel ricordo dello scrittore russo. Ma ciò che stanno recitando appare a tratti secondario rispetto all’atto stesso del recitare, al loro compito quotidiano, alla loro condanna. Quasi il discorso metateatrale cioè prevalesse su ciò che il teatro racconta, quasi la tragedia del protagonista venisse in secondo piano rispetto a quella di chi calca le scene.
Andrea Adriatico porta dunque ai Teatri di Vita, con tale scelta drammaturgica, “Le amarezze”, opera che Bernard-Marie Koltes, all’inizio della sua produzione (1970), dedicò al racconto autobiografico di Gorkij. Due ore di spettacolo-esperienza, adatte ad uno spettatore che ama le emozioni e le sorprese del teatro partecipato, con una compagnia affiatata e ben diretta (sotto l’ala di Olga Durano e Marco Cavicchioli), sono però forse troppo per il tipo di sistemazione offerta al pubblico. O forse sono semplicemente in sintonia con il disagio a cui sono sottoposti i protagonisti.
Buoni applausi… Anzi no: niente applausi. Perché? Vedere per capire.
Per Le amarezze di Bernard-Marie Koltès, Andrea Adriatico costruisce un lavoro corale – un gruppo di giovani con Olga Durano e Marco Cavicchioli (super!) e un dispositivo-macchina che ingaggia lo spettatore e la sua responsabilità di fronte alle dinamiche del conflitto relazionale (genitori e figli, uomo-donna) per portare sul finale al crescendo che richiama il presente e la guerra. Chiusi nel recinto e assediati da droni impazziti attori e attrici senza scampo sono il segno evidente della nostra impotenza.
Ieri sera era già quasi buio quando sono uscito, confuso e felice, da quella sorta di Guantanamo allestita all’interno di Teatri di Vita, a Bologna, buttato fuori a forza, insieme agli altri spettatori, senza nemmeno la possibilità di applaudire alla conclusione dello spettacolo.
Ma, d’altra parte, come eravamo stati avvertiti dal foglietto esplicativo consegnato insieme al biglietto d’ingresso, si trattava di ricercare la comprensione perfetta, ovvero quella che ignora l’esegesi e la giustificazione, per cui me ne sono andato tranquillo, sollevato dalla necessità di interpretare criticamente ciò cui avevo appena assistito.
Le amarezze, uno spettacolo di Andrea Adriatico, basato sul primo testo teatrale di Bernard-Marie Koltès, drammaturgo francese scomparso nel 1989, che a sua volta prende spunto dal romanzo autobiografico dell’autore russo Maksim Gor’kij, nonostante l’invito a non interpretarlo criticamente, movimenta nel cervello una serie infinita di domande, la maggior parte delle quali rimane senza risposta.
La più bella canzone di De Gregori, quella che gli ha permesso, per una volta, di superare il maestro Bob Dylan di cui ha praticamente copiato Three Angels migliorandola, Atlantide, svuotata dalle parole, ha contribuito a mantenere umana una situazione di scena orwelliana dove le attrici e gli attori, dotati di tute pseudo-militari e di microfoni altrettanto orwelliani, ci hanno ordinato di sederci e hanno dato vita ad un’opera inquietante quanto affascinante.
Gor’kij, che noi conosciamo soprattutto come l’archetipo dello scrittore del realismo socialista (e staliniano), in realtà si chiamava Aleksej Peskov e, da bambino, rimase prestissimo orfano di entrambi i genitori venendo affidato ai nonni, alla nonna soprattutto che è stata la sua stella polare.
Il nome di Aleksej è infatti quello che riecheggia durante lo spettacolo e sono sue le amarezze del titolo che, come dice Koltès, si sono abbattute su di lui come l’acido sul metallo o come la luce in una stanza buia.
E la sua voce ha inchiodato il silenzio costringendoci a riflettere profondamente su quanto avevano appena vissuto non convinti di esserci liberati dagli ingorghi dell’intelletto.
Grazie!

Immaginate un universo concentrazionario che contempli insieme, contemporaneamente e contestualmente un antimilitarismo sottopelle: letteralmente, è il caso di dirlo, dato che sotto il vestito niente, per i performers impegnati nell’estenuante gioco di ruoli e di salti spazio temporali che Andrea Adriatico agisce entro una millimetrica ricostruzione spaziale come sempre debitrice delle sue competenze scenografico- architettoniche ed avrete servita su un piatto molto caldo, una rivisitazione brillante di un testo desueto e semisconosciuto del drammaturgo puer aeternus Koltes.
Stiamo parlando delle Amarezze, uno spettacolo divertissement al nero di seppia, (come se Copi avesse invaso la santa madre Russia), che, senza modificare un rigo delle parole di Koltes, Adriatico ha tratto da un di lui lavoro giovanile e sperimentale, datato 1970: ovvero quando l’autore bello e ventiduenne, tanto per citare in tema, si esercitava a scomporre episodi biografici dallo sfortunato contesto familiare del grande e controverso scrittore russo Peskov, meglio conosciuto come Gorkij, ovvero, L’Amaro, per l’appunto.
Da qui, il gioco di rimandi e incastri forse non semplicissimo da cogliere, considerando anche la oggettiva ricchezza, complessità e paradossalità della biografia di Gorkij, ma che rende estremamente chiaro l’esprit du temps, quei favolosi anni là, impregnati di antiautoritarismo e antimilitarismo, come si diceva.
A buon intenditor, si potrebbe aggiungere, perché evidenti sono i nessi con quanto sta attualmente avvenendo….dissolta la santa madre Russia cosi come la Russia dei Soviet, forse era già chiaro quando Koltes si esercitava da cucciolo per poi fermarsi e fare un vero esordio con tutti i crismi un bel totale più tardi, come un nocciolo duro di violenza familiare quasi ancestrale, quasi tribale, persino dai contesti più vagheggiati utopicamente, ci avrebbe portato soltanto a catastrofi sempre più ravvicinate, in definitiva provocate da uno spirito colonizzatore che tutti ci pervade.
In scena, in questa sorta di campo da gioco cupo e coatto si fronteggiano due potenze patriarcali e matriarcali quali Marco Cavicchioli e Olga Durano, alternativamente capostipiti e vittime di una dinastia bastarda e miserevole che incarnano con misurata adesione carica, tuttavia, di pietas nei confronti di un destino da teatrino delle crudeltà. Intorno la compagnia, letteralmente militaresca, si attira, respinge, tormenta e seduce, secondo logiche coreutiche da musical dell’era dell’Acquario